Editoriale (Quaderno nn. 29-30, 17×24, de “Il Mangiaparole”) in corso di stampa dal titolo: La «nuova poesia» italiana tra Intelligenza Artificiale,  Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica. L’età della paranoia, Il nostro mondo è definito dal tipo di storie in cui crediamo,

La storia letteraria è un libro di ricette.
I cuochi adesso si atteggiano a poeti.
Lo chef di Milano tiene il computo degli invitati.
Adesso anche i contabili si pensano poeti.
Guarda bene l’indice, se non sei tra gli invitati è perché sei nel menù.
I poeti sono i camerieri che portano le vivande e le bevande.
I critici fanno i buttafuori.
In cucina c’è un’orchestrina gitana che suona con le fisarmoniche e i tamburelli.
I poeti preparano i piatti in cucina e intrattengono gli ospiti.
Dovunque ci sono schiocchi di dita e pacche sulla spalla.
C’è allegria.
(Giorgio Linguaglossa)

Editoriale (Quaderno nn. 29-30, 17×24, de “Il Mangiaparole” in corso di stampa dal titolo: La «nuova poesia» italiana tra Intelligenza Artificiale,  Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica

L’Età della paranoia

Il nostro mondo è definito dal tipo di storie in cui crediamo

 

Se dovessi dare un nome alla nostra epoca la chiamerei l’Età della paranoia. Il recentissimo incontro ad Anchorage, in Alaska, tra Trump e Putin è il cassico incontro di due fratelli siamesi: un gangster che si incontra con un criminale prezzolato. Trump, Xi, Kim Jon-ung, Kameney, Nethanyau, Orban etc., i piccoli e i grandi aspiranti dittatori dispersi per il globo, le masse che votano i loro paranoici rappresentanti non sono meno paranoiche dei loro capi. Il capitalismo cleptocratico non sa che farsene del capitalismo democratico, vuole disfarsene, ha ormai infranto le regole e le istituzioni della deterrenza che ci eravamo dati dalla fine della seconda guerra mondiale. Il capitalismo dei sovrani sovranisti e populisti vuole avere le mani libere, vuole semplicemente fare soldi, togliere ai poveri per dare ai ricchi. Il capitalismo è diventato paranoico, la guerra dei dazi ne è un esempio eclatante. È probabile che nel prossimo futuro verremo sottomessi da una super Intelligenza Artificiale da noi creata. Scrive Geoffrey Hinton, uno degli inventori della Intelligenza Artificiale:

«La maggioranza dei principali ricercatori di intelligenza artificiale ritiene che molto probabilmente creeremo esseri molto più intelligenti di noi entro i prossimi 20 anni. La mia più grande preoccupazione è che questi esseri digitali superintelligenti semplicemente ci sostituiranno. Non avranno bisogno di noi. E poiché sono digitali, saranno anche immortali, voglio dire che sarà possibile far risorgere una certa intelligenza artificiale con tutte le sue credenze e ricordi. Al momento siamo ancora in grado di controllare quello che accade ma se ci sarà mai una competizione evolutiva tra intelligenze artificiali, penso che la specie umana sarà solo un ricordo del passato».

I critici marxisti del capitalismo hanno impiegato la speciosa tesi secondo cui nel mondo del capitalismo maturo (quello finanziario di oggi e quello delle monete digitali) non si dà una Exit Strategy, non si dà più alcuna possibilità di uscire dal capitalismo (se non per ricapitombolare in un capitalismo di stato a carattere autocratico e coercitivo), così il neo-liberismo ha guadagnato il campo rimasto aperto e sguarnito dalle forze della critica.

Ma forse non è necessario sostenere la tesi di una Exit Strategy, non c’è bisogno di sortire fuori dal nastro di Möbius, perché stiamo sempre in un Dentro che è anche un Fuori. Il lato debole del migliore pensiero critico marxista (Benjamin, Adorno, Gramsci, Zizek) non è riuscito a pensare questa evenienza che la scienza ci ha rivelato, e si è trovato appiattito nel voler cercare una soluzione comunque e dovunque, e così è rimasto impigliato come una mosca nella carta moschicida.

Allora, non c’è che ribadire: Non si dà alcuna Exit Strategy, stiamo tutti Dentro. Ma in quel Dentro che è anche un Fuori.

La poesia odierna oggi non può che andare a prendersi le parole dal futuro in quanto le dimensioni futuro/presente oggi sono invertite, viene prima il futuro e soltanto in un secondo momento il presente. Non c’è modo di rammaricarsene. Ecco le ragioni che spiegano la depletazione derubricazione del passato (leggi tradizione) e la invasione del futuro nel presente. Ecco le ragioni che spiegano la depletazione e la derubricazione delle antiche categorie antinomiche /Avanguardia/Retroguardia, Tradizione/Antitradizione, Vecchio/Nuovo perché queste categorie si trovano nel nastro di Möbius, stanno in un Dentro/Fuori che altro non è che un Fuori/Dentro. Nel capitalismo sviluppato la dialettica Dentro/Fuori ha sostituito la antica dialettica hegelo-marxista Soggetto/Oggetto, Nuovo/Vecchio, con il beneficio di inventario dei marxisti ortodossi e degli aborigeni ortodossi, nonché degli eterodossi alla plastilina. Perché meravigliarsi dicendo che oggi non c’è futuro quando in realtà siamo immersi ogni giorno nel futuro, che ha sostituito il presente? Altra domanda retorica: la categoria del Nuovo in arte non è più in contraddizione con il Vecchio, in quanto entrambe si trovano, contemporaneamente, nel medesimo nastro di Möbius.

Per altro verso, avviene che la poiesis distopica non è più distopica allorché la caliamo nell’oggi distopicoLa poiesis autoconsolatoria e autotelica che imperversa nei paesi a minimalismo digitale agisce nel senso che si fa i fatti suoi, e così accredita, ammalia e gratifica i benpensanti da autofiction e da autonoleggio con messaggi da pacifinti e da pasticcini alla crema.

Gli umani delle società post-democratiche vivono in modo performativo le loro esistenze. Viviamo nella narrazione che gli altri danno delle loro vite meravigliose su Facebook, Instagram, TikTok, in cui si vedono solo gli highlights, i momenti magici, le torte nuziali. L’influenza delle narrazione raccontate da altri e, soprattutto, dai social media sulla nostra percezione del Reale ci convince che quella sia la realtà. Viviamo in un’èra di disinformazione e di sovraccarico di disinformatzia.

Viviamo ossessionati dalla ricerca di un sé autentico (come se il sé autentico fosse un diamante nascosto in chissà quale profondità ascosa del nostro inconscio).

Viviamo traumatizzati dalla scoperta del cambiamento. Cerchiamo l’anedonia, non la felicità. Abbiamo sostituito la felicità con il benessere, il benessere con il fitness, la personalità con una natura adattativa e performativa; gli avanzamenti tecnologici insinuano in noi sgomento e ansia da prestazione. Invariabilmente, sorgono narrazioni distorte, false: novax, notax, i negazionisti,  i revisionisti del passato, i terrapiattisti, i bipolaristi, i narcisisti, gli omofobisti, le credenze fideistiche, gli irrazionalisti del MAGA, i primitivisti, i putinisti.

Viviamo in universi completamente diversi solo perché crediamo in storie diverse.

Viviamo con l’ausilio del pedometro.

Crediamo in false narrazioni ma che hanno conseguenze nel mondo del Reale. E Continuiamo a crederci convinti che il «falso» sia il «reale».

Le narrazioni dei social media sono diventate il motore più poderoso della normologia della storia umana.

Viviamo nell’immondezzaio delle storie.

In questo contesto storico, parlare del ruolo della letteratura nel promuovere il pensiero critico è un atto di smisurata ingenuità. Ma è che noi siamo ingenui, inguaribilmente ingenui, e lo pensiamo davvero.

Nel 1951 Isaac Asimov immaginava una scuola fatta soltanto da robot onniscenti. Oggi abbiamo l’intelligenza artificiale. Cosa cambierà?

Nel 2050 la normalità con cui scrolliamo ore al giorno il telefonino sarà studiata come crisi irreversibile dell’attenzione e della memoria?, o fra qualche decennio guarderemo a ChatGpt 5 con la stessa tenera condiscendenza con la quale ricordiamo i pomeriggi passati a giocare con il Commodore 64 o a programmare in Basic?

Il fatto è che siamo diventati diversi perché narriamo storie diverse, creiamo nuove narrazioni che narrano un altro Reale. Viviamo in un ecosistema digitale dove abbiamo accesso a un oceano di informazioni e dati. Il risultato è l’effetto placebo: ci convinciamo che la narrazione a noi più conveniente ci regala benessere, attenua le nostre ansie, le nostre paranoie. Ma è falso. Dobbiamo capovolgere il Reale per vedere bene al suo interno che cosa c’è. Per questo motivo la categoria del «falso» oggi sale sul podio delle Star. Dobbiamo riconoscere che il «vero» è diventato il «falso», e il «falso» è diventato il »vero». È una dialettica al triplo salto mortale quella che dobbiamo mettere in atto. Non ci resta che smascherare il «falso» mediante un altro «falso», la copia con un’altra copia, un duplicato con un altro duplicato.

L’ansia del falso e del vero ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana. Optiamo invariabilmente per lo pseudo-falso a noi più conveniente, e rigettiamo il falso, quello vero. E viviamo felici e contenti.

 “State attenti però: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo”.

“Nel 1949 Richard Feynman mi parlò della sua versione della meccanica quantistica chiamata ‘sum over histories’. Mi diceva:

«l’elettrone fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione d’onda». Gli dissi: «Sei un pazzo». Ma non lo era”.

Freeman Dyson mentre racconta dell’idea di Feynman dei path integral (integrale sui cammini). La citazione si trova un po’ ovunque, ma io l’ho presa dal libro “Quantum Field Theory for the Gifted Amateur” di Lancaster e Blundell.

La nostra variante è questa:

«la parola fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione poetica»

La poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Letizia Leone, la poesia distopica di Antonio Sagredo, Tiziana Antonilli, Marie Laure Colasson e Vincenzo Petronelli sono una hilarocomoedia melanconica e burlesque. Intini la sua meravigliosa lingua di plastilina la impiega e la piega in quanto lingua miserabile che emana un odore di fritto misto di pesce. È la lingua del commercio degli affari propri; questa lingua, o meglio, questo linguaggio, quello che desertifica il logos, quello della poesia del neoermetismo e del quotidianismo in voga oggidì è qualcosa contro cui occorre gridare vendetta.  Intini usa questo linguaggio spiegazzato, miserrimo, ipoveritativo e lo fa deflagrare in autentici colpi di scena apoplettici di riso amaro. Francesco Intini, Tiziana Antonilli e Raffaele Ciccarone e gli altri autori dis/topici rappresentano un classico della poesia kitchen perché sono arrivati a tanto facendo del packaging del inguaggio miserabile e spiegazzato che troviamo nelle discariche delle refurtive parolaio-mediatiche.

L’enunciato kitchen e quello distopico agiscono in uno spazio linguistico che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius; in questo spazio o, più propriamente, in questo «campo dinamico», si inscrive il nuovo discorso poetico «superficiario» nella quale la scrittura poetica si presenta in formazioni dis/locate e dis/articolate.

Ma questa dis/locazione è ben più che un artificio retorico, si tratta invece d’una petizione di sopravvivenza in virtù della quale il discorso poetico agisce come all’interno di una «griglia campo-dinamica». Attraverso queste griglie e queste dis/locazioni gli enunciati assumono la connotazione di significato. Ed ecco emergere il senso, il consenso e il significato. Foucault asserisce che è possibile che a volte queste griglie vengano momentaneamente infrante; soltanto in questi casi si dà l’opportunità fugace di fare «esperienza» di qualcosa di «proprio» per il tramite di questa frattura e dell’improprio. È in tal modo ammissibile esperire l’esistenza in sé di qualcosa come un ordine di senso o di non senso, ma si tratta di un pensiero antropizzante. Infrangere questo ordine di senso e di non senso è il compito precipuo della poesia distopica e del kitchen.

Ordine del discorso e ordine del pensiero sono oggi dis/connessi, lo spazio in cui pensiamo e parliamo può essere infranto in qualsiasi momento. E il significato va a farsi benedire. È la situazione limite delle eterotopie, ovvero, quella sorta di «contro-spazi» di cui le culture sono munite e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati».1

La poesia distopica è una eterotopia, una reazione allergica all’ordine disciplinare del senso e del significato. Occorre fare in fretta: il panorama poetico italiano invaso dai poeti elegiaci con i loro compitini educati e lucidati deve essere al più presto rigettato. I tavoli delle conferenze culturali sono fatti dello stesso legno di quello delle bare della cultura ammuffita che ha orchestrato quelle confidenze. È vero invece che la poesia nuova scaccia la vecchia per una legge ontologica e biologica. Prima o poi la nuova poesia prevarrà, è solo una questione di tempo. È una questione eventuale, una modalità dettata dalla necessità storica. Prima o poi l’evento accadrà. Whatever it takes.

 1 Id., Eterotopie, in Archivio Foucault III , a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.

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Poesie di Vincenzo Petronelli – Una poesia fitta di vacillamenti, di vaneggiamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro, di un passo in avanti e due all’indietro; una poesia che va per passi laterali e per retrovie, per tentativi, per scorci e per scorciatoie, per smottamenti laterali, ribaltamenti, aperture parentetiche e serendipiche, per ri-tracciamenti, per sentieri che si rivelano Umwege e ri-tracciamenti all’indietro, di lato che si rivelano Holzwege.

Poesie di Vincenzo Petronelli

Fragmenta historica

Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico. Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.

“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.

Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”

“Who by fire? Who in the night time?”

Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.

Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

 

Au revoir, rêves de gloire

A bordo di una Tesla, i soldati lasciano Fort Alamo in direzione est:
“Per il nostro prossimo anniversario ti regalerò l’Iraq amore!”.

Al resort “Covo dei Cretesi” si celebrano le nozze di Telemaco e Nausicaa.
Lo chef Dunand raccomanda:

Tartare di bue agli estrogeni

Lepre di tegole
Frittatona di cipolle
Peroni ghiacciata
Rutto libero

Tarzan, Furia, La casa nella prateria hanno fermato i treni per Tozeur.
Il presidente ha la cravatta in pendant e la camicia fresca di lavanderia:
“Dio è dalla nostra parte: vincere e vinceremo!”.

Romolo e Salvatore sono ormai degli influencers su Instagram
da quando Chat GPT
li ha citati come icone LGBT.

Christopher Mc Candless ha scritto dall’Alaska:
la Vergine di Norimberga gli offre tortellini agli aculei tutte le sere.
“Happiness only real when shared” . “L’aria si è addolcita al confine russo: tra pochi giorni tornerò a casa”

L’annuncio urbi et orbi del ministro dei cocktails:
“Da oggi è severamente vietato
uscire senza abito da sera. I contravventori
saranno sottoposti a rieducazione coatta
presso la Antonio Cassano’s Fashion Academy ”.

Renato Curcio fa i fanghi a Salsomaggiore con l’Università della terza età.
Sulle spiagge di Albenga, ci si diverte con poco negli anni’60:
buche di sabbia, palette, secchielli
trick e track e bombe a mano.

Norma aspetta all’angolo in attesa di poter entrare al Rotary
nel suo fasciato nero d’occasione. Un’ auto in corsa le fa cat calling.
“Dai pure il ciak Cecil: sono pronta per il primo piano”.

“Addio, Hollywood!”. Si gira Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio”.

Miraggi

Padre Ralph ed il Commissario Lo Gatto sono arrivati questa mattina a Pantelleria.
Le maestre elementari girano video su Tik Tok: è un’altra estate al mare.

Mrs. Pynchon beve Negroni e tequila ghiacciata seduta al Bar Tramvia:
per il suo barboncino invece, solo spritz e patatine.
Lou Grant ha appena terminato di scrivere il suo ultimo pulp: “Pane, amore e botulino”.

Il balcone della Signora Francavilla sull’orizzonte del primo giorno di vacanze.
Chopin in tour al Lido Valerio presenta il suo ultimo album dance con Leone Di Lernia.

Bagni radioattivi ed orzate di periferia, Enzo Tortora e Lech Wałęsa, Mike il partigiano ed Alvaro Vitali: stessa spiaggia, stesso mare.

Enzo Sguera ha vinto per getto del bicchiere di whiskey al primo round:
“Questo matrimonio non s’ha da fare”.

Teresa ascolta i complimenti del supplente: Rosa rincasa tardi la sera con l’argenteria in tasca. Dino Zoff annuncia il suo ritiro. “Ho due braccia forti, benedizione di Babilonia”.

Il vento tra gli ombrelloni sa di melanzane alla parmigiana, pasta al forno, eau de Chernobyl ed inchiostro al metanolo.
Un corridoio al fosforo collega il Gargano e l’Albania nelle domeniche di agosto.

“Da domani vita nuova: avrò un lavoro autonomo”. È l’Italia che va, abbronzata dai miraggi.

Poetry kitchen GPT

Prologo (su una panchina di Porta Romana, Agosto 2025)

“Che diavolo sarà questa poetry kitchen, contessa?”
“Ma che ne so? Vuol mettere le belle poesie che studiavamo a memoria a scuola:
Pascoli, Carducci, Leopardi, D’Annunzio, con questa roba?
Sicuramente Gennaro l’idraulico ne saprà più di noi”.
“Ma come, n’o sapit? È come foss na specie d futurismo. Un momento, quando finisco di leggere la campagna acquisti del Napoli e vi faccio vedere una cosa”
“Ecco qua cos’aggie trovat”

*

Un carrello
deraglia tra le corsie di Marte,
offerte 3×2 su stelle esauste
— ma solo con la carta fedeltà di Giove.

Il robot alla cassa
scansiona il silenzio del cliente,
codice a barre stampato sulla fronte:
“Umano in scadenza 2054”.

Fuori, piovono banane fluorescenti.
Un influencer dal casco blu
trasmette in diretta il diluvio,
mentre Noè parcheggia il SUV elettrico
nel box del condominio celeste.

Intanto il parroco
benedice le lattine di tonno,
e un algoritmo invecchiato
ricorda di aver amato
una fotocopiatrice nel 1997

Epilogo

“Avete sentit sì che bella poesia? Chist sì, è poesia ch’a cazzimm”.

Articolo dal Corriere della Sera del 30 Agosto 2025: “Si indaga sulla misteriosa morte della contessa di Vimodrone e della sua governante; si sospetta del poeta kitchen Vincenzo Petronelli”

Il momento espressivo della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale

Il momento espressivo di Vincenzo Petronelli coincide con un linguaggio irriconoscibile. Voglio dire che se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in pseudo-forma, degenera in mera esternazione dell’io, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc., cose legittime, s’intende, ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma espressiva integrale» di un «evento».

Il problema filosofico di fondo della poesia della seconda metà del novecento, che si prolunga per ignavia di pensiero poetico in questo post-novecento che è il nuovo secolo, è il non pensare che il problema di una «forma espressiva» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio espressivo integrato» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo espressivo» (tempus regit actum). Il digiuno di filosofia di cui si nutre la poesia scettico pragmatica del quotidiano, ha determinato in Italia una poesia prevedibile, scontatamente lineare, che procede in una sola dimensione: quella della linearità unitemporale a scartamento ridotto sulla misura dell’io; ne è derivata una poesia-comunicazione, poesia da infotainment. I responsabili di questa situazione di scacco della poesia italiana sono stati i maggiori poeti del secondo novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), da Elsa Morante con Il mondo salvato dai ragazzini (1971) e da Patrizia Cavalli con Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975);  queste cose le ho già divulgate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011, ma era utile riepilogarle in questa sede.

Qui posso solo tracciare il punto di arrivo di questa processualità italiana (ed europea): il minimalismo, il post-minimalismo, il cronachismo dell’io e il quotidianismo dell’io. Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa in diagonale la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione della «discesa culturale» (dizione di Berardinelli) che ha attinto la poesia italiana del secondo novecento. Delle due l’una: o si accetta la poesia del post-minimalismo romano milanese, che prosegue la linea di una poesia da infotainment, o si tenta una  inversione di tendenza: da una poesia unidimensionale ad una poesia pluridimensionale, plurifrastica, plurilinguistica che accetti di misurarsi con uno «spazio espressivo integrato», con una molteplicità di spazi e di tempi, con una molteplicità di linguaggi, con quello che un tempo si definiva il «plurilinguismo e il pluristile».

L’andatura apoplettica e sistematicamente sismicizzata della «nuova poesia» kitchen e distopica di Vincenzo Petronelli ha un andamento jazz, dove non sai mai che cosa vi dirà il verso successivo; una poesia fitta di vacillamenti, di vaneggiamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro, di un passo in avanti e due all’indietro; una poesia che va per passi laterali e per retrovie, per tentativi, per scorci e per scorciatoie, per smottamenti laterali, ribaltamenti, aperture parentetiche e serendipiche, per ri-tracciamenti, per sentieri che si rivelano Umwege e ri-tracciamenti all’indietro, di lato che si rivelano Holzwege. Una poesia che ha il coraggio di esternare una scommessa con l’ignoto dei linguaggi.

Ma è che oggi non essendoci più una fondazione sulla quale posare il discorso poetico, anch’esso se ne va a ramengo, senza un mittente, senza un destinatario, privo di identità, contando unicamente sulla destinazione senza destinatario; si invia, si destina qualcosa a qualcuno pur sapendo che non giungerà più nulla a nessuno, in quanto la destinazione è priva di destino, si vive alla giornata seguendo il Principio Postale, la spedizione della cartolina, delle cartoline. Il «polittico» e il «kitchen» di Vincenzo Petronelli sono spazi espressivi integrati ragguagliabili ad inganni sussultori, inganni di frasari, di fraseggi, di cartoline, di invii, di ri-invii, di post-it, di scripta (che non manent), di voci interrotte. Si va per la via della complessificazione della forma-poesia, verso l’entropia dei linguaggi che collassano in un imbuto, in un buco nero. Si tratta di un meccanismo di ri-invii e di ri-tracciamenti destinati allo sviamento e all’evitamento, dove il messaggio, che reca impresso il desiderio, la pulsione, non arriva mai a destinazione in quanto per definizione freudiana inibito alla meta. Il Principio di Piacere che ha prodotto il desiderio approda infine al Principio di Realtà, e quest’ultimo retro agisce sul primo riproducendo il circuito chiuso di un meccanismo invernale. E così facendo perpetua il meccanismo di riproduzione del capitale libidico del piacere non ottenuto mediante la riproduzione del piacere libidico in piacere sublimato, piacere tras-posto, tras-ferito.

Del resto, l’Elefante si è accomodato in salotto. E sta bene lì dove sta.

(Giorgio Linguaglossa)

Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como. Dopo un primo percorso post-laurea come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e redattore editoriale negli stessi comparti, oltreché in quello musicale, attualmente gestisce un’attività di consulenza aziendale nel campo della comunicazione, del marketing internazionale e dell’export. Agisce in vari settori culturali. Come autore sono impegnato scrive testi di poesia, di narrativa e di storytelling sportivo, musicale e cinematografico, nonché come autore di testi per programmi televisivi e spettacoli teatrali. Nel contempo, prosegue nell’impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia sul versante storico-antropologico, occupandosi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare, la cultura di massa, la storia delle religioni. È attivo nell’ambito della ricerca storica e antropologica e come storyteller, nell’organizzazione di eventi e festival culturali in diversi settori (musica, letteratura, teatro, divulgazione) e come promoter musicale. È redattore per il blog letterario internazionale lombradelleparole.wordpress.com e collabora con le riviste Il Mangiaparolee Mescalinaoccupandosi di musica, poesia e del rapporto tra poesia e scienze sociali. Dal 2018 è presidente dell’associazione letteraria Ammin Acarya di Como. Ha iniziato a comporre poesie dalla seconda metà degli anni novanta. Alcuni suoi testi sono presenti nelle antologie IPOET edita nel 2017 e Il Segreto delle Fragole edita nel 2018, entrambe a cura dell’editore Lietocolle, nonché in Mai la Parola rimane sola edita nel 2017 dalla associazione “Ammin  Acarya” di Como, nel blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite 2023 e  nel volume di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025.

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L’enunciato kitchen e quello distopico (suo corollario) agiscono in uno spazio che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius, un discorso poetico organizzato per formazioni dis/locate, ibride, dis/funzionali alla idea di tradizione, intesa come ordine linguistico costrittivo – Riflessione di Vincenzo Petronelli

Ben ritrovati cari amici dell’Ombra,

mi fa molto piacere tornare a scrivere su queste pagine che per me hanno il profumo di casa, proprio in coincidenza di quest’articolo, che trovo riassuma emblematicamente dei nuclei centrali della poetica Kitchen.

Come giustamente evidenzia Marie Laure Colasson, la poesia di Francesco Intini, Mimmo Pugliese, Giorgio Linguaglossa e Antonio Sagredo sono dei punti di riferimento imprescindibili per lo sviluppo del progetto Poetry kitchen, per la particolare “piegatura” destrutturante assunta dal loro registro linguistico, rappresentativa del vuoto o se vogliamo della vanificazione del sistema di significazione convenzionale che caratterizza l’epoca attuale.

La “liquidità” del mondo odierno, con la frantumazione dei codici espressivi dovuta al mondo digitale, con la globalizzazione, che ha contaminato le variabili linguistiche locali tradizionali, con la vorticosità dei mutamenti storico-politici ed i loro riflessi culturali, hanno inevitabilmente isterilito la prassi linguistica e comunicazionale cui il mondo si era abituato a partire dal secondo dopoguerra; c’è bisogno – è questo il concetto che sottende l’operazione mimetica della Poetry kitchen – di un modello espressivo che rifletta tale vuoto odierno nella lingua e che evidenzi per converso anche la soggettività e lo sbriciolamento delle immagini, delle metafore e direi anche topoi classici della poesia, ormai inadeguati a ritrarre il mondo e la società attuali. Peraltro, non si tratta solo di una questione di adeguatezza nella rappresentazione mimetica della scrittura poetica, ma anche della necessità di creare nuovi spazi palingenetici per la poesia ed il sapere tutto.

Come abbiamo avuto modo di accennare in un altro articolo, la storia e la filosofia della scienza, ci dimostrano come siano proprio i momenti di crisi dei paradigmi consolidati, corrispondenti alle fasi di transizione storiche, a determinare, negli intellettuali più sensibili ed avveduti, l’opportunità di rinnovare i modelli di conoscenza ed evitare la supremazia di quella che Giorgio chiama correttamente “la lingua dell’idioletto”; quel balbettio pseudo-poetico, che in questo contesto fluido rischia di imporsi, nella grigia comfort zone del conservatorismo culturale, rappresentato dalla poesia del quotidiano.

Come evidenzia opportunamente Marie Laure Colasson nel suo intervento, “è nelle discariche delle refurtive parolaie-mediatiche”, che la ricerca kitchen trova la propria essenza, al fine di ricostruire, rintracciare, ciò che la comunicazione artefatta, filtrata, selezionata dagli interessi dominanti, esecra a proprio piacimento ed edificare l’impalcatura di una nuova significazione poetica e linguistica, che rifletti (avalutativamente, come sempre per ciò che riguarda l’interpretazione artistica ed intellettuale) la contemporaneità.

Altrettanto correttamente, la Colasson sottolinea come la reciprocità fra “l’enunciato kitchen e quello distopico” (suo naturale corollario) “agiscono in uno spazio che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius”, dando vita ad un discorso poetico organizzato per “formazioni dis/locate e dis/articolate”: si tratta di un’opzione fondamentale per la sopravvivenza di un linguaggio poetico che mantenga ancora il suo senso e la sua dignità intellettuale, attraverso l’individuazione della sua (riprendo sempre le parole di Marie Laure) “connotazione di significato”.

La decostruzione di uno schema sintattico e semantico consolidato, determina ipso facto una morfologia distopica e dunque la Poetry kitchen è poesia distopica, l’unica via di fuga possibile dalle ridicole tendenze tardo pascoliane, che abbondano nella poesia (specie italiana) di oggi, riflettendo anche in poesia, la deriva populista nella quale purtroppo l’Europa è oggi immersa.

Versi come questi di Mimmo Pugliese:

Nella sala d’attesa si lucidano rivoltelle
il domatore arriva in motoslitta
è già morto 11 volte
ma il corridoio non ha mai cambiato spartito”
;

o questi altri di Francesco Paolo Intini:

Un passero rovista nel riciclabile. Manca un led alla rabbia finale.
Il potere si concentra in un motore poi passa di mano in mano
Ma non saprà dirci, con tutta evidenza,
Cos’è quest’allegrezza nel fil di rame
…”;

mettono indiscutibilmente la parola “fine” a qualsiasi tentativo di perpetuazione di modelli poetici che nel nome di una presunta “tradizione” pretendono di eternare un modello di poesia isterilita e dunque asservita.

Il progetto Poetry kitchen segna una frattura definitiva con questi cascami ormai non solo anacronistici, ma ingombranti, parassiti annidantesi nel nostro panorama culturale, e lo fa in maniera incisiva, non limitandosi solo alla dimensione sincronica, ma affondando anche in quella diacronica, come in questi versi di Giorgio Linguaglossa:

Diomede ed Euriloco sperano che le vacanze di Troia non finiscano più.

Odisseo mette il caricatore nel kalashnikov di Agamennone il quale, beato lui, si prende la tintarella sulla spiaggia.

Odisseo, Menelao, Agamennone si spalmano l’abbronzante sul corpo sotto l’ombrellone”.

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È evidente la necessità di procedere a mettere anche la storia sotto la lente d’ingrandimento, rileggendone criticamente i canoni linguistici, pena l’impossibilità di ricostruire adeguatamente le azioni delle onde sotterranee che hanno sempre attraversato la poesia occidentale: perché qualsiasi operazione di ricerca sulla lingua è un intervento antropologico, ed in quanto tale fa inevitabilmente i conti con le concrezioni della storia.

Siamo di fronte ad un’opzione vitale per recuperare quello che Giorgio Linguaglossa evidenzia come il fattore mancante nella costruzione poietica dominante oggi, il Fattore Fantasia – ammorbata proprio dal dipanarsi dei condizionamenti storici – senza il quale qualsiasi impalcatura di costruzione poetica viene inevitabilmente a decadere.

L’idea di “tradizione” è una delle chiavi interpretative delle articolazioni di controllo delle manifestazioni del pensiero, con la sua fissità sul Reale, che avvilisce la poiesi; come dimostrano gli studi di antropologia storica, il concetto di tradizione, è servito come strumento di forgiatura e controllo politici delle prassi sociali e culturali in varie epoche storiche ed a varie latitudini, nel nome di una presunta “purezza delle origini”, funzionale alla perpetuazione dell’ordine costituito nelle varie articolazioni che regolano le società.

Si tratta in realtà di un processo di manipolazione che va ad incidere su quella che è una dinamica fisiologica, che tutte le società, di ogni epoca storica hanno sempre avvertito, vale a dire quella di assicurarsi la coesione sociale e il senso di appartenenza, processo che parte storicamente dalla riattualizzazione degli antichi miti nella quotidianità, conferendo alla comunità un senso di rassicurazione collettiva.

Nel passaggio dalla dimensione antropologico-sociale a quella antropologico-culturale, tale attitudine innata nell’uomo, si riassume nella celebre formula coniata in filosofia da Nietzsche del “mito dell’eterno ritorno”, ripresa poi da uno degli artefici della moderna ricerca storico-religiosa, Mircea Eliade, con la quale lo studioso romeno riassume la rielaborazione nella dimensione del quotidiano dei modelli archetipi mitologici, il riproporsi ciclico dell’ordine cosmico, del ciclo della vita, della morte e della rinascita, che si reitera nell’espletamento del rito.

Nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale ed al “modo di produzione capitalistico”, la tradizione ha finito – in forma ancor più accentuata che in passato – per diventare uno strumento di conservazione e legittimazione di istituzioni, status, gerarchie sociali o rapporti di autorità, grazie al potere di persuasione dell’”idea forza” della sua perpetuazione nel tempo, inculcando credenze, sistemi di valori, codici convenzionali e di comportamento ripetitivi, nei quali si afferma implicitamente la continuità col passato.

Le critiche a questa degenerazione del concetto di tradizione, sono alla base di una delle opere più importanti di antropologia storica del ‘900, dal titolo, per l’appunto L’invenzione della tradizione, di Eric Hobsbawm (uno dei maggiori storici contemporanei) e Terence Ranger.

I due autori partono dall’osservazione che: “tradizioni che ci appaiano, o si pretendono, antiche, hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”; “è caratteristico (di tali tradizioni: nda) il fatto che l’aspetto della continuità sia in larga misura fittizio” “che assumano la forma di riferimenti a situazioni antiche”.

I due studiosi, dimostrano in realtà come si tratti di elaborazioni di risposte calate dall’alto, di fronte a fasi di rapido cambiamento sociale; in queste situazioni, evidentemente le forme di potere costituite intravedono il rischio di scricchiolii, per sventare i quali è fondamentale cercare di coinvolgere le comunità, fornendo loro l’impressione di individuare a sua volta delle soluzioni a tale stato di incertezza, moltiplicatesi esponenzialmente con l’affermazione dell’ “età del capitalismo”, almeno dalla fine del ‘700 e la rottura dei precedenti equilibri.

Non è un caso dunque, che quest’idea “ossessiva” del concetto di tradizione, si radichi soprattutto durante l’800: basti pensare ai vari tentativi di legittimazione dinastica, in contrapposizione alla nascita dei nuovi stati nazionali ed a loro volta ai vari miti creati ad arte per rafforzare le aspirazioni nazionaliste, che avranno come corollario, nel corso del ‘900, lo sviluppo del nazionalismo con tutte le nefandezze da esso prodotte nel corso del secolo.

E non è un caso, altresì, che nell’individuare la definizione di ogni nuova tradizione, si ricorra sempre alla costruzione immaginifica di presunte abitudini umane originarie, attraverso la dimostrazione della loro perpetuazione, in maniera immutata, nel tempo: si attua così, verso queste supposte consuetudini, il meccanismo che Ugo Fabietti definisce di “rimozione dalla storia” e che alimenta quello che già Marc Bloch aveva ribattezzato “idolo delle origini”, che ritroviamo ormai a tutti i livelli, dalla più bieche strumentalizzazioni politiche, fino alla creazione di sagre paesane, sfruttando “l’eterno selvaggio” che si annida nella società occidentale.

L’antropologia combatte queste concrezioni negative e le loro ricadute, mostrando come non esistano culture chiuse alla contaminazione nello spazio ed al contatto con la storia ed evidenziando come qualsiasi cultura sia soggetta a processi evolutivi, in ogni sua singola articolazione, radicati nelle dinamiche storiche.

La prassi di edificare tradizioni ad hocsi estrinseca per forza di cose, anche attraverso il controllo delle singole manifestazioni del pensiero e della creatività, in modo da annientare le aspirazioni al cambiamento, che soprattutto nei momenti di crisi tendono ad affiorare, come reale via d’uscita dal panorama di difficoltà.

In questo quadro, inevitabilmente, la poesia, da sempre considerata la massima espressione della creazione umana e dotata storicamente di una particolare forza d’impatto sull’animo umano che probabilmente condivide solo con la musica – sua musa gemella – ha goduto sempre di “attenzioni particolari”, soprattutto in quelle realtà che possono basarsi su maggiori eredità legate a modelli classici (e ciò non riguarda evidentemente solo la nostra classicità) a perorazione della pretesa nobiltà di modelli archetipi esemplari cui attenersi; ed è così che in ambito italiano proliferino tuttora scritti elegiaci di sapore pascoliano o gozzaniano, assolutamente insignificanti al giorno d’oggi, ma che assolvono questa funzione consolatoria.

Cosa fare? Forse la soluzione è davvero quella che Giorgio Linguaglossa prospetta nel suo componimento qui presente: “mettere mine ad ogni endecasillabo” o scioglierli facendone dentifrici.

Un caro saluto a tutti.

(Vincenzo Petronelli, poeta componente della redazione de lombradelleparole.wordpress.com e della rivista cartacea Il Mangiaparole)

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Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como. Dopo un primo percorso post-laurea come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e redattore editoriale negli stessi comparti, oltreché in quello musicale, attualmente gestisce un’attività di consulenza aziendale nel campo della comunicazione, del marketing internazionale e dell’export. Agisce in vari settori culturali. Come autore sono impegnato scrive testi di poesia, di narrativa e di storytelling sportivo, musicale e cinematografico, nonché come autore di testi per programmi televisivi e spettacoli teatrali. Nel contempo, prosegue nell’impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia sul versante storico-antropologico, occupandosi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare, la cultura di massa, la storia delle religioni. È attivo nell’ambito della ricerca storica e antropologica e come storyteller, nell’organizzazione di eventi e festival culturali in diversi settori (musica, letteratura, teatro, divulgazione) e come promoter musicale. È redattore per il blog letterario internazionale lombradelleparole.wordpress.com e collabora con le riviste Il Mangiaparolee Mescalinaoccupandosi di musica, poesia e del rapporto tra poesia e scienze sociali. Dal 2018 è presidente dell’associazione letteraria Ammin Acarya di Como. Ha iniziato a comporre poesie dalla seconda metà degli anni novanta. Alcuni suoi testi sono presenti nelle antologie IPOET edita nel 2017 e Il Segreto delle Fragole edita nel 2018, entrambe a cura dell’editore Lietocolle, nonché in Mai la Parola rimane sola edita nel 2017 dalla associazione “Ammin  Acarya” di Como, nel blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite 2023 e  nel volume di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025.

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