Adam Vaccaro, “Percorsi di adiacenze”, Marco Saya edizioni, 2025 pp. 601 € 30 – Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa. Dall’adiacenza dei linguaggi poetici del post-novecento al Collasso del Simbolico il passo è breve. Ogni linguaggio che non si espone all’altro rischia di diventare museo del sé. L’adiacenza è il rischio del contatto, la forma più elementare e più alta del vivere
«Ogni linguaggio che non si espone all’altro rischia di diventare museo del sé. L’adiacenza è il rischio del contatto, la forma più elementare e più alta del vivere.»
(Adam Vaccaro, Premessa)
Abstract
Il presente saggio propone una lettura critica militante di Percorsi di adiacenze (2025) di Adam Vaccaro. L’autore assume il concetto di adiacenza come categoria antropologica prima ancora che come categoria strettamente letteraria. Vaccaro propone una critica “incarnata”, che attraversa poesia, psicoanalisi, filosofia e arte, per ricomporre il divorzio tra linguaggio ed esistenza storica. Le tesi di Vaccaro vengono messe in rapporto con le riflessioni di Paolo Ruffilli e Giorgio Linguaglossa, evidenziando i pregi e i limiti della riproposizione della soggettività quale centro motore della nuova poesia.
Dalla Lettera ad Adam Vaccaro
caro Adam Vaccaro,
la tua ricerca poetica spiega benissimo il tuo modo di interpretare e cercare di risolvere la questione stilistica di fondo degli ultimi cinquanta anni di poesia italiana: il blocco storico che ha determinato una «discesa culturale» (dizione di Alfonso Berardinelli) della poesia italiana del tardo novecento. Tralascio qui il che cos’è stata questa questione di fondo che, detta in poche parole, altro non è che: il quotidianismo lombardo che ha attraversato la poesia italiana del secondo novecento e che è stato un prodotto sì autoctono, ma che ha avuto alla lunga un esito negativo perché ha ritardato e ostacolato la nascita di un nuovo linguaggio poetico, ha impedito di volgere lo sguardo alle esperienze poetiche che si facevano oltralpe, ad esempio allo svedese Tomas Tranströmer, ai poeti del modernismo europeo (penso ai polacchi Rozewski, Hebert, Krinicki, penso ai poeti cechi del secondo surrealismo praghese: Michal Ajvaz, Petr Kral, Pavel Reznicek, Ladislav Fanta etc), impoverendo, in ultima analisi, gli esiti della poesia italiana. Le obblivioni e le cancellazioni contano, e pesano.
Sì, è vero, tu con il concetto di «adiacenza» hai affrontato questa problematica, hai tentato di reindirizzare la poesia italiana entro il quadro europeo; tu sei tra gli antesignani tra color che hanno sostenuto questa necessità, questa problematica, la necessità storica di un allargamento del linguaggio del «quotidiano» ormai del tutto inadeguato a rappresentare la nuova realtà del capitalismo cognitivo e dei suoi epifenomeni (e lo hai fatto ripartendo dalla poesia di Giancarlo Majorino); le tue poesie segnano la volontà di andare oltre il concetto lombardo del «quotidiano», che ha funzionato però come collo di bottiglia, e lo hai fatto investendoci enormi quantità di energie, ma resta il fatto che Milano è e resta la capitale economica dell’Italia, non è la capitale politica del nostro Paese, non ha le risorse intellettuali, il retroterra letterario, l’humus politico né le capacità politico-letterarie (e forse neanche la volontà politica) di ampliare il linguaggio poetico italiano. Ma questo vale anche per la capitale politica del Paese, Roma, che ha obliterato la lezione del grande Gioacchino Belli, se facciamo eccezione di Transumanar e organizzar (1971) di Pasolini e di Anonimo Romano con la sua formidabile opera poetica Adversus il Console Craxi, di cui alcuni stralci sono apparsi sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.
Forse questo disegno lo hai perseguito perché ci hai creduto troppo, ovvero, che fosse possibile fare della poesia milanese un terreno fertile di incontro e di scambio di «adiacenze», di esperienze culturali. Ma questo probabilmente non era fattibile, possibile, ma per motivi storici, perché Milano ha una borghesia da sempre allineata sulla fatticità e sulla produttività economica. Inoltre, il ceto letterario milanese ha una visione angusta delle cose culturali, la poesia milanese, da Sereni in poi, non è mai andata oltre il “dominio” del lumbàrd, è rimasta circoscritta tra la Valtellina e l’Emilia Romagna, è stata e resta una poesia di provincia, Tu hai tentato, lo so, per molti anni di aprire il dialogo perché non volevi tagliare i ponti con i tuoi compagni di strada lombardi, ma, in definitiva, le cose sono rimaste tali e quali, il quotidianismo lombardo ha continuato a funzionare come un collo di bottiglia e a mietere allori nel mentre che impoveriva il ventaglio lessicale e stilistico della poesia italiana (basta leggere la poesia dei milanesi di ieri e di oggi). Questo è stato ed è tuttora, a mio avviso, il punto dirimente.
Ma tu hai continuato, con tenacia, nella tua intuizione che fosse necessario ampliare i recinti linguistici del discorso poetico, ed è un merito che ti va ascritto: nelle cose che si fanno bisogna crederci e percorrere fino in fondo gli esiti ultimi di una ricerca intellettuale, costi quel che costi. La tua poesia è ben alloggiata, non si palesa come «ammobiliata» con mobili d’occasione presi a prestito, ne convengo, ma è scritta con un linguaggio che risente ancora di una certa aura post-lirica della tradizione del tardo novecento italiano. A tua giustificazione dirò che in questi ultimi cinquanta anni in Italia non c’è stato un linguaggio poetico di ricambio, non c’è stato un linguaggio poetico in grado di intercettare una tematica come quella della de-fondamentalizzazione dell’io e delle sue pertinenze (che tu chiami «adiacenze»), se facciamo eccezione di quattro cinque poeti significativi di questi ultimi trenta quaranta anni: Mario Lunetta (1943-2017), Maria Rosaria Madonna (1940-2002), Giorgia Stecher (1929-1996), Anna Ventura (1936-2019), Anonimo Romano (di cui si ignorano ovviamente le date di nascita e di finis vitae) autore di un libro formidabile ancora inedito: Adversus il Console Craxi e Steven Grieco-Rathgeb (1949), tutti autori che pochissimi hanno letto. E lo dico io a tua (e mia, nostra) giustificazione: tu hai tentato, e si vede bene dalle tue poesie, di scrivere di un modo di esistere dei tuoi personaggi lumbàrd con un linguaggio che ancora non era pronto, disponibile, in Lombardia, perché quello che era in uso non era adeguato.
.
Il ritorno della critica letteraria come atto di resistenza civile
Adam Vaccaro riporta la riflessione poetica al suo compito originario: dire il letterario attraverso la corporeità e l’incorporeo (IO, ES, Super-Io). Nel saggio “MetodologicaMente” Vaccaro rifiuta l’idea di una critica come osservazione oggettiva e la sostituisce con un atto di compartecipazione. Nel saggio “Primi Fondamenti”, dedicato a Giancarlo Majorino, esplicita la natura antropologica del concetto chiave dell’adiacenza. L’Es, l’Io e il Sé diventano figure antropologiche della relazione in una prospettiva di poesia come “conoscenza incarnata” e antidoto alla tolleranza repressiva della cultura maggioritaria. In alternativa alle impostazioni di Paolo Ruffilli e Giorgio Linguaglossa, Vaccaro propone una poetica dell’umanizzazione: la parola come forma di vita e di resistenza in quanto “la ricerca di una forma è forma di un’altra ricerca”, poiché “se ogni scrittura è traccia di un soggetto scrivente, anche nel caso di Majorino – assunto da Vaccaro a pilastro centrale della sua idea di poesia – ci porremo la domanda di quale soggetto” storico-sociale si tratta. Resta il fatto che Vaccaro è rimasto abbagliato dalla ricerca formale di Majorino oscillante tra linguaggio diretto, linguaggio indiretto e meta linguaggio, perifrasi antifrastiche “combinate… in strutture testuali che alla fine conducono a un risultato, a mio parere, tra i più notevoli” del secondo novecento dal punto di vista del concetto di adiacenza.
.
“Adiacenza è prima di tutto, prima che un’idea di poesia, un’idea/gesto poetica; cioè appartiene a quel tipo di ipotesi che tanto fanno venire in mente quegli esperimenti fatti con una serie di scimmie chiuse in una stanza: c’è una banana appesa a una sedia… per cui prende la sedia, la posiziona, vi sale sopra e prende la banana… naturalmente, beata la scimmia che ha una banana, bella, mangiabile e evidente in mano. Con l’analisi del testo la faccenda è più complicata e opinabile… Quindi una ricerca aperta… non posso sapere quanto di essa conserverò, confermerò o modificherò fra 5 o 10 anni. Adiacenza vuol dire viaggio o lettura/scrittura entro la rete enne dimensionata di un testo qualunque (letterario e no, poetico e no) come luogo costituito da una rete di linguaggi, o tessuto/mappa testuale. Rete che costituisce il testo come soggetto e questi come testo. Viaggio in una spazialità cosmogonica, enne dimensionata… Il viaggio, nel testo e altrove, ci porta a riconoscere che quello che pensavamo di conoscere (noi stessi) non lo conosciamo affatto. Il testo vivo ci propone in effetti un viaggio che moltiplica ciò che non conosciamo, insieme a ciò che conosciamo. Aumenta la crisi e non la riduce.” (p. 597)
.
Nell’aeroporto della poesia italiana contemporanea, dove la parola si è fatta consumo e la critica brochure editoriale, Adam Vaccaro riporta la riflessione poetica al suo compito originario: dire il testo attraverso il corpo della parola. Percorsi di adiacenze (Marco Saya Edizioni, 2025) non è un libro di critica in senso tradizionale. È, piuttosto, un libro di resistenza alla socialmediocrazia. Un gesto di opposizione a quella “tolleranza repressiva” del linguaggio che ha trasformato la poesia in intrattenimento e l’intellettuale in testimone inoffensivo.
Donato Di Stasi, nell’introduzione, parla di Vaccaro come di un “intellettuale indomito”, di un autore che “frantuma e ricostruisce la realtà”. Vaccaro non osserva dall’esterno, ma entra nel corpo del linguaggio attraverso la postura dell’EsserCi. E se la critica accademica seziona e seleziona i testi, egli li abita, li fa reagire, collidere, li vive in quanto «ogni ricerca di forma è forma di un’altra ricerca». Questa postura, al tempo stesso etica ed epistemologica, fa di Vaccaro un antropologo del linguaggio: la sua è una critica incarnata, un attraversamento dell’umano nel linguaggio e del linguaggio nell’umano. Il saggio iniziale, “MetodologicaMente”, è il vero manifesto del libro. Vaccaro rifiuta l’idea di una critica come “osservazione oggettiva” e la sostituisce con un atto di partecipazione:
«La critica, se non rischia la contaminazione con l’oggetto, diventa sterile autopsia di un corpo freddo.»
«Solo nella prossimità si può generare un senso nuovo: l’adiacenza è il punto di contatto tra la lingua e la vita.»
L’atto critico per Vaccaro non è analisi ma relazione: un andare verso il testo, un entrarvi in adiacenza. Non si tratta di interpretare ma di abitare i segni, di riconoscere in essi la loro tensione vitale. Il linguaggio per Vaccaro non è un sistema chiuso ma una rete di attraversamenti: il linguaggio come corpo, il corpo come linguaggio. La poesia è allora la forma più alta di questo attraversamento, un gesto di conoscenza che, anziché spiegare, espone l’uomo alla realtà, la parola all’altro.
Nel saggio “Primi Fondamenti”, dedicato a Giancarlo Majorino, Vaccaro esplicita la natura antropologica del suo concetto chiave: l’adiacenza è considerata come una categoria antropologica. Non si tratta di una categoria estetica né di un criterio ermeneutico, ma di una postura esistenziale e antropometrica.
«È pensabile una temporalità in cui l’avventura del piacere del testo non muoia in sé, ma diventi Altro, rapportando la complessità dei segni a quella dell’Altro-da-sé?»
Questa domanda, che attraversa tutto il libro, non riguarda solo il destino della poesia, ma il destino dell’uomo occidentale, un soggetto ridotto a monade, segno privo di contenuto, separato dalla realtà, prigioniero del labirinto del proprio linguaggio. Vaccaro individua nella poesia un possibile luogo di riconciliazione, dove “il segno torni a farsi extrasegno, carne, incontro”. Scrive:
«Ogni ricerca di linguaggio è ricerca di rapporto meno alienato con la Cosa; dire, comunicare a qualcuno e là, proprio là, se il salto riesce, essere.»
L’adiacenza è dunque la figura di questo salto: la tensione tra distanza e contatto, tra io e altro, tra parola e mondo. Si tratta di una categoria antropologica della relazione, che nasce nel linguaggio poetico e non ma che lo oltrepassa, fino a diventare una filosofia della sopravvivenza nella società socialmediatica.
La poesia, per Vaccaro, è l’ultimo luogo in cui l’uomo può ancora toccare la “Cosa”, non rappresentarla ma sfiorarla, come un cieco che riconosce il mondo attraverso il tatto. Il punto controverso della lezione di poetica di Vaccaro è il concetto di critica come “incarnazione”. Anche qui l’autore ricorre ad una metafora che rimette la palla al centro. Ma non se ne esce. Il concetto di “incarnazione” è, ancora una volta, teologico e antropologico, e qui si trasforma in concetto ermeneutico con un triplo salto mortale.
Analizzando la poesia di Majorino (ma anche di Finzi, Porta, Di Ruscio, Sanesi e altri) Vaccaro mostra la “potenza” di una poesia che “riprecipita nella fedeltà partecipante a ciò che accade”. In questa formula “fedeltà partecipante” è racchiuso il cuore della sua lezione di poetica. Il poeta, come il critico – afferma il Nostro – non può limitarsi a descrivere: deve immergersi, contaminarsi, compromettersi, rischiare.
«La scrittura che non fugge ma riprecipita nella fedeltà partecipante a ciò che accade è la forma più alta di adiacenza.»
Vaccaro rintraccia in Majorino, in Porta, De Palchi, Finzi e Sanesi, una linea di poesia “reattiva”, che rompe il ritmo della banalità letteraria, che si espone al caos per generare conoscenza. La critica, per Vaccaro, non può non condividere questo rischio, deve diventare atto conoscitivo” incarnato”, mai mero esercizio di stile.
adam vaccaro
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
L’Es, l’Io e il Sé: verso un’antropologia della soggettività
Un altro concetto qualificante del libro è la reinterpretazione della famosissima tripartizione freudiana (Io, Super-Io, Es). Vaccaro non usa Freud come schema teorico, ma come strumento di lettura antropologica del letterario. L’Es non è l’inconscio testuale, ma la fonte pulsionale e vitale dell’essere umano; il Super-Io rappresenta le forme di dominio culturale e politico che reprimono tale vitalità; l’Io è la fragile zona intermedia in cui si gioca la possibilità di relazione. È una lettura che riprende il concetto di “tolleranza repressiva” di Marcuse con un inserto del mito platonico di Er di Hillman. Resta il fatto che nella odierna civiltà della intolleranza agevolata la società non repressiva del capitalismo attuale consente e sollecita ciascuno a coltivare il proprio hortus conclusus, il proprio angelo custode, il genius dei romani, a coltivare il proprio Altro-da sé, che la poesia maggioritariasi incarica di diffondere.
«Solo un Io che tiene insieme carne e carta può inventare una forma di comunicazione complessa.» Da questa tensione nasce la figura del Sé:
«Entità utopica e necessaria, risultato di un intrigo più fraterno tra Io ed Es.».
«Il Sé è la figura antropologica della poesia: un soggetto non chiuso ma poroso, capace di relazione, di “essere con”»
Vaccaro, in sintesi, propone una psicologia relazionale del linguaggio in cui la parola poetica è il luogo in cui l’uomo tenta di ricostruire se stesso, di risanare la frattura tra corpo e senso, tra materia e significato.
#AdamVaccaro #Adiacenza #annaVentura #AnonimoRomano #DePalchi #DonatoDiStasi #Es #GiancarloMajorino #GilbertoFinzi #GioacchinoBelli #giorgiaStecher #giorgioLinguaglossa #Hebert #Io #Krinicki #LadislavFanta #mariaRosariaMadonna #MichalAjvaz #PaoloRuffilli #PavelReznicek #percorsi #PetrKral #Porta #Rozewski #Sanesi #Sé #StevenGriecoRathgeb #TomasTranströmer

