Editoriale (Quaderno nn. 29-30, 17×24, de “Il Mangiaparole”) in corso di stampa dal titolo: La «nuova poesia» italiana tra Intelligenza Artificiale,  Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica. L’età della paranoia, Il nostro mondo è definito dal tipo di storie in cui crediamo,

La storia letteraria è un libro di ricette.
I cuochi adesso si atteggiano a poeti.
Lo chef di Milano tiene il computo degli invitati.
Adesso anche i contabili si pensano poeti.
Guarda bene l’indice, se non sei tra gli invitati è perché sei nel menù.
I poeti sono i camerieri che portano le vivande e le bevande.
I critici fanno i buttafuori.
In cucina c’è un’orchestrina gitana che suona con le fisarmoniche e i tamburelli.
I poeti preparano i piatti in cucina e intrattengono gli ospiti.
Dovunque ci sono schiocchi di dita e pacche sulla spalla.
C’è allegria.
(Giorgio Linguaglossa)

Editoriale (Quaderno nn. 29-30, 17×24, de “Il Mangiaparole” in corso di stampa dal titolo: La «nuova poesia» italiana tra Intelligenza Artificiale,  Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica

L’Età della paranoia

Il nostro mondo è definito dal tipo di storie in cui crediamo

 

Se dovessi dare un nome alla nostra epoca la chiamerei l’Età della paranoia. Il recentissimo incontro ad Anchorage, in Alaska, tra Trump e Putin è il cassico incontro di due fratelli siamesi: un gangster che si incontra con un criminale prezzolato. Trump, Xi, Kim Jon-ung, Kameney, Nethanyau, Orban etc., i piccoli e i grandi aspiranti dittatori dispersi per il globo, le masse che votano i loro paranoici rappresentanti non sono meno paranoiche dei loro capi. Il capitalismo cleptocratico non sa che farsene del capitalismo democratico, vuole disfarsene, ha ormai infranto le regole e le istituzioni della deterrenza che ci eravamo dati dalla fine della seconda guerra mondiale. Il capitalismo dei sovrani sovranisti e populisti vuole avere le mani libere, vuole semplicemente fare soldi, togliere ai poveri per dare ai ricchi. Il capitalismo è diventato paranoico, la guerra dei dazi ne è un esempio eclatante. È probabile che nel prossimo futuro verremo sottomessi da una super Intelligenza Artificiale da noi creata. Scrive Geoffrey Hinton, uno degli inventori della Intelligenza Artificiale:

«La maggioranza dei principali ricercatori di intelligenza artificiale ritiene che molto probabilmente creeremo esseri molto più intelligenti di noi entro i prossimi 20 anni. La mia più grande preoccupazione è che questi esseri digitali superintelligenti semplicemente ci sostituiranno. Non avranno bisogno di noi. E poiché sono digitali, saranno anche immortali, voglio dire che sarà possibile far risorgere una certa intelligenza artificiale con tutte le sue credenze e ricordi. Al momento siamo ancora in grado di controllare quello che accade ma se ci sarà mai una competizione evolutiva tra intelligenze artificiali, penso che la specie umana sarà solo un ricordo del passato».

I critici marxisti del capitalismo hanno impiegato la speciosa tesi secondo cui nel mondo del capitalismo maturo (quello finanziario di oggi e quello delle monete digitali) non si dà una Exit Strategy, non si dà più alcuna possibilità di uscire dal capitalismo (se non per ricapitombolare in un capitalismo di stato a carattere autocratico e coercitivo), così il neo-liberismo ha guadagnato il campo rimasto aperto e sguarnito dalle forze della critica.

Ma forse non è necessario sostenere la tesi di una Exit Strategy, non c’è bisogno di sortire fuori dal nastro di Möbius, perché stiamo sempre in un Dentro che è anche un Fuori. Il lato debole del migliore pensiero critico marxista (Benjamin, Adorno, Gramsci, Zizek) non è riuscito a pensare questa evenienza che la scienza ci ha rivelato, e si è trovato appiattito nel voler cercare una soluzione comunque e dovunque, e così è rimasto impigliato come una mosca nella carta moschicida.

Allora, non c’è che ribadire: Non si dà alcuna Exit Strategy, stiamo tutti Dentro. Ma in quel Dentro che è anche un Fuori.

La poesia odierna oggi non può che andare a prendersi le parole dal futuro in quanto le dimensioni futuro/presente oggi sono invertite, viene prima il futuro e soltanto in un secondo momento il presente. Non c’è modo di rammaricarsene. Ecco le ragioni che spiegano la depletazione derubricazione del passato (leggi tradizione) e la invasione del futuro nel presente. Ecco le ragioni che spiegano la depletazione e la derubricazione delle antiche categorie antinomiche /Avanguardia/Retroguardia, Tradizione/Antitradizione, Vecchio/Nuovo perché queste categorie si trovano nel nastro di Möbius, stanno in un Dentro/Fuori che altro non è che un Fuori/Dentro. Nel capitalismo sviluppato la dialettica Dentro/Fuori ha sostituito la antica dialettica hegelo-marxista Soggetto/Oggetto, Nuovo/Vecchio, con il beneficio di inventario dei marxisti ortodossi e degli aborigeni ortodossi, nonché degli eterodossi alla plastilina. Perché meravigliarsi dicendo che oggi non c’è futuro quando in realtà siamo immersi ogni giorno nel futuro, che ha sostituito il presente? Altra domanda retorica: la categoria del Nuovo in arte non è più in contraddizione con il Vecchio, in quanto entrambe si trovano, contemporaneamente, nel medesimo nastro di Möbius.

Per altro verso, avviene che la poiesis distopica non è più distopica allorché la caliamo nell’oggi distopicoLa poiesis autoconsolatoria e autotelica che imperversa nei paesi a minimalismo digitale agisce nel senso che si fa i fatti suoi, e così accredita, ammalia e gratifica i benpensanti da autofiction e da autonoleggio con messaggi da pacifinti e da pasticcini alla crema.

Gli umani delle società post-democratiche vivono in modo performativo le loro esistenze. Viviamo nella narrazione che gli altri danno delle loro vite meravigliose su Facebook, Instagram, TikTok, in cui si vedono solo gli highlights, i momenti magici, le torte nuziali. L’influenza delle narrazione raccontate da altri e, soprattutto, dai social media sulla nostra percezione del Reale ci convince che quella sia la realtà. Viviamo in un’èra di disinformazione e di sovraccarico di disinformatzia.

Viviamo ossessionati dalla ricerca di un sé autentico (come se il sé autentico fosse un diamante nascosto in chissà quale profondità ascosa del nostro inconscio).

Viviamo traumatizzati dalla scoperta del cambiamento. Cerchiamo l’anedonia, non la felicità. Abbiamo sostituito la felicità con il benessere, il benessere con il fitness, la personalità con una natura adattativa e performativa; gli avanzamenti tecnologici insinuano in noi sgomento e ansia da prestazione. Invariabilmente, sorgono narrazioni distorte, false: novax, notax, i negazionisti,  i revisionisti del passato, i terrapiattisti, i bipolaristi, i narcisisti, gli omofobisti, le credenze fideistiche, gli irrazionalisti del MAGA, i primitivisti, i putinisti.

Viviamo in universi completamente diversi solo perché crediamo in storie diverse.

Viviamo con l’ausilio del pedometro.

Crediamo in false narrazioni ma che hanno conseguenze nel mondo del Reale. E Continuiamo a crederci convinti che il «falso» sia il «reale».

Le narrazioni dei social media sono diventate il motore più poderoso della normologia della storia umana.

Viviamo nell’immondezzaio delle storie.

In questo contesto storico, parlare del ruolo della letteratura nel promuovere il pensiero critico è un atto di smisurata ingenuità. Ma è che noi siamo ingenui, inguaribilmente ingenui, e lo pensiamo davvero.

Nel 1951 Isaac Asimov immaginava una scuola fatta soltanto da robot onniscenti. Oggi abbiamo l’intelligenza artificiale. Cosa cambierà?

Nel 2050 la normalità con cui scrolliamo ore al giorno il telefonino sarà studiata come crisi irreversibile dell’attenzione e della memoria?, o fra qualche decennio guarderemo a ChatGpt 5 con la stessa tenera condiscendenza con la quale ricordiamo i pomeriggi passati a giocare con il Commodore 64 o a programmare in Basic?

Il fatto è che siamo diventati diversi perché narriamo storie diverse, creiamo nuove narrazioni che narrano un altro Reale. Viviamo in un ecosistema digitale dove abbiamo accesso a un oceano di informazioni e dati. Il risultato è l’effetto placebo: ci convinciamo che la narrazione a noi più conveniente ci regala benessere, attenua le nostre ansie, le nostre paranoie. Ma è falso. Dobbiamo capovolgere il Reale per vedere bene al suo interno che cosa c’è. Per questo motivo la categoria del «falso» oggi sale sul podio delle Star. Dobbiamo riconoscere che il «vero» è diventato il «falso», e il «falso» è diventato il »vero». È una dialettica al triplo salto mortale quella che dobbiamo mettere in atto. Non ci resta che smascherare il «falso» mediante un altro «falso», la copia con un’altra copia, un duplicato con un altro duplicato.

L’ansia del falso e del vero ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana. Optiamo invariabilmente per lo pseudo-falso a noi più conveniente, e rigettiamo il falso, quello vero. E viviamo felici e contenti.

 “State attenti però: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo”.

“Nel 1949 Richard Feynman mi parlò della sua versione della meccanica quantistica chiamata ‘sum over histories’. Mi diceva:

«l’elettrone fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione d’onda». Gli dissi: «Sei un pazzo». Ma non lo era”.

Freeman Dyson mentre racconta dell’idea di Feynman dei path integral (integrale sui cammini). La citazione si trova un po’ ovunque, ma io l’ho presa dal libro “Quantum Field Theory for the Gifted Amateur” di Lancaster e Blundell.

La nostra variante è questa:

«la parola fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione poetica»

La poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Letizia Leone, la poesia distopica di Antonio Sagredo, Tiziana Antonilli, Marie Laure Colasson e Vincenzo Petronelli sono una hilarocomoedia melanconica e burlesque. Intini la sua meravigliosa lingua di plastilina la impiega e la piega in quanto lingua miserabile che emana un odore di fritto misto di pesce. È la lingua del commercio degli affari propri; questa lingua, o meglio, questo linguaggio, quello che desertifica il logos, quello della poesia del neoermetismo e del quotidianismo in voga oggidì è qualcosa contro cui occorre gridare vendetta.  Intini usa questo linguaggio spiegazzato, miserrimo, ipoveritativo e lo fa deflagrare in autentici colpi di scena apoplettici di riso amaro. Francesco Intini, Tiziana Antonilli e Raffaele Ciccarone e gli altri autori dis/topici rappresentano un classico della poesia kitchen perché sono arrivati a tanto facendo del packaging del inguaggio miserabile e spiegazzato che troviamo nelle discariche delle refurtive parolaio-mediatiche.

L’enunciato kitchen e quello distopico agiscono in uno spazio linguistico che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius; in questo spazio o, più propriamente, in questo «campo dinamico», si inscrive il nuovo discorso poetico «superficiario» nella quale la scrittura poetica si presenta in formazioni dis/locate e dis/articolate.

Ma questa dis/locazione è ben più che un artificio retorico, si tratta invece d’una petizione di sopravvivenza in virtù della quale il discorso poetico agisce come all’interno di una «griglia campo-dinamica». Attraverso queste griglie e queste dis/locazioni gli enunciati assumono la connotazione di significato. Ed ecco emergere il senso, il consenso e il significato. Foucault asserisce che è possibile che a volte queste griglie vengano momentaneamente infrante; soltanto in questi casi si dà l’opportunità fugace di fare «esperienza» di qualcosa di «proprio» per il tramite di questa frattura e dell’improprio. È in tal modo ammissibile esperire l’esistenza in sé di qualcosa come un ordine di senso o di non senso, ma si tratta di un pensiero antropizzante. Infrangere questo ordine di senso e di non senso è il compito precipuo della poesia distopica e del kitchen.

Ordine del discorso e ordine del pensiero sono oggi dis/connessi, lo spazio in cui pensiamo e parliamo può essere infranto in qualsiasi momento. E il significato va a farsi benedire. È la situazione limite delle eterotopie, ovvero, quella sorta di «contro-spazi» di cui le culture sono munite e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati».1

La poesia distopica è una eterotopia, una reazione allergica all’ordine disciplinare del senso e del significato. Occorre fare in fretta: il panorama poetico italiano invaso dai poeti elegiaci con i loro compitini educati e lucidati deve essere al più presto rigettato. I tavoli delle conferenze culturali sono fatti dello stesso legno di quello delle bare della cultura ammuffita che ha orchestrato quelle confidenze. È vero invece che la poesia nuova scaccia la vecchia per una legge ontologica e biologica. Prima o poi la nuova poesia prevarrà, è solo una questione di tempo. È una questione eventuale, una modalità dettata dalla necessità storica. Prima o poi l’evento accadrà. Whatever it takes.

 1 Id., Eterotopie, in Archivio Foucault III , a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.

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Guido Oldani, “Il coperchio”, edito da Palingenia, Venezia (2025) – Il linguaggio poetico oldaniano de-storicizzato e de-psicologizzato. Lettura di Giorgio Linguaglossa

Abstract

Il libro di Guido Oldani, Il coperchio, edito da Palingenia (2025), riprende il testo del suo esordio poetico cambiandone il titolo, da Stilnostro, del 1985, che fu prefato da Giovanni Raboni nell’attuale Il coperchio. Il libro contiene anche un nugolo di versi inediti, come dire, scacciabrighe e scansapensieri intitolato “Quattordicesima ripresa”, che riprende la procedura del realismo terminale della verosimiglianza rovesciata (vedi la prefazione di Oldani al libro). Si tratta di una traccia di un percorso mai interrotto, che va da Stilnostro a metà degli anni ottanta fino ad arrivare al nostro disgraziatissimo e scombiccherato 2025. Un percorso che, volente o nolente e obtorto collo, abbiamo compiuto tutti insieme dalla spensierata epoca della affluent society degli anni ottanta ai matti e disperatissimi anni del mondo post-global. Il tracciato si condensa in quattro tappe, i quattro snodi principali (linguistici/stilistici) posti in corrispondenza con i nodi storici/ontologici che li hanno generati.

E c’è da dire che Guido Oldani (1947) è stato un poeta non-allineato, che ha creato presso i circoli letterari milanesi e non superciliosi distinguo e mottetti di spirito circa i suoi testi che sono stati archiviati dalla poesia accademica nella vasta area della poesia, diciamo così, ludica. Era un tentativo di tacitare in chiave minoritaria una poesia che platealmente usciva fuori dagli schemi collaudati e condivisi dal circolo polare milanese e delle sue adiacenze lombarde.

Il percorso poetico di Guido Oldani si snoda, all’incirca, attraverso quattro tappe. La prima che mette in mostra un già peculiarissimo carattere linguistico: sintassi estremamente scorciata, uso massiccio di participi/gerundi/infiniti; neologismi e grande impiego di parole-valigia; una economia lessicale che trasforma il linguaggio in strumento d’urto verso un «oltre» semantico sempre più dis/locato e imprendibile.

L’esordio poetico si situa nella stagione post-68 e nel decennio della “affluent society” , dove il testo poetico  già percepisce la propria impotenza o la propria inidoneità ad inglobare una realtà che percepisce istintivamente di non essere in sintonia sulla via della rappresentazione poetica. Oldani percepisce, tra i primissimi, quel fenomeno che ho designato di de-psicologizzazione del testo poetico. Ovvero, il non essere, il testo poetico, più in grado di operare per via del realismo mimetico e psicologico fino allora imperante nella prassi poetica italiana (ed europea) e di dover ricorrere, necessariamente, ad un nuovo meccanismo di trasvalutazione del Reale in irrealismo linguistico e stilistico, mi si passi il termine, arcigno.

Ecco alcuni esempi di de-psicologizzazione del testo poetico (da Stilnostro- 1985)):

“In tasca”

Un giardino di ruote
locomosse
e pascoli rettangoli
in città
d’asfalto e caviinfissi.
Collaudato è garanzia
il pagomese
e si rosicchia in pizzeria
e si ridacchia fra
i rialzati baveri
badando lungamente
a un depliant
di un nuovo mondo
in tasca.

Poesia in frammenti che mostrano la congiunzione di immagini con punteggiatura scarna, verbo implicito e raccordi per via metonimica; parole del mondo urbano che condensano l’esperienza dell’epoca che sta per annunciarsi (telefono, pizzerie, asfalto, depliant).

Scrive nella prefazione al volume l’autore: “la raccolta, che Giovanni Raboni definì opera di un esordiente « sui generis », contiene verbi coniugati al participio passato, gerundio e infinito. Ora, come tutti sappiamo, la natura si esprime nel tempo: le stagioni, le maturazioni, l’appassimento… Ciò che invece non è riferito al tempo sono gli oggetti: un tavolo o un carretto restano tali e quali con il passare delle ore o delle stagioni. Ecco le radici del Realismo Terminale: avevo cominciato a trattare la natura coniugando i verbi relativi come se si occupassero di oggetti; avevo avvertito che la natura stava ponendo le basi per artificializzarsi progressivamente, per oggettificarsi come accade ora.”

Restano pur sempre valide le osservazioni di Giovanni Raboni contenute nella prefazione a Stilnostro: “Oldani organizza la sua poesia come se avesse (come se ci fosse) una quantità di cose da dire e pochissimo spazio – intendo proprio spazio fisico, non metaforico – per dirle. Eccolo, allora, il nostro autore, spremere da ciascun aggettivo (mai più di uno per volta, se non sbaglio) il massimo di senso, e assegnargli anche, se possibile, qualche funzione in più: di raccordo o ponte verso un’altra parte del discorso, di suggestione o memoria di un’azione verbale non nominata… Eccolo far ricorso a una sintassi scorciata, allusiva, ricca di ellissi, di ablativi (e participi, e gerundi) assoluti, di infiniti nei quali si contrae ogni tempo narrativo… Eccolo coniare neologismi, parole-valigia nei quali sostantivo e aggettivo, avverbio e verbo si incastrano o giustappongono nella più economica delle positure… Una andatura, dunque, una allure, quella della poesia di Oldani, che non solo ammette ma presuppone il predominio del senso nella misura in cui il senso è posto oltre il testo, è un punto di fuga sempre mirato e sempre da raggiungere. La realtà, dunque, va di continuo interrogata, riconsiderata; e occorre, per questo, descriverla, renderla corpo presente – ma per segni veloci, magri, scompiacenti, petrosi. Dire, insomma, non per l’in sé del dire (né, tanto meno, descrivere per l’in sé dell’oggetto descritto), ma per l’in sé di ciò che il dire sollecita e incalza; dire per capire, per essere. E c’è sempre poco tempo, anzi, non c’è mai abbastanza tempo per farlo”.

Parole quanto mai appropriate. Ne conseguono alla lettura una serie di effetti, un sovraccarico di toni, un linguaggio che sembra affaticato ma invece è attentissimo, una esigenza perlustrativa che cerca di tradurre l’ esperienza profana ancora attingibile in segni minimissimi, evanescenti; la strategia formale coincide con l’urgenza storica di «dire in poco» prima che il mondo si trasformi e ci trasformi anche il linguaggio che stiamo impiegando. Quasi una gara a guardia e ladri tra le parole che vengono dal futuro e quelle che vengono dal passato.

Subentra la seconda tappa, una fase di transizione, ovvero, il soggiornare stabilmente alla periferia dell’esperienza del poetico in un mondo sempre più de-storicizzato e de-psicologizzato. Nel frattempo, dagli anni novanta ai duemila si infittiscono i fenomeni del collasso del grande capitale, del collasso dei linguaggi narrativi e poetici che cedono progressivamente alla auto fiction, del collasso delle grandi città con fenomeni  di un urbanesimo estremo, la impennata dei consumi, fino alla caduta delle Grandi narrazioni. È questo, in poche parole, l’esaurimento del post-moderno, nonché l’invasione progressiva della realtà cibernetica nel mondo del cosiddetto Reale. Le immagini oldaniane diventano sempre più costipate, sfuggenti, non-consolatorie, sono tratte dal quotidiano, ma non quello dei quotidianisti lombardi che si fregiano di un realismo mimetico ancora debitore delle antiche ontologie linguistiche del novecento (caffè, lampioni, strade, in tasca); un lessico che si apre su oggetti e micro-situazioni telluriche quasi scenografiche. Qui si ha il vero nodo gordiano, il nodo storico/ontologico: l’affermarsi della società dei consumi e dell’abitudine ad un mondo sempre più tecnologizzato; il soggetto poetico si scopre così sempre più de-linguisticizzato che abita le eterotopie, con gli spazi urbani anonimi e con oggetti di consumo dove il rito dello shopping sostituisce il sacro.

“Il paradiso si è inverato in un supermercato” “ (da “I prodotti”, sezione di inediti della “Quattordicesima ripresa”), con l’immagine ironico/satirica che traduce il rito religioso in luogo di consumo.

Qui il linguaggio si fa più scenico ma resta pur sempre concretissimo, sintetico; la critica sociale entra per immagini concrete, dall’interno, mai dall’esterno; il linguaggio mantiene la sua carica poetica mentre muta l’oggetto dell’osservazione (dalla natura agli scaffali, dalla memoria ai device).

Terza tappa la si può considerare il progetto di uscita dal novecentismo poetico italiano che procede durante gli anni novanta fino al Realismo terminale del 2010. La nuova prassi poetica rappresenta bene, anche per via indiretta, la avvenuta catastrofe delle ontologie linguistiche del novecento, la loro inutilizzabilità se non come recursus a un serbatoio di rottami, regesti di antichi registri linguistici divelti e de-funzionalizzati.

Specificità linguistica della procedura poetica oldaniana è il ritorno teorico e pratico alla tesi della «similitudine rovesciata», ovvero, alla oggettificazione progressiva del nostro lessico quotidiano, lessico che tratta la natura come oggetto, frasari che ribaltano i registri linguistici tradizionali mediante un mix di registri tecnico, quotidiano, profetico, sacro e laico che si scambiano di posto.

Infine, il nodo storico/ontologico: la crisi ambientale, la pervasività tecnologica e la nascita dell’intelligenza artificiale: la natura si «oggettifica» e il linguaggio non può non rappresentare questa avvenuta inversione di ruoli. È lo stesso Oldani che nella prefazione spiega: “con quella che ho definita una ‘similitudine rovesciata’ … la sfrecciante rondinella a volare come un aeroplano la chiave interpretativa teorica del libro.

“Pioggia d’acido/base” (da “Pioggia”) — immagine che fonde la meteorologia con l’artificio tossico della modernità; la natura come prodotto secondario rispetto ai prodotti dell’artificio.

In questo nuovo contesto ontologico linguistico il linguaggio diventa strumento di mero esserci: non solo descrive, ma registra, come un sismografo attentissimo, la mutazione ontologica e antropologica in corso (ciò che era vivente assume qualità di manufatto, e il verso lo registra con forme ibride, tecniche e immaginifiche).

I versi diventano più diretti, sloganici, le immagini esplicite di rottura (guerra, gelo nucleare, desertificazione semantica) si moltiplicano, il tono diventa spesso satirico, talvolta didascalico, la brevità si fa perentoria. Il nodo storico/ontologico si rivela per accumulo di catastrofi (clima, conflitti, disgregazione sociale, crisi del linguaggio pubblico); è  il poeta che reagisce con pugni verbali, brevi colpi che vogliono spingere al risveglio.

Esempi:

“nel giorno dentro al mese di quest’anno / è scoppiata la guerra nucleare”“ (da “Nucleare”) — frase netta, quasi giornalistica, che sancisce la rottura del paradigma ontologico.

“il paradiso è un supermercato”“ e ““le nubi del tramonto sono rosse / come delle bistecche ancora crude”“ (da “Bistecche”) — immagini dirette, spiazzanti, che giocano sulla quotidianità per denunciare l’assurdo.

Qui la forma poetica diventa messaggio politico/morale; la compressione linguistica si converte in «colpi» rapidi che vogliono lasciare il segno — coerente con la metafora pugilistica che Oldani usa per la “Quattordicesima ripresa”.

“Participi/gerundi/infiniti (Stilnostro) esprimono un tempo sospeso: nella prima fase la sospensione è estetica; oggi essa documenta la sospensione della natura stessa (la stagione che non regge più i suoi cicli riproduttivi).

“Gli oggetti quotidiani (supermercato, lampioni, telefono, in tasca), segnano il passaggio dalla lirica del vissuto alla post-lirica dell’oggetto come indice dell’ordine sociale: l’oggetto diventa rivelatore della condizione storica.

Gli slogan e il tono scanzonato in alcuni testi recenti  rispecchiano la saturazione mediatica e la perdita del respiro simbolico; il verso adotta allora la parlottio pubblico.

Il percorso che va da Stilnostro (1985) a Il coperchio (2025) con la sua appendice “Quattordicesima ripresa” è coerente con una linea di ricerca che mantiene la medesima ossessione formale — economia del dire e capacità di condensare — ma che cambia oggetto e registro seguendo le trasformazioni storiche: dall’urgenza estetica degli anni ’80, alla rappresentazione della vita da consumatori, fino alla diagnosi e alla denuncia dell’epoca dell’artificializzazione e della possibile catastrofe. Oldani teorizza questa transizione come Realismo terminale: la lingua si adatta (o si ribella?) alle metamorfosi ontologiche che la realtà subisce.

 “Labirinto dire” (“Stilnostro”, p. 19)

“Certe volte mi asciugo / di parole, / capitombolando mi slargo / nell’interstizio tessuto / e pocopoi / e doposecolo…”

La poesia d’esordio si apre sull’atto stesso del dire: “mi asciugo / di parole”. La voce si autocensura per eccesso di densità, o di rarefazione linguistica, l’ellissi sarebbe già strategia di sopravvivenza linguistica, ma in questo caso è solo strategia di subsidenza, come quando la placca di un continente si ficca sotto la placca di un altro continente, ma ancora in modo silenzioso, senza fiat o scossoni o rumoresque. L’“interstizio tessuto” diventa traslato del linguaggio umano rivisitato come trama fragile. Già qui si profila il Realismo terminale in nuce: il linguaggio non imita il mondo, ma lo attraversa come residuo, scarto, rifiuto.

 “Stilnostro” (“Stilnostro”, p. 27)

“Volontà (lucciola) appisola / negli incisivi persistenti…”

Una delle immagini più citate: la “volontà” che si riduce a una lucciola tra i denti, simbolo minimo e luminoso di subsidenza esistenziale. La corporeità e la luce fioca sono tratti costanti del primo Oldani post-lirico, il verso sembra scaturire da un lessico espressionista che si impasta con neologismi e paratassi franta, un linguaggio in tensione massima tra simbolo e parola.

“Databile” (“Stilnostro”, p. 34)

“La circostanza sessantotto: / andava il giorno a quella / data e si smisura ora / un secolo.”

Qui entra di sguincio e per vie intermesse e ludiche la Storia con la maiuscola. Il “sessantotto” non è evento ma “circostanza”: un punto di misura che si “smisura”. Il tempo collettivo diventa soggettivo e, quindi, poetabile; il secolo, da cronologia, si fa smarrimento di calendari. È una prefigurazione della successiva frattura tra cronaca e ontologia, la perdita della misura del mondo umano.

“Pioggia” (“Corporale”, p. 57–58)

“Si staglia in accaduto / giorno, meridiana l’ombra… / e in dimensione orizzontale / inerpichiamo finalmente / noi monotematici.”

L’immagine della “pioggia” come meridiana rovesciata, un fenomeno naturale che misura il tempo e lo cancella. L’“orizzontale” di “inerpichiamo” è un ossimoro tipico di Oldani: la realtà viene resa visibile se nominata nel suo rovescio percettivo. Qui si annuncia in essere il principio della “similitudine rovesciata”.

“Apparecchiati” (“Petizione”, p. 70)

“O com’è vertiginante il breve / sconsacrato tempo, appena / ieri figli, già mi tutelate / apparecchiati intanto.”

L’età, la filiazione, la vertigine temporale, la subsidenza post-esistenziale; la “tavola apparecchiata” è il simbolo domestico e quasi sacro della successione, ma qui diventa “sconsacrato tempo”. Il tono è intimo e familiare, ma la struttura ritmica e sintattica conserva la concisione espressionista del primo Oldani.

“Pini” (“Petizione”, p. 75)

“Sempre perenni verdi / stavolta proni proprio / per l’impreveduta neve… / Anche noi (voi) / si è contenuti in un cortile dentro / e non per gioco / per qual ragione ignota non uscendo.”

È una delle più intense liriche “civili”, la natura (i pini piegati dalla neve) diventa specchio della condizione umana mummificata anzitempo, “contenuti in un cortile dentro”. La similitudine tra alberi e uomini anticipa la fusione simbolica del Realismo Terminale: ciò che era naturale diventa umano e viceversa, ma senza salvezza.

“Due pargoli” (“Petizione”, p. 77)

“Bi e Bo fatti nascere / sbuffi i due disegni / scarabocchi… / e quel po’ coraggiosi / noi ignari all’altomare / si agitava il saluto / sbadigliante il terminato secolo.”

È una poesia di bilancio generazionale: i figli (“Bi e Bo”) come segni d’infanzia e di fine annunciata. “Sbadigliante il terminato secolo”, è una chiusura epocale che unisce biografia e storia, il tono è fintamente elegiaco ma mai sentimentale, la forma chiusa, quasi prosastica, riflette la stanchezza delle sillabe storte che annunciano, derisoriamente, il nuovo mondo.

“Bistecche” (“Quattordicesima ripresa”, p. 87)

“Le nubi del tramonto sono rosse / come delle bistecche ancora crude…”

Qui il rovesciamento è esplicito: il naturale si definisce in termini di artificiale, alimentare, consumistico. La “similitudine rovesciata” diventa legge poetica e ontologica. La visione apocalittica del tramonto è ridotta a immagine da macelleria: ironia tragica del nostro tempo.

“I prodotti” (“Quattordicesima ripresa”, p. 88)

“Il paradiso è un supermercato / con gli angeli carrelli della spesa…”

Il Realismo Terminale si toglie la giacca e indossa la vestaglia, sopravvive, nel mare magnum dei linguaggi, come satira anti teologica. Il consumismo sostituisce l’escatologia. L’aldilà si misura in metri di scaffali; la “concorrenza” e le “risse” degli angeli sono caricature del supermatket terreno. Il tono resta piano, quasi da cronaca, la blasfemia viene annunciata in comodato d’uso, si fa ironia disincantata.

“Zero” (“Quattordicesima ripresa”, p. 97)

“La parola, col suono ed il suo segno, / la leggi un po’ dovunque poi la togli… / un dizionario tutto quanto intero / significa sì e no una parola.”

“La rivolta”

“Il papa, che non spara sui bambini, / è un fiammifero acceso dentro al buio… / è tempo d’inventare un nuovo Dante / o ne avremo un destino disgraziato.”

“Parlare”

“Le parole, una volta pronunciate, / cadono a terra come vetri rotti…”

Siamo arrivati alla crisi finale del nostro viaggio e del linguaggio poetico oldaniano: la parola come stuzzicadenti o stoviglia sporca tolta dalla tavola; il dizionario che vale “una parola”, il segno impresso sulla carta hanno perduto ogni residua possibilità di significazione. Questa è forse la più fedele sintesi ontologica (e oncologica) del percorso poetico oldaniano: il linguaggio che si ritira in sé, forse perché ha detto troppo, o troppo poco, e il mondo resta muto nella sua parete bianca.

Oldani conclude con un’istanza etica: “inventare un nuovo Dante”. È la chiamata finale del poeta come testimone e restauratore di senso o, come io penso, come un subsistente post-esistenzialista che tenta di esistere purchessia e in qualche modo? Le “parole rotte” di “Parlare” suggellano il percorso di un linguaggio che ha ormai consumato la propria forza significazionista ma tenta ancora un ultimo micidiale colpo. Ed ecco la “quattordicesima ripresa” del poeta che è diretta contro la parete bianca del mondo.

Nucleare

nel giorno dentro al mese di quest’anno
è scoppiata la guerra nucleare,
guerra che è un tasto con di sopra un dito.
è allora che la stampa e tutti i social
hanno smesso di dire il mezzo vero
e si sono salvati solo i pochi
già finiti intanati chissà dove,
per noi serve neanche un cimitero.

#dePsicologizzazione #eterotopie #giorgioLinguaglossa #giovanniRaboni #GuidoOldani #IlCoperchio #nucleare #Palingenia #postModerno #realismoTerminale #Stilnostro

Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio

di Paolo Lago Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma [...]

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ROOTS§ROUTES _ research on visual cultures

CALL FOR PROPOSALS:
§ FARE MONDI
Tra ricerca e fabulazione
(gen.-apr. 2025)

a cura di Anna Chiara Cimoli e Alessandro Tollari

invio abstract entro il 5 novembre 2024

 

La call di questo numero di roots§routes magazine invita contributi sul tema dell’intersezione, della frizione, del dialogo fra ricerca e fabulazione, con particolare riferimento a:

_il contributo dell’immaginazione artistica alla ricerca scientifica

_la possibilità di traslazione e osmosi dei metodi creativi fra diverse discipline

_l’analisi di casi di studio che esplorino le possibilità di “forzatura” del sapere accademico, sia nei contenuti che nella loro traduzione formale (hacking, embodiment, pratiche di disseminazione radicale…)

_sperimentazioni linguistiche e transcodificazioni nel campo della scrittura accademica

_le questioni etiche che il ricorso alla finzionalità speculativa pone rispetto alla ricerca scientifica

_le rifrazioni provenienti dalla sperimentazione in ambito digitale e dei game studies, con riferimento al worlding

_i nuovi codici, linguaggi e mitografie della ricerca scientifica e culturale nel XXI secolo

_la ricerca tramite la prassi didattica sperimentale in contesti formali e non-formali

_la ricerca sul caso, l’inatteso e l’aleatorio

_ i ruoli del pensiero analogico e della metafora, della dimensione onirica e inconscia nella produzione di conoscenza

_pratiche ucroniche/utopiche/eterotopiche in prospettiva minoritaria

_pratiche artistiche che generano fiction critiche dell’immaginario del mondo accademico ed educativo

_ riflessioni teoriche e pratiche intorno ai future studies e ai possibility studies

_e tutte le altre possibilità che non siamo stat* in grado di immaginare.

Leggi la declinazione tematica integrale del nuovo numero su….

https://www.roots-routes.org/call-for-proposal/

in English:

https://www.roots-routes.org/english-call-for-proposal/

https://slowforward.net/2024/10/07/roots-routes-cfp-fare-mondi-ricerca-fabulazione/

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di Paolo Lago Eccoli, gli stabilimenti balneari, escrescenza colorata della città verso il mare, verso [...]

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di Paolo Lago Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00. [...]

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di Paolo Lago e Gioacchino Toni [In occasione dell’uscita del volume di Paolo Lago e [...]

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