Adam Vaccaro, “Percorsi di adiacenze”, Marco Saya edizioni, 2025 pp. 601 € 30 – Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa. Dall’adiacenza dei linguaggi poetici del post-novecento al Collasso del Simbolico il passo è breve. Ogni linguaggio che non si espone all’altro rischia di diventare museo del sé. L’adiacenza è il rischio del contatto, la forma più elementare e più alta del vivere

«Ogni linguaggio che non si espone all’altro rischia di diventare museo del sé. L’adiacenza è il rischio del contatto, la forma più elementare e più alta del vivere

 (Adam Vaccaro, Premessa)

Abstract

Il presente saggio propone una lettura critica militante di Percorsi di adiacenze (2025) di Adam Vaccaro. L’autore assume il concetto di adiacenza come categoria antropologica prima ancora che come categoria strettamente letteraria. Vaccaro propone una critica “incarnata”, che attraversa poesia, psicoanalisi, filosofia e arte, per ricomporre il divorzio tra linguaggio ed esistenza storica. Le tesi di Vaccaro vengono messe in rapporto con le riflessioni di Paolo Ruffilli e Giorgio Linguaglossa, evidenziando i pregi e i limiti della riproposizione della soggettività quale centro motore della nuova poesia.

Dalla Lettera ad Adam Vaccaro

caro Adam Vaccaro,

la tua ricerca poetica spiega benissimo il tuo modo di interpretare e cercare di risolvere la questione stilistica di fondo degli ultimi cinquanta anni di poesia italiana: il blocco storico che ha determinato una «discesa culturale» (dizione di Alfonso Berardinelli) della poesia italiana del tardo novecento. Tralascio qui il che cos’è stata questa questione di fondo che, detta in poche parole, altro non è che: il quotidianismo lombardo che ha attraversato la poesia italiana del secondo novecento e che è stato un prodotto sì autoctono, ma che ha avuto alla lunga un esito negativo perché ha ritardato e ostacolato  la nascita di un nuovo linguaggio poetico, ha impedito di volgere lo sguardo alle esperienze poetiche che si facevano oltralpe, ad esempio allo svedese Tomas Tranströmer, ai poeti del modernismo europeo (penso ai polacchi Rozewski, Hebert, Krinicki, penso ai poeti cechi del secondo surrealismo praghese: Michal Ajvaz, Petr Kral, Pavel Reznicek, Ladislav Fanta etc), impoverendo, in ultima analisi, gli esiti della poesia italiana. Le obblivioni e le cancellazioni contano, e pesano.

Sì, è vero, tu con il concetto di «adiacenza» hai affrontato questa problematica, hai tentato di reindirizzare la poesia italiana entro il quadro europeo; tu sei tra gli antesignani tra color che hanno sostenuto questa necessità, questa problematica, la necessità storica di un allargamento del linguaggio del «quotidiano» ormai del tutto inadeguato a rappresentare la nuova realtà del capitalismo cognitivo e dei suoi epifenomeni (e lo hai fatto ripartendo dalla poesia di Giancarlo Majorino); le tue poesie segnano la volontà di andare oltre il concetto lombardo del «quotidiano», che ha funzionato però come collo di bottiglia, e lo hai fatto investendoci enormi quantità di energie, ma resta il fatto che Milano è e resta la capitale economica dell’Italia, non è la capitale politica del nostro Paese, non ha le risorse intellettuali, il retroterra letterario, l’humus politico né le capacità politico-letterarie (e forse neanche la volontà politica) di ampliare il linguaggio poetico italiano. Ma questo vale anche per la capitale politica del Paese, Roma, che ha obliterato la lezione del grande Gioacchino Belli, se facciamo eccezione di  Transumanar e organizzar (1971) di Pasolini e di Anonimo Romano con la sua formidabile opera poetica Adversus il Console Craxi, di cui alcuni stralci sono apparsi sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

Forse questo disegno lo hai perseguito perché ci hai creduto troppo, ovvero, che fosse possibile fare della poesia milanese un terreno fertile di incontro e di scambio di «adiacenze», di esperienze culturali. Ma questo probabilmente non era fattibile, possibile, ma per motivi storici, perché Milano ha una borghesia da sempre allineata sulla fatticità e sulla produttività economica. Inoltre, il ceto letterario milanese  ha una visione angusta delle cose culturali, la poesia milanese, da Sereni in poi, non è mai andata oltre il “dominio” del lumbàrd, è rimasta circoscritta tra la Valtellina e l’Emilia Romagna, è stata e resta una poesia di provincia, Tu hai tentato, lo so, per molti anni di aprire il dialogo perché non volevi tagliare i ponti con i tuoi compagni di strada lombardi, ma, in definitiva, le cose sono rimaste tali e quali, il quotidianismo lombardo ha continuato a funzionare come un collo di bottiglia e a mietere allori nel mentre che impoveriva il ventaglio lessicale e stilistico della poesia italiana (basta leggere la poesia dei milanesi di ieri e di oggi). Questo è stato ed è tuttora, a mio avviso, il punto dirimente.

Ma tu hai continuato, con tenacia, nella tua intuizione che fosse necessario ampliare i recinti linguistici del discorso poetico, ed è un merito che ti va ascritto: nelle cose che si fanno bisogna crederci e percorrere fino in fondo gli esiti ultimi di una ricerca intellettuale, costi quel che costi. La tua poesia è ben alloggiata, non si palesa come «ammobiliata» con mobili d’occasione presi a prestito, ne convengo, ma è scritta con un linguaggio che risente ancora di una certa aura post-lirica della tradizione del tardo novecento italiano. A tua giustificazione dirò che in questi ultimi cinquanta anni in Italia non c’è stato un linguaggio poetico di ricambio, non c’è stato un linguaggio poetico in grado di intercettare una tematica come quella della de-fondamentalizzazione dell’io e delle sue pertinenze (che tu chiami «adiacenze»), se facciamo eccezione di  quattro  cinque poeti significativi di questi ultimi trenta quaranta anni: Mario Lunetta (1943-2017), Maria Rosaria Madonna (1940-2002), Giorgia Stecher (1929-1996), Anna Ventura (1936-2019), Anonimo Romano (di cui si ignorano ovviamente le date di nascita e di finis vitae) autore di un libro formidabile ancora inedito: Adversus il Console Craxi e Steven Grieco-Rathgeb (1949), tutti autori che pochissimi hanno letto. E lo dico io a tua (e mia, nostra) giustificazione: tu hai tentato, e si vede bene dalle tue poesie, di scrivere di un modo di esistere dei tuoi personaggi lumbàrd con un linguaggio che ancora non era pronto, disponibile, in Lombardia, perché quello che era in uso non era adeguato.

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Il ritorno della critica letteraria come atto di resistenza civile

Adam Vaccaro riporta la riflessione poetica al suo compito originario: dire il letterario attraverso la corporeità e l’incorporeo (IO, ES, Super-Io). Nel saggio “MetodologicaMente” Vaccaro rifiuta l’idea di una critica come osservazione oggettiva e la sostituisce con un atto di compartecipazione. Nel saggio “Primi Fondamenti”, dedicato a Giancarlo Majorino, esplicita la natura antropologica del concetto chiave dell’adiacenza. L’Es, l’Io e il Sé diventano figure antropologiche della relazione in una prospettiva di poesia come “conoscenza incarnata” e antidoto alla tolleranza repressiva della cultura maggioritaria. In alternativa alle impostazioni di Paolo Ruffilli e Giorgio Linguaglossa, Vaccaro propone una poetica dell’umanizzazione: la parola come forma di vita e di resistenza in quanto “la ricerca di una forma è forma di un’altra ricerca”, poiché “se ogni scrittura è traccia di un soggetto scrivente, anche nel caso di Majorino – assunto da Vaccaro a pilastro centrale della sua idea di poesia – ci porremo la domanda di quale soggetto” storico-sociale si tratta. Resta il fatto che Vaccaro è rimasto abbagliato dalla ricerca formale di Majorino oscillante tra linguaggio diretto, linguaggio indiretto e meta linguaggio, perifrasi antifrastiche “combinate… in strutture testuali che alla fine conducono a un risultato, a mio parere, tra i più notevoli” del secondo novecento dal punto di vista del concetto di adiacenza.

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 “Adiacenza è prima di tutto, prima che un’idea di poesia, un’idea/gesto poetica; cioè appartiene a quel tipo di ipotesi che tanto fanno venire in mente quegli esperimenti fatti con una serie di scimmie chiuse in una stanza: c’è una banana appesa a una sedia… per cui prende la sedia, la posiziona, vi sale sopra e prende la banana… naturalmente, beata la scimmia che ha una banana, bella, mangiabile e evidente in mano. Con l’analisi del testo la faccenda è più complicata e opinabile… Quindi una ricerca aperta…  non posso sapere quanto di essa conserverò, confermerò o modificherò fra 5 o 10 anni. Adiacenza vuol dire viaggio o lettura/scrittura entro la rete enne dimensionata di un testo qualunque (letterario e no, poetico e no) come luogo costituito da una rete di linguaggi, o tessuto/mappa testuale. Rete che costituisce il testo come soggetto e questi come testo. Viaggio in una spazialità cosmogonica, enne dimensionata… Il viaggio, nel testo e altrove, ci porta a riconoscere che quello che pensavamo di conoscere (noi stessi)  non lo conosciamo affatto. Il testo vivo ci propone in effetti un viaggio che moltiplica ciò che non conosciamo, insieme a ciò che conosciamo. Aumenta la crisi e non la riduce.” (p. 597)

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Nell’aeroporto della poesia italiana contemporanea, dove la parola si è fatta consumo e la critica brochure editoriale, Adam Vaccaro riporta la riflessione poetica al suo compito originario: dire il testo attraverso il corpo della parola. Percorsi di adiacenze (Marco Saya Edizioni, 2025) non è un libro di critica in senso tradizionale. È, piuttosto, un libro di resistenza alla socialmediocrazia. Un gesto di opposizione a quella “tolleranza repressiva” del linguaggio che ha trasformato la poesia in intrattenimento e l’intellettuale in testimone inoffensivo.

Donato Di Stasi, nell’introduzione, parla di Vaccaro come di un “intellettuale indomito”, di un autore che “frantuma e ricostruisce la realtà”. Vaccaro non osserva dall’esterno, ma entra nel corpo del linguaggio attraverso la postura dell’EsserCi. E se la critica accademica seziona e seleziona i testi, egli li abita, li fa reagire, collidere, li vive in quanto «ogni ricerca di forma è forma di un’altra ricerca». Questa postura, al tempo stesso etica ed epistemologica, fa di Vaccaro un antropologo del linguaggio: la sua è una critica incarnata, un attraversamento dell’umano nel linguaggio e del linguaggio nell’umano.   Il saggio iniziale, “MetodologicaMente”, è il vero manifesto del libro. Vaccaro rifiuta l’idea di una critica come “osservazione oggettiva” e la sostituisce con un atto di partecipazione:

               «La critica, se non rischia la contaminazione con l’oggetto, diventa sterile autopsia di un corpo freddo

«Solo nella prossimità si può generare un senso nuovo: l’adiacenza è il punto di contatto tra la lingua e la vita

L’atto critico per Vaccaro non è analisi ma relazione: un andare verso il testo, un entrarvi in adiacenza. Non si tratta di interpretare ma di abitare i segni, di riconoscere in essi la loro tensione vitale.  Il linguaggio per Vaccaro non è un sistema chiuso ma una rete di attraversamenti: il linguaggio come corpo, il corpo come linguaggio. La poesia è allora la forma più alta di questo attraversamento, un gesto di conoscenza che, anziché spiegare, espone l’uomo alla realtà, la parola all’altro.

Nel saggio Primi Fondamenti, dedicato a Giancarlo Majorino, Vaccaro esplicita la natura antropologica del suo concetto chiave: l’adiacenza è considerata come una categoria antropologica. Non si tratta di una categoria estetica né di un criterio ermeneutico, ma di una postura esistenziale e antropometrica.

«È pensabile una temporalità in cui l’avventura del piacere del testo non muoia in sé, ma diventi Altro, rapportando la complessità dei segni a quella dell’Altro-da-sé?»

Questa domanda, che attraversa tutto il libro, non riguarda solo il destino della poesia, ma il destino dell’uomo occidentale, un soggetto ridotto a monade, segno privo di contenuto, separato dalla realtà, prigioniero del labirinto del proprio linguaggio. Vaccaro individua nella poesia un possibile luogo di riconciliazione, dove “il segno torni a farsi extrasegno, carne, incontro”. Scrive:

            «Ogni ricerca di linguaggio è ricerca di rapporto meno alienato con la Cosa; dire, comunicare a qualcuno e là, proprio là, se il salto riesce, essere

L’adiacenza è dunque la figura di questo salto: la tensione tra distanza e contatto, tra io e altro, tra parola e mondo. Si tratta di  una categoria antropologica della relazione, che nasce nel linguaggio poetico e non ma che  lo oltrepassa, fino a diventare una filosofia della sopravvivenza nella società socialmediatica.

La poesia, per Vaccaro, è l’ultimo luogo in cui l’uomo può ancora toccare la “Cosa”, non rappresentarla ma sfiorarla, come un cieco che riconosce il mondo attraverso il tatto. Il punto controverso della lezione di poetica di Vaccaro è il concetto di critica come “incarnazione”. Anche qui l’autore ricorre ad una metafora che rimette la palla al centro. Ma non se ne esce. Il concetto di “incarnazione” è, ancora una volta, teologico e antropologico, e qui si trasforma in concetto ermeneutico con un triplo salto mortale.

Analizzando la poesia di  Majorino (ma anche di Finzi, Porta, Di Ruscio, Sanesi e altri) Vaccaro mostra la “potenza” di una poesia che “riprecipita nella fedeltà partecipante a ciò che accade”. In questa formula “fedeltà partecipante” è racchiuso il cuore della sua lezione di poetica. Il poeta, come il critico – afferma il Nostro – non può limitarsi a descrivere: deve immergersi, contaminarsi, compromettersi, rischiare.

            «La scrittura che non fugge ma riprecipita nella fedeltà partecipante a ciò che accade è la forma più alta di adiacenza

Vaccaro rintraccia in Majorino,  in Porta, De Palchi, Finzi e Sanesi, una linea di poesia “reattiva”, che rompe il ritmo della banalità letteraria, che si espone al caos per generare conoscenza. La critica, per Vaccaro, non può non condividere questo rischio, deve diventare atto conoscitivo” incarnato”,  mai  mero esercizio di stile.

adam vaccaro

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L’Es, l’Io e il Sé: verso un’antropologia della soggettività

Un altro concetto qualificante del libro è la reinterpretazione della famosissima tripartizione freudiana (Io, Super-Io, Es). Vaccaro non  usa Freud come schema  teorico, ma come strumento di lettura antropologica del letterario. L’Es non è l’inconscio testuale, ma la fonte pulsionale e vitale dell’essere umano; il Super-Io rappresenta le forme di dominio culturale e politico che reprimono tale vitalità; l’Io è la fragile zona intermedia in cui si gioca la possibilità di relazione. È una lettura che riprende il concetto di “tolleranza repressiva” di Marcuse con un inserto del mito platonico di Er di Hillman. Resta il fatto che nella odierna civiltà della intolleranza agevolata la società non repressiva del capitalismo attuale consente e sollecita ciascuno a coltivare il proprio hortus conclusus, il proprio angelo custode, il genius dei romani, a coltivare il proprio Altro-da sé, che  la poesia maggioritariasi incarica di diffondere.

            «Solo un Io che tiene insieme carne e carta può inventare una forma di comunicazione complessa.» Da questa tensione nasce la figura del Sé:

«Entità utopica e necessaria, risultato di un intrigo più fraterno tra Io ed Es.».

«Il Sé è la figura antropologica della poesia: un soggetto non chiuso ma poroso, capace di relazione, di “essere con”»

Vaccaro, in sintesi, propone una psicologia relazionale del linguaggio in cui la parola poetica è il luogo in cui l’uomo tenta di ricostruire se stesso, di  risanare la frattura tra corpo e senso, tra materia e significato.

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La parola che ci ha lasciati. Ermeneutica della catastrofe e del dis/allineamento post-metafisico delle parole nella poesia ucraina di Elina Sventsytska. Una voce dall’esilio e dalla diaspora

Elina Sventsytska poetessa e scrittrice ucraina è nata nel 1960 a Samara, ora Russia. È laureata in Filologia all’Università Nazionale di Donetsk. È una rinomata ricercatrice nel campo della teoria letteraria. Scrive prosa in russo e poesia in ucraino. È autrice di nove libri di poesia e prosa, pubblicati dalle più importanti case editrici in Ucraina. Le sue opere sono state, altresì, pubblicate nelle principali riviste letterarie in Ucraina e all’estero. Le poesie e i racconti sono stati tradotti in polacco, inglese, danese, lituano, russo e italiano. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il primo premio nazionale “Pianeta del Poeta” (2008), il premio nazionale di M. Vološin (Ucraina, 2019), il terzo premio del Concorso internazionale di prosa breve “Senza confini” (Barcellona, Spagna, 2018). Le poesie in italiano sono state pubblicate sulle riviste “ClanDestino”, “LibriCK”, “Gradiva”, “Inverso”. I racconti sono state pubblicate sulle riviste “Nido di gazza”, “Racconticon”

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Poesie inedite di Elina Sventsytska
(Donetsk – Kiev – Anzio)

***

mattina presto. Il lampione rimane acceso.
è pomeriggio. il lampione rimane acceso.
la sua luce sfuma nella pianura nebbiosa,
tra gente indifferente e sfrenata.
la luce, come la vita, è superflua
la luce, come la vita, diviene innominata..

seppellire la testa sotto la neve
là è caldo, pervinche fioriscono sotto la neve
gli animaletti dormono, gentili e docili
le erbe abbracciano la terra in un sonno greve
le anime che dentro me sono morte
rimangono ancora lì, in un mondo di neve, innominate,
le illumina il lampione che rimane sempre acceso.

il tempo è come una carta vetrata
e a spazzare via la fuliggine e la sporcizia,
raschiando, grattando, raschiando,
ruvido, rigido, scottante
ci macina, ci schiaccia e ci trasforma in sabbia
o in neve, dove ci siamo persi innominati,
in un mondo scintillante, che illumina il lampione
che rimane sempre acceso.

ecco perché vivo nella terra innominata,
mi trasferisco da una città all’altra innominata,
dove anche le strade sono innominate.
i nomi cadono come foglie secche,
la parola ci ha lasciati, è andata ai pesci.
forse tornerà in un altro mondo
in un altro mondo innevato,
dove la lanterna è sempre accesa, giorno e notte,
illuminando le nostre povere vite con una luce innominata.

***

un poeta cerca un lettore, cerca un lettore…
attraverso il cemento dei secoli,
cercando nei recessi più profondi del mondo,
nei cortili sporchi con una bottiglia di vodka.
e nei simposi filologici con una bottiglia di cognac.
ed eccolo:
un pazzerello lo scriverà,
un altro pazzerello lo leggerà.

e poi ricomincia tutto da capo:
di nuovo il poeta cerca un lettore, magari lo incontra per caso.
tra i passanti nel corridoio, tra i passeggeri della metropolitana,
forse questo scolaro con gli occhi azzurri,
forse questa ragazza bruttarella e pensierosa…
ma lo scolaro ha molto da fare, è difficile per lui vivere,
e la ragazza pensa all’amore – perché dovrebbe leggere…
ma un giorno accadrà:
un matto avrà letto
quello che un altro matto avrà scritto.

e poi il poeta muore – in un campo nomadi
o, se si è fortunati, in un ospedale
dentro lenzuola sporche.
Allora tutti scuotono la testa e dicono:
“perché? il popolo aveva bisogno di lui…”.
Pietà, cos’è il popolo? è solo una parola…
e anche dopo la morte il poeta serve solo
a un pazzo che lo leggerà.
e così via all’infinito:
un pazzo lо scriverà,
un altro pazzo lо leggerà.

perché viene fatto tutto questo?
Perché lavorare invano,
scrivere queste lettere, restando sveglio tutta la notte,
pensare, sentire, inquietarsi?
Non sarebbe meglio prendere un caffè?
fare una bella passeggiata,
immergersi nella dolce vita?
Cosa ci sta succedendo?
Perché buttiamo via il nostro tempo così stupidamente?
Non c’è risposta, è così che funziona.
un pazzo scriverà,
un altro pazzo leggerà.

***

Questa città la conosco. Anche questo posto mi è noto.
Ancora e ancora i miei sogni mi ci portano.
Ancora e ancora vedo case diroccate,
tetti scoperti o abbandonati,
porte aperte verso il cielo come se aspettassero gli alieni,
ma non arrivano. I cani si aggirano per le rovine piangendo.

Ecco la piazza, sabbia insanguinata.
Un monumento a Lenin in un cespuglio di assenzio,
come un mentore, tende la sua mano con sicurezza nel silenzio.
Il cielo di pesante metallo
poggia sulla fredda carcassa bruciata
di un’auto, accanto a un enorme crepaccio.

Che grande spazio! Quanto vento e quanto fumo!
I bambini giocano sereni ai giochi di guerra.
Uno grida: “Mi hanno ucciso!” e cade a terra.
L’erba cresce nel cratere e la gente va a lavoro,
tutto va bene perché deve andare così.
È come se ci fosse la pace, ma c’è odore di guerra,
è come la guerra, ma tutti vivono una vita di pace.

Le strade sono vuote e buie, proprio come in tempo di pace,
proprio come allora di tanto in tanto esplode qualcosa,
così come ogni tanto va via la corrente…
si può sempre perdere il lavoro,
negli scantinati si sta sempre freschi d’estate.
Si scopre che è possibile vivere di guerra.
È solo che i prezzi aumentano e gli psicologi non bastano,
è solo che le notizie sono diventate una lettura regolare,
ma tutto sommato si tratta di affari come al solito.
Non si conoscono le cifre esatte delle vittime, tutti hanno perso il conto,
si potrebbe fare un piccolo Paese dei morti.

Un allarme a cui tutti rispondono con un saluto,
l’orchestra in smoking suona ancora più forte.
la stessa melodia, ancora e ancora,
come se tutto andasse bene, tutto fosse positivo,
cantando e ballando, come se la felicità fosse una parola,
come se la morte non fosse nata ancora,
eppure la gelida onda della realtà
sta proprio dietro l’angolo.

***

Nessuno verrà mai qua.
La casa è vuota e la strada è deserta.
Chi è sparito nell’altro paese,
Chi è sparito nel’aldilà
Chi è sparito nella propria patria
La memoria è un pulviscolo nel mio palmo.

Ricordo solo che ci furono Adamo ed Eva,
stavano in una gabbia d’oro
cinguettavano come uccelli del cielo,
ma furono buttati fuori,
da lì che provengono tutte le nostre difficoltà.
Lo so che Erode è stato sepolto dai neonati,
macellato con estrema crudeltà.

Ricordo che prima del crollo dell’Unione Sovietica
ci fu una tremenda epidemia di peste suinа,
la gente si era quasi estinta,
ma poi nacque una nuova gente
che andò subito in guerra,
grande guerra internazionale, quindi penultima,
ultima, ed è iniziata oggi ancora.
I neonati che macellarono Erode,
cantano e ballano tutt’ora.

Ricordo che era la fine del mondo,
le prime tre volte è stato spaventoso,
la quarta volta faceva paura, ma non molto,
poi tutti si sono abituati e andati avanti con la vita.
il tempo era brutto, il lavoro era faticoso.
Non ricordo quante volte è finito il mondo,
ma gli infanti che macellarono Erode con vecchi rasoi,
massacravano tutti i suoi discendenti
fino alla settima generazione con gli stessi vecchi rasoi,
adesso cantano e ballano e baciano i loro vecchi rasoi.

Un monumento è una cosa fondamentale,
un monumentо è una cosa destinata
a servire ai piccioni per cagare, cagare, cagare.
Icaro Caduto e Mussolini
Lenin e Vittorio Emmanuele Secondo –
i piccioni cagano allo stesso modo.
Se gli abbiamo creato dei monumenti
ecco, lì c’è il loro unico valore.
I bambini che macellarono Erode,
adesso sono cresciuti, ma spesso sognano
lo zietto grande e pauroso
che li divertì tanto giocando con rasoi ottusi,
che tintinnavano nell’aria mattutina.

Chi distrugge i monumenti, guai a chi li demolisce!
I monumenti prendono vita, i resti si ripiegano:
l’orecchio venuto al posto della dita,
la testa spostata sullo stomaco,
la gamba si trova vicino al collo,
l’altra rimane, ma appesa a un’unica pezza,
attaccata alle costole.
I monumenti vengono a farci visita,
ci parlano del passato, piangono il loro destino,
lamentano il loro dolore, ma ci perdonano.
Magari stessero zitti!
I neonati che macellarono Erode,
sono tutti morti e le loro anime
sono in una fredda miniera
piangendo che la vita se ne è andata,
la vita è passata come una fuga perenne
sull’asfalto fessurato,
su buche e pozzanghere, nel buio e nel sangue,
dietro bugie solenni.

La parola che ci ha lasciati. Ermeneutica del dis/allineamento post-metafisico delle parole  nella poesia di Elina Sventsytska. Una voce dall’esilio e dalla diaspora

Nel panorama poetico ucraino contemporaneo, la figura di Elina Sventsytska occupa una posizione singolare e liminale. Nata a Donetsk e oggi residente ad Anzio, in Italia, scrittrice e filologa, Sventsytska è una delle voci più intense della diaspora ucraina post-sovietica. La sua poesia, scritta in ucraino ma spesso tradotta in italiano con una precisione che non ne attenua la ferocia lirica, si muove in uno spazio che potremmo definire di metafisico disallineamento linguistico, temporale, simbolico.

Nel contesto ucraino, accanto a poetesse come Lyuba Yakimchuk, Kateryna Babkina o Iya Kiva, che hanno testimoniato la guerra e la perdita con un registro di realismo visionario, Sventsytska si distingue per un linguaggio più scarnificato, quasi “filologico” nel senso etimologico del termine, un amore per la parola che coincide con la sua fine. La voce della Sventsytska si pone a metà strada tra la testimonianza storica e la metafisica del silenzio. È come se la guerra, la dissoluzione dell’impero, la precarietà dell’identità linguistica e la memoria culturale dell’Est europeo si fondessero in un’unica costellazione di dis/locazioni: un mondo in cui la parola stessa ha smesso di appartenere agli uomini. “La parola ci ha lasciati, è andata ai pesci” — scrive la poetessa in uno dei suoi testi più emblematici — e in quel verso si raccoglie la diagnosi dell’epoca: un’umanità rimasta priva di linguaggio, un’esistenza che sopravvive al proprio logos.

La poesia della Sventsytska si nutre di una sintassi ellittica e di un ritmo spezzato; alterna la narrazione e l’aforisma, la descrizione concreta e la visione onirica. È un linguaggio che porta sulla pelle la cicatrice di una perdita metafisica che fa del frammento l’unica forma possibile di sopravvivenza della poesia.

Terre innominate: la dis/locazione linguistica come destino

Uno dei nuclei simbolici più potenti della sua poesia è il tema dell’innominato: la parola come luogo evacuato, i nomi che “cadono come foglie secche”. Sventsytska abita un mondo dove la nominazione non garantisce più l’esistenza, e la toponomastica (“mi trasferisco da una città all’altra innominata, dove anche le strade sono innominate”) si dissolve insieme all’identità. È una geografia dell’anomia e della anedonia, che rispecchia tanto l’esperienza della guerra e dell’esilio quanto la disgregazione ontologica di chi vive in un tempo post-linguistico. In questa topografia sfibrata, il “lampione che rimane sempre acceso” diventa il fulcro simbolico della visione sventsytskiana. Una luce “superflua come la vita”, “innominata come la terra”, che non serve più a illuminare, ma a testimoniare. È la presenza residua della coscienza, la fiammella che sopravvive alla fine della parola.

Il “lampione” è anche una figura della poesia stessa: luce inutile, anacronistica, che continua a bruciare nonostante il disincanto. In un mondo dove “il tempo è come carta vetrata”, la luce è ciò che resta a graffiare la superficie opaca della realtà. Il tempo, infatti, non scorre ma raschia, consuma, leviga. È una temporalità abrasiva, che “ci macina, ci schiaccia e ci trasforma in sabbia o in neve”. In questa immagine straordinaria, il tempo diventa materia tangibile e ostile, un agente ostile della metamorfosi. Non è più flusso cronologico, ma un dispositivo di dissoluzione. La Sventsytska sembra volerci dire che vivere oggi significa essere limati dal tempo, ridotti a polvere linguistica, perduti “in un mondo scintillante che illumina il lampione che rimane sempre acceso”.

Il poeta e il folle. La catena dell’inutile

In uno dei testi più amari e disperati, “Un poeta cerca un lettore”, Sventsytska mette in scena la metapoetica della vanità. Il poeta vaga tra “cortili sporchi con una bottiglia di vodka” e “simposi filologici con una bottiglia di cognac”, cercando un lettore che non esiste, se non nella figura di un altro folle. “Un pazzo scriverà, un altro pazzo leggerà.” Questo refrain, che ritorna come un mantra, diventa il ritratto paradossale della letteratura contemporanea: un atto senza pubblico, un gesto che si alimenta della propria inutilità. Tuttavia, proprio in questa gratuità assoluta si annida la forma più alta di resistenza. La poesia come atto folle è l’unico modo per mantenere aperto il canale con il mondo, anche quando il mondo non ascolta più.

C’è, in queste pagine, una amara consapevolezza del destino dell’intellettuale post-sovietico: la dissoluzione della funzione sociale del poeta, l’esaurirsi del mito del “profeta”, la riduzione del linguaggio a gesto anacronistico. Ma Sventsytska non cede al cinismo, la sua ironia è compassionevole, una forma di pietà per la parola stessa. Il poeta continua a scrivere perché non può tacitarsi, e la scrittura diventa l’ultimo rituale di appartenenza a una specie in via d’estinzione.

 Il mondo capovolto: mito, guerra e parodia del sacro

Il segmento più visionario della sua opera è quello in cui il mito si rovescia e si mescola alla cronaca: “Adamo ed Eva nella gabbia d’oro”, “Erode macellato dagli infanti”, “i monumenti che prendono vita”. Qui Sventsytska costruisce una teogonia del disastro: il sacro non è più fonte di ordine ma di caos, e la storia stessa diventa una parodia della Genesi.

L’immagine di “Adamo ed Eva che cinguettano come uccelli del cielo, ma vengono buttati fuori dalla gabbia d’oro” è una riscrittura feroce del mito della caduta. Il paradiso non è più perduto, è diventato una “prigione dorata”. La cacciata non è punizione ma liberazione. Da lì, dice la poetessa, “provengono tutte le nostre difficoltà”: la conoscenza è un esilio perpetuo, un errore ontologico che ci costringe a parlare una lingua che non ci appartiene più.

Anche la figura di Erode è riscritta con un’ironia apocalittica: “Erode è stato sepolto dai neonati, macellato con estrema crudeltà.” Il mito dell’infanticidio viene capovolto in un gesto di vendetta paradossale: gli innocenti diventano assassini. È un rovesciamento morale e cosmico, dove la purezza si confonde con la barbarie. Gli infanti, “che macellarono Erode con vecchi rasoi, adesso cantano e ballano”, rappresentano la storia che si ripete in una danza macabra: la gioia come forma di rimozione, la violenza come gioco.

Nel medesimo registro, i monumenti diventano organismi viventi: “Icaro Caduto e Mussolini, Lenin e Vittorio Emanuele Secondo – i piccioni cagano allo stesso modo.” Qui l’ironia si fa amarissima satira politica e teologica insieme. Tutte le ideologie, le religioni e i poteri finiscono nello stesso destino organico: materia per gli escrementi del tempo. Ma quando i monumenti “prendono vita e vengono a farci visita”, la poetessa ci mostra il lato perturbante della memoria: i simboli del passato non muoiono mai, ma tornano mostruosamente deformati, con “l’orecchio al posto delle dita, la testa sullo stomaco”. La storia, come il corpo, non si decompone: si riassembla mostruosamente. È la memoria che si ribella al silenzio, il passato che ritorna come incubo biologico.

 “È come se ci fosse la pace…, è la guerra invisibile

Tra i versi più celebri della Sventsytska troviamo:

È come se ci fosse la pace, ma c’è odore di guerra,/ è come la guerra, ma tutti vivono una vita di pace.

In questa oscillazione semantica (tra il “come se” e la realtà) si condensa la condizione del mondo contemporaneo. È la pace come simulacro, la normalità come anestesia collettiva.

La poetessa ucraina descrive città in rovina, piazze vuote, cani che vagano “piangendo tra le rovine”, ma anche “l’orchestra in smoking che suona ancora più forte” mentre gli allarmi risuonano.

L’immagine è potentemente metaforica: la civiltà occidentale continua la sua danza elegante mentre la guerra, la distruzione e la disumanizzazione scorrono appena oltre le vetrine. È un’immagine che ricorda tanto la “Sinfonia patetica” di Celan quanto la decadenza lucida di Brodskij.

Il verso sull’orchestra che suona durante la catastrofe è una delle allegorie più efficaci del nostro tempo: l’arte come rumore di fondo, la musica come copertura estetica del trauma. Ma anche qui Sventsytska non cade nel moralismo: c’è una pietà implicita, un riconoscimento che l’essere umano, pur conoscendo la propria rovina, continua a suonare.

Celan, Tranströmer, Mandel’štam. I tre specchi della dissonanza post-metafisica

Nell’universo poetico di Elina Sventsytska si riflettono tre grandi genealogie della parola moderna: Paul Celan, Tomas Tranströmer e Osip Mandel’štam. Da Paul Celan, eredita la tensione verso una lingua dopo la catastrofe. Celan, sopravvissuto alla Shoah, parlava della poesia come “respiro di un altro”. Anche Sventsytska scrive dopo qualcosa di irrappresentabile: la distruzione della propria città, la perdita della patria, la guerra che erode la grammatica del reale. Ma se per Celan “la lingua rimase, nonostante tutto”, in Sventsytska essa se ne va. Non è la lingua che sopravvive, ma il suo fantasma. Il passaggio dal “nonostante tutto” al “dopo tutto” segna la distanza tra una modernità ancora speranzosa e una contemporaneità senza fondamento. La sua è una poesia post-celaniana: non più la redenzione del verbo, ma oblio del verbo, la sua scomparsa rituale.

Con Tomas Tranströmer condivide invece l’arte della visione obliqua. Il poeta svedese cercava la fenditura tra visibile e invisibile; Sventsytska abita quella fenditura come unico luogo abitabile. Laddove Tranströmer scriveva “Fuori, il mondo si trasforma in vetro”, Sventsytska ribatte: “Il tempo è carta vetrata”. Il “vetro” in Tranströmer è trasparenza che separa, la carta vetrata di Sventsytska è abrasione che consuma. Entrambi descrivono la fragilità del reale, ma con segno opposto: il primo con delicatezza mistica, la seconda con una materialità crudele. In lei, il tempo non riflette, ferisce.

Infine, Osip Mandel’štam: la figura del poeta come testimone inutile ma necessario. Come il russo che scriveva “noi viviamo senza avvertire il paese sotto i nostri piedi”, Sventsytska percepisce il terreno mancante, l’impossibilità di radicamento. Il suo “poeta-folle” è un discendente di Mandel’štam, ma svuotato di pathos eroico, un residuo umoristico della tragedia in atto. Quando la Sventsytska scrive “Non sarebbe meglio prendere un caffè?… Non c’è risposta”, mette in scena la stanchezza dell’intellettuale post-ideologico, ma anche la tenerezza di chi continua a pensare, a scrivere, a “restare sveglio tutta la notte” nonostante la futilità dell’impresa.

Le parole come rovine della parola post-metafisica

Tutto in Sventsytska si muove tra la rovina e la lucentezza. La sua poesia è piena di immagini di detriti (monumenti crollati, automobili bruciate, sabbia e neve) ma ogni rovina contiene un bagliore. Il lampione sempre acceso, la neve che copre i morti, la luce innominata sono tutti segni di un residuo metafisico, un frammento di fede occlusa nella persistenza del senso anche dopo la dissoluzione del linguaggio e dei suoi significati.

La sua ermeneutica del dis/allineamento frastico e post-metafisico consiste in questo: mostrare che la poesia non serve più a ordinare il mondo, ma a registrare i suoi scarti, i suoi rigurgiti. Il dis/allineamento è una forma di verità, una modalità conoscitiva che sostituisce la coerenza con la frattura. Ogni salto temporale (dal mito biblico alla guerra moderna, dal crollo sovietico alla fine del mondo) è una “variazione della stessa caduta”. Ogni dis/locazione spaziale (Donetsk, Kiev, Anzio, la “terra innominata”) è un frammento di una geografia mentale priva di centro.

Laddove la modernità poetica cercava ancora una forma (piena o negativa), Sventsytska abita la deformità come unica forma possibile. Le sue frasi non si succedono per logica ma per urto: l’immagine nasce dall’attrito tra tempi e registri come scintille di un cortocircuito. È una poesia che non si lascia parafrasare, si subisce.

 L’”orchestra” e il “lampione”. La metafisica della sopravvivenza biologica

Due immagini attraversano l’intera opera: il “lampione sempre acceso” e “l’orchestra in smoking”.

La prima rappresenta la coscienza residua, la luce che non illumina più nulla ma rifiuta di spegnersi. La seconda è l’allegoria della civiltà che continua a esibirsi mentre la catastrofe avanza.

Tra questi due poli si tende la corda della poesia sventsytskiana, da un lato, la veglia ostinata della luce; dall’altro, la danza incosciente dell’umanità.

Si potrebbe dire che la poetessa costruisce una fenomenologia dell’intervallo tra pace e guerra, vita e morte, linguaggio e silenzio. La sua voce abita il “come se” (quel territorio ambiguo in cui le cose sembrano ancora funzionare, ma odorano già di fine). È in questo spazio intermedio che la poesia trova la sua funzione: non quella di spiegare, ma di testimoniare la sopravvivenza di un senso capovolto e deforme dopo il suo naufragio.

La luce innominata: verso una conclusione post-ontologica

In un verso che racchiude l’intera sua poetica, Sventsytska scrive:

 “Forse tornerà la parola in un altro mondo, innevato, / dove la lanterna è sempre accesa, giorno e notte.”

Questo “altro mondo innevato” è il luogo dell’attesa, il paradiso laico della lingua perduta. È il sogno di un ritorno della parola, non come comunicazione, ma come presenza.

Là dove Celan cercava la “parola salvata”, Sventsytska attende la “parola che torni a incarnarsi”.

Il suo compito, nel frattempo, è mantenere accesa la lanterna: conservare il lume della coscienza anche nell’oscurità semantica. La poesia di Elina Sventsytska è, in ultima istanza, una mistica del disastro. Non nega la rovina, ma la trasforma in rito di conoscenza. Nei suoi versi la guerra, la perdita e l’esilio non sono solo eventi storici, sono stati dell’essere, esperienze metafisiche della dissoluzione.

Il mondo che Sventsytska descrive è “come se ci fosse la pace, ma c’è odore di guerra”, un luogo dove ogni cosa è doppia, capovolta, sfasata. Ma proprio in questo sfasamento nasce una nuova lucidità, la consapevolezza che solo il dis/allineamento linguistico e post-metafisico ci restituisce la misura del reale. Sventsytska non cerca di salvare la lingua, la accompagna nel suo esilio, la osserva mentre migra verso i pesci, mentre si dissolve nella neve. La sua poesia è un atto di veglia e di lutto insieme, una lanterna che resta accesa per chi, un giorno, vorrà ritrovare la parola perduta.

(Giorgio Linguaglossa)

#AdamoEdEva #diaspora #ElinaSventsytska #Erode #esilio #giorgioLinguaglossa #IyaKiva #KaterynaBabkina #LyubaYakimchuk #OsipMandelštam #PaulCelan #poesiaUcraina #postOntologico #TomasTranströmer

Wer wird das Rennen beim Literaturnobelpreis 2025 machen? - Buchmarkt

Kaum ist der Applaus für Han Kang, die 2024 den Literaturnobelpreis erhielt, verklungen, beginnt der Kreislauf der Spekulation von Neuem. Noch liegt der Oktober in der Ferne, doch die ersten Favoritenlisten sind bereits veröffentlicht – und mit ihnen die Quoten, die die Buchmacher auf mögliche Preisträger setzen.

Lesering.de

Adam Vaccaro SIGNOREMIE Piccola antologia portatile con Missiva ed Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Un nuovo linguaggio poetico sorge, può sorgere, soltanto allorché il vecchio linguaggio poetico del secondo Montale e del secondo Zanzotto è tramontato e i nuovi posticci linguaggi poetici vanno in vacanza. Dal “quotidianismo lombardo” alla poetica di “Clitennestra”, qui Vaccaro rompe con la tradizione lombarda e apre nuove vie

(Adam Vaccaro 2013 Firenze)

Piccola antologia di Adam Vaccaro

Oh quante volte fare per altre vie la stessa strada
cercando nel passato una strada
dal presente al futuro
Ti ricordi miasignora
che gare di baci carsi
scintille arse e perse nel vento
le cosce tenute come portafogli ricolmi
intenti a non lapidare quel capitale
di sogni e miracoloso nel ventre

Ti ricordi miasignora
il cammino fatto per cercare quel punto
fatto sempre di punti dell’intento
di ricominciare daccapo

e che fatica disperazione e premio
prima e dopo quel punto

Che signora era allora Milano
calda e coicapelli nel vento
una barca alla ricerca del largo
schiaffeggiata dall’acque e baciucchiata dal sole
dopo i massacri recenti della guerra più oscena
tra buchi nel ventre topi sommersi volti riemersi

Entrare in un bar – allora – era come
cucciarsi in un angolo curvo dell’arca
ruotando gli occhi e quel bicchiere
s’una voce giurando riflessa

Stavo con te scorrevamo nel sogno
i sogni belli del dormiveglia in
quell’alba rosata del dopoguerra
ch’aiutava certo a danzare sul mare
cupo di fame e di attese gonfiate
così poveri e ricchi così poveri e ricchi
come noi su questo letto

Sett. ’97 (Da La casa sospesa, Joker, Novi L. 2003 e da La piuma e l’artiglio, Editoria & Spettacolo, Roma 2006)

IM/POTENZE

c’è una tempesta che non cessa
e nei bar girano relitti
la faccia del male è
in un ragazzo di ventanni
che ha già visto tutto il vuoto
nel passato e nel futuro
sapessi che male dice
dammi mille lire
di cosa mi occupo di arte
della sopravvivenza

(Febbr. ‘98)

(In La casa sospesa, Joker Ed., Novi L., 2003; poi in La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006)

(Quintocortile

Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente

per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre

fumavano salsicce e bandiere rosse
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa

Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri

Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo

2004
(In Seeds, Chelsea Ed., New York 2014)

(Clitennestra

In cerca di semi piccoli e testardi
si muove intenta e cauta Clitennestra: io
che ho dato la vita e poi la morte
sono qui tra questi mucchi di rifiuti
travolta
dall’odio che ribolliva prima
di uccidere Agamennone e
quali semi di vita troverò qui
per altri solo un’isola di morte?
Qui
ai bordi della città che ancora dorme
oltre questa discarica di orme e silenzi
fino a quando scoppierà il frastuono
di centomila cavalli di lamiera.
Io
che per malfusso caso presi il nome
di un’assassina ho ucciso un’ora fa
chi ha fatto di me una regina
di questo viale quasi vallo o
fessura
che accostella inviti e luci di latte verso
il ventre-città. Io regina tradotta dalle
montagne aspre d’Albania e poi ridotta
a discarica di misere colline di piacere.
Lui
che altro Agamennone si disse ed erede
quando con un inchino apprese il mio
che sorridendo disse vedi che sono
sarò sempre il tuo re.
Lui
che scivolando con me da quelle
montagne di fame a questi sommersi
viali di pizze stracci fumi e giarrettiere
non poteva sapere l’odio feroce
l’odio
che divampava in me come le fiamme di quel
lanciafiamme visto al cinema mentre
lui con una mano nella cosa tra le cosce
mi sussurrava all’orecchio
sai
regginadicazzi che quel figlio di nessuno
te l’ho venduto…e uno sghignazzo senza
sorrisi e inchini gli squarciava il petto
che a me sbranava la gola che ora
in mezzo a questo pattume respira

(testo del 2001, adesso in La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006 e in Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014)

Poesia di pietra

Milano è poco più di niente, pensa
il distratto che corre con le cuffie
sulla sua capacità di sentire. Poi
senza più fiato si accascia
in questo slargo di sassi
con la montagna di guglie bianche
che lo guarda. E qualcosa si accende
s’illumina anche in lui l’immagine
di una poesia di pietra
lanciata a meraviglia del cielo
alla sua così oscena e plateale
indifferenza
Febbr. 2015

(in Tra Lampi e Corti, Saya Ed. Milano 1919)

adam vaccaro

Adam Vaccaro, poeta e critico nato a Bonefro in Molise nel 1940, vive a Milano. Ha pubblicato: La vita nonostante, Studio
d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997; La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003; La piuma e
l’artiglio
, Editoria & Spettacolo, Roma 2006; Seeds, Chelsea Editions, New York 2014, trad. Sean Mark; Tra Lampi e Corti, Saya Ed, Milano 2019; Identità Bonefrana, Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2020; Google – il nome di Dio, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL), 2021; In respiratia zilei, Nel Respiro del giorno, trad. Alexandru Macadan, Editura Cosmopoli, Bacau, Romania, 2023; Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia, puntoacapo Ed,,20024. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare, con
acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi – superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica e poesia. È stato tradotto in Spagnolo, in Inglese e in Rumeno.
È presente nell’Atlante della Poesia contemporanea curato dall’Università di Bologna, oltre che in molti blog e raccolte
antologiche. E collabora a riviste e giornali con testi poetici e critici. Sul versante critico, ha pubblicato: Ricerche e forme di
Adiacenza
, Asefi, Milano 2001, Premio Laboratorio Arti di Milano 2001. È tra i saggisti di: Sotto la superficie – quaderno sulla poesia contemporanea de “La Mosca di Milano”, Bocca, Milano 2004; La Poesia e la carne, La Vita Felice, Milano 2009. Tra gli altri riconoscimenti: Violetta di Soragna 2005, e Premio Astrolabio, Pisa 2007. L’ultima sua pubblicazione saggistica è Percorsi di Adiacenza, Saya Ed. 2025, con prefazione e cura di Donato di Stasi, e postfazione di Elio Franzini. Antologia di saggi della sua ricerca critica dei linguaggi della Poesia e dell’Arte.
Ha fondato e presiede Milanocosa (https://www.milanocosa.it), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative e curato pubblicazioni. Tra queste: “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, Atti, Milanocosa 2003; “Bunker Poetico” in collaborazione con M. N. Rotelli alla 49 a Biennale d’Arte di Venezia, giugno 2001, con la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^ Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e coordinata con A. Santoro e M. Jatosti; evento col patrocinio del presidente della Repubblica e dell’UNESCO in corrispondenza della Giornata Mondiale della Poesia del 2003. Ha poi curato: 7 parole del mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura infine la Rivista online Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.
Adam Vaccaro – Via Lambro 1 – 20090 Trezzano S/N (MI) – T. 02 85686958 – 347 7104584 – Email: adam.vaccaro@tiscali.it

(Giorgio Linguaglossa in campagna, 2013)  Missiva di Giorgio Linguaglossa ad Adam Vaccaro

caro Adam Vaccaro,

la tua poesia spiega benissimo il tuo modo di interpretare e cercare di risolvere la questione stilistica di fondo degli ultimi cinquanta anni di poesia italiana: il blocco storico che ha determinato una «discesa culturale» (dizione di Alfonso Berardinelli) della poesia italiana del tardo novecento. Tralascio qui il che cos’è stata questa questione di fondo che, detta in poche parole, altro non è che: il quotidianismo lombardo che ha attraversato la poesia italiana del secondo Novecento e che è stato un prodotto sì autoctono ma che ha avuto alla lunga un esito negativo perché ha ritardato e ostacolato  la nascita del nuovo linguaggio poetico, ha impedito di volgere lo sguardo alle esperienze poetiche che si facevano oltralpe, ad esempio allo svedese Tomas Tranströmer, ai poeti del modernismo europeo (penso ai polacchi Rozewski, Hebert, Krinicki etc). e alla poesia del secondo surrealismo praghese, impoverendo, in ultima analisi, gli esiti della poesia italiana. Le obblivioni contano, e pesano.

Sì, è vero, tu con il concetto di «adiacenza» hai affrontato questa problematica, hai tentato di reindirizzare la poesia italiana entro il quadro europeo; tu sei tra gli antesignani tra color che hanno sostenuto questa necessità, questa problematica, la necessità storica di un allargamento del linguaggio del «quotidiano» ormai del tutto inadeguato a rappresentare la nuova realtà del capitalismo cognitivo e dei suoi epifenomeni; le tue poesie segnano la volontà di andare oltre il concetto lombardo del «quotidiano», che ha funzionato però come collo di bottiglia, e lo hai fatto investendoci enormi quantità di energie, ma resta il fatto che Milano è e resta la capitale economica dell’Italia, non è la capitale politica del nostro Paese, non ha le risorse intellettuali, il retroterra, l’humus politico né le capacità politiche (e forse neanche la volontà) di ampliare il linguaggio poetico italiano. Ma questo vale anche per la capitale politica del Paese, Roma, che ha obliterato la lezione del grande Gioacchino Belli, se facciamo eccezione di  Transumanar e organizzar (1971) di Pasolini.

Forse questo disegno lo hai perseguito senza crederci troppo, o forse perché ci hai creduto troppo, ovvero, che fosse possibile fare della poesia milanese un terreno fertile di incontro e di scambio di «adiacenze», di esperienze culturali. Ma questo probabilmente non era fattibile, possibile, ma per motivi storici, perché Milano ha una borghesia da sempre allineata sulla fatticità e sulla produttività economica. Tu hai tentato per molti anni di aprire il dialogo perché non volevi tagliare i ponti con i tuoi compagni di strada lombardi, ma, in definitiva, le cose sono rimaste tali e quali, il quotidianismo lombardo ha continuato a funzionare come un collo di bottiglia e a mietere allori nel mentre che impoveriva il  ventaglio lessicale e stilistico della poesia italiana (basta leggere la poesia dei milanesi di ieri e di oggi). Questo è stato ed è tuttora, a mio avviso, il punto dirimente.

Ma tu hai continuato, con tenacia, nella tua intuizione che fosse necessario ampliare i recinti linguistici del discorso poetico, ed è un merito che ti va ascritto: nelle cose che si fanno bisogna crederci e percorrere fino in fondo gli esiti ultimi di una ricerca intellettuale, costi quel che costi. La tua poesia è ben alloggiata, non si palesa come «ammobiliata» con mobili d’occasione presi a prestito, ne convengo, ma è scritta con un linguaggio che risente ancora di una certa aura post-lirica della tradizione del tardo novecento italiano. A tua giustificazione dirò che in questi ultimi cinquanta anni in Italia non c’è stato un linguaggio poetico di ricambio, non c’è stato un linguaggio poetico in grado di intercettare una tematica come quella della de-fondamentalizzazione dell’io e delle sue pertinenze (che tu chiami «adiacenze»), se facciamo eccezione di  quattro  cinque poeti significativi di questi ultimi trenta anni: Mario Lunetta (1943-2017), Maria Rosaria Madonna (1940-2002), Giorgia Stecher (1929-1996), Anna Ventura (1936-2019) e Steven Grieco-Rathgeb (1949) che pochissimi conoscono. E lo dico io a tua (e mia, nostra) giustificazione. Tu hai tentato, e si vede bene dalle tue poesie, di scrivere di uno stato d’animo dei tuoi personaggi lumbàrd con un linguaggio che ancora non era pronto, disponibile, quello che era in uso non era adeguato. Probabilmente  ti mancava, ma è mancato a tutti noi, il linguaggio, il «nuovo linguaggio poetico» ma non solo a te, mancava a tutta la nostra generazione ed è mancato alle generazioni che sono venute prima e dopo la nostra. Così che non ci è stato concesso il tempo e il modo di apprestare un nuovo linguaggio poetico.

La questione di un nuovo linguaggio poetico implica sempre quella di un pensiero che pensi l’impensato, che fratturi il pensato. Un nuovo linguaggio poetico sorge, può sorgere, soltanto allorché il vecchio linguaggio poetico del secondo Montale e del secondo Zanzotto è tramontato e i nuovi posticci linguaggi poetici vanno in vacanza. Io ho tentato di cavalcare le fratture linguistiche con la messa a terra della nuova ontologia estetica nel 2008, e oggi con la poetry kitchen e la poesia distopica con i risultati che si vedranno, se li si vogliono vedere;  tu hai tentato di ripristinare una poesia che dei principi etici di Antonio Porta ne fosse la erede, noi invece abbiamo gettato lo sguardo oltre le Alpi, a Tomas Tranströmer, ai poeti del secondo surrealismo praghese, all’Europa.
Sono, come vedi, due modi (mondi) diversi, il tuo e il mio, e lontanissimi di impostare il discorso poetico, che però non confliggono, non si escludono a vicenda. Non dico che il nostro sia migliore del tuo, dico solo che sono due modi distanti di scrivere nuova poesia. E qui ci cape la questione della ricerca di una «nuova ontologia estetica» (con le mie parole) e/o di una nuova «adiacenza» (per usare una tua parola-chiave).

(Giorgio Linguaglossa, 11 agosto 2025)

adam vaccaro

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Ermeneutica testuale

Dalle poesie di Adam Vaccaro emerge chiaramente una linea poetica che intreccia tre elementi principali: Milano come luogo e personaggio, non solo sfondo, ma entità viva e mutevole, che nel dopoguerra è una «signora calda» e solidale, che poi diventa città di «sogni disfatti» e di cortili urbani che celano brandelli di tempi passati. Milano è onnipresente e viene osservata dal basso: tra bar, metrò, cortili e scarti urbani, con uno sguardo insieme affettivo e critico.

Il registro è quello basso, pieno di concretezza quotidiana. Vaccaro muove dalla tradizione del quotidianismo lombardo, con un linguaggio spesso colloquiale, diretto, sensoriale e sensitivo: i corpi, gli odori, le strade, i bicchieri, i relitti umani sono resi senza filtri retorici. Questo radicamento nel reale urbano porta la poesia a un contatto immediato con la vita vissuta, ma la spinge anche verso un rischio di «collo di bottiglia» tematico e lessicale.

Racconto e storytelling

Le poesie non sono solo immagini statiche, ma racconti in miniatura, spesso in prima persona, che alternano memorie intime e quadri sociali. In “Clitennestra”, invece, il quotidiano si intreccia con il mito e con l’esperienza migratoria, allargando lo spettro tematico oltre i confini milanesi e lombardi. Qui la lingua conserva il linguaggio diretto ma si carica di violenza, di marginalità, di storie di potere e sopravvivenza.

In sintesi, il genere di poesia che rappresenta Vaccaro è una poesia urbana e narrativa, radicata nella tradizione lombarda postbellica ma con la tensione a superarla, usando il concetto di adiacenza, intesa come apertura ad altri mondi e linguaggi. È una poesia che alterna realismo crudo, memoria affettiva e sperimentazione mitico-sociale, mantenendo però un filo di riconoscibilità nel tono e nella musicalità spezzata come era in vigore nel tardo Novecento italiano.

Ecco una mappa transitiva dal “quotidianismo lombardo” alla poetica di “Clitennestra”, qui Vaccaro rompe con la tradizione lombarda e apre nuove vie.

Come detto, nella poesia di Vaccaro si ha la prevalenza di ambienti urbani lombardi: Milano come scena e fondale del teatro quotidiano.  La città di  Milano resta presente, ma intravista dai margini («ai bordi della città», «discarica»), luoghi di confine tra centro e periferia, Italia e Albania. Lo spazio è inquadrato come cronaca urbana, riconoscibile e priva di mitizzazione. In “Clitennestra” invece nasce uno spazio contaminato, ibrido: reale e mito si intrecciano, la discarica convive con il mito greco. I personaggi  sono quelli tipici della vita milanese: lavoratori, frequentatori di bar, figure di strada, osservati  come da maggiore distanza, con tono familiare e ironico. Clitennestra è figura mitica, ma incarnata in una migrante albanese; il racconto è in prima persona, con forte introspezione e tono drammatico. La narrazione è corale e osservativa, spesso filtrata dal poeta-testimone.  Il dettato poetico da storytelling si intreccia con il monologo interiore, voce intensa e ambivalente che oscilla tra la vittima e il carnefice.

 Linguaggio e registro linguistico nella poesia  “Clitennestra”    

Qui Vaccaro prende le distanze dal  quotidianismo lombardo per adottare un linguaggio basso, colloquiale, anche dialettale e vicino al parlato; mantiene sempre vigile l’attenzione al dettaglio concreto, al registro basso e crudo («regginadicazzi»), ma inserisce frammenti di lirismo e input di intensità semi tragica. Il lessico resta fedele  alla quotidianità urbana e popolare, diventa ibrido: termini concreti della marginalità («pizze, stracci, fumi») accanto a parole da tragedia antica («odio feroce», «regina»). La vita è quella di tutti i giorni: la memoria del dopoguerra, le relazioni umane elementari  e disautentiche o disilluse, con l’apporto di violenza, vendetta, potere, sessualità, migrazione, degrado urbano; la quotidianità viene così trasfigurata in conflitto tragico.

Le strutture strofiche sono brevi, le  immagini rapide, il ritmo è un ricalco della conversazione, e la narrazione è distesa con andamento da storytelling semi tragico, con sequenze che mescolano azione, memoria e riflessione. I finali sono spesso aperti e/o sospesi sono legati alla suggestione visiva, ma sempre ad alta tensione lirico-emotiva («in mezzo a questo pattume respira»), con chiusure fortemente simboliche. In “Clitennestra” si verificano una serie di  continuità con la tradizione lombarda: (presenza di Milano e dei suoi luoghi marginali, registro basso e concretezza sensoriale, radicamento nel reale urbano), e di rotture: (fusione di mito e quotidiano, dal bar milanese alla tragedia greca), con messa in evidenza della centralità di una voce femminile migrante e violenta e un ampliamento tematico a dimensioni transnazionali e archetipiche, narrazione potremmo dire più teatrale e drammatica rispetto alla semplice cronaca urbana.

Con “Clitennestra”, Adam Vaccaro resta pur sempre figlio adottivo del quotidianismo lombardo per il radicamento nella concretezza milanese e nel linguaggio basso, ma rompe con quella tradizione trasformandola in una poesia di confine, ibridando la forma-poesia dove il reale urbano si fonde con il mito e con la voce di figure marginali. L’autore milanese si colloca così con questa poesia in un territorio di confine e ibrido, tra narrativa urbana e commedia semi drammatica.

 (Giorgio Linguaglossa)

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Sain #nobelhaaste'en tehtyä osana #maaginenkesäkisa2025 -haastetta ja yllätin itsenikin. Haaste oli lopulta yllättävän helppo, kun löysi lyhyitä kirjoja.

#tomastranströmer'in #surugondoli löytyi osana hänen koottuja teoksiaan. Hänen runoteoksensa ovat sivumääräisesti varsin lyhyitä, mutta jätin silti hänen esikoisteoksensa kesken vähän ennen loppua, kun en päässyt siihen sisälle. Kirjan lopusta olin lukenut suomentajan parit selitykset ja jälkipuheet ja ne auttoivat ymmärtämään enemmän kun tartuin seuraavaksi palkittuun Surugondoliin. Tranströmer harrastaa pianonsoittamista ja kirjan nimi on sama kuin Lisztin kaksi kappaletta, jotka hän sävelsi vieraillessaan tyttärensä ja tämän kuolemaa tekevän puolison, Richard Wagnerin luona Venetsiassa. Taidan lukea #surugondoli -runot uudestaan nyt, kun tiedän tämän.

#joleenantiipii #kirjamastodon #runokirja
Ein schmaler Band Kindheits- und Jugenderinnerungen und man wünscht sich, es ginge noch ein bißchen weiter und #TomasTranströmer wäre doch auch Romancier gewesen.
Sämtliche Gedichte kommen demnächst in diesen Haushalt und ausgewählte vielleicht auch auf diese Plattform. #books #bookstodon #bücher #2025reads #bücherliebe
Op weg naar een weekend met vertaalde #poëzie; vandaag nog een keer uit de bundel 'Alfabet op de rug gezien', samengesteld door J.Bernlef: gedichten van #TomasTranströmer.
The “Acres of Perhaps” in Emily Dickinson’s “Their Hight in Heaven comforts not”

After I came across the "grand peut-être" in the supposed last words of François Rabelais and recalled "the unshakeable PERHAPS" in "Brief P...

Tracing a phrase from Vladimir Nabokov’s “Pale Fire” (1962) to François Rabelais and Tomas Tranströmer

In "Pale Fire" (1962), by Vladimir Nabokov (1899-1977), Charles Kinbote annotates poet John Shade's unfinished poem "Pale Fire". For the phr...

The Open Window by Tomas Tranströmer | Poetry Magazine

I stood shaving one morning

Poetry Magazine