Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

#EugenioMontale #poesiaitaliana #poesia #Montale #poetry #letteratura #letteraturaitaliana #literature #cultura #12settembre

Antonio Sanges, Distensione del destino Ensemble 2025 pp. 100 € 12 – una scrittura di resistenza e di esistenza: resistenza alla dissoluzione della poesia in cronaca privata, resistenza alla frammentazione del linguaggio, ed esistenza nel mondo che si incammina verso la storialità. Lettura di Giorgio Linguaglossa

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[immagine creata da ChatGpt. Titolo: Il Novecento e i suoi pargoli]

[Antonio Sanges (Tricarico, 1991) è poeta, saggista e studioso di letteratura e filosofia contemporanea. Ha studiato a La Sapienza, Paris 8 e University College London.
Ha pubblicato tre raccolte poetiche, tra cui Distensione del destino (Ensemble, 2025), e il saggio Les jeux sont faits (Carla Rossi Academy Press, 2023), dedicato a Beckett e alla “cultura della superficie”. Vive a Roma.]

La terza silloge di Antonio Sanges, Distensione del destino (2025), si muove entro una poetica di matrice modernista e simbolica (Montale, Nietzsche, il respiro di un Whitman filtrato), dove la crisi è narrata ma subito dopo ricomposta; si colloca in una posizione intermedia e di dialogo rispetto alla tradizione post-elegiaca del secondo Novecento italiano. Il suo percorso poetico oscilla infatti tra momenti progressivi di superamento e aperture inedite e, al contempo, istanze di conservazione linguistica e stilistica che lo radicano pur sempre nella continuità della poesia post-elegiaca novecentesca. Da un lato, il movimento progressivo è evidente. La voce poetica abbandona la clausura dell’io elegiaco per aprirsi a un “noi collettivo” che recupera una dimensione corale e civile: non più la cronaca individuale del dolore, ma un destino condiviso, una marcia comune verso orizzonti più vasti. A questo si affianca un percorso che va dal nichilismo iniziale, freddo e cupo, a un inatteso affiorare di speranza e vitalità, con toni che riecheggiano persino un pionierismo whitmaniano, ma sempre temperato da un avveduto disincanto. Si tratta di un gesto che si distingue nettamente dal minimalismo diaristico e cronachistico della poesia italiana a cavallo tra Novecento e Duemila.

Sanges compie inoltre un recupero del grande respiro storico e geopolitico: in testi come ”Il mio secolo”, “Roma”, “Verso occidente” e “Congedo” l’io si misura con la civiltà, con la memoria dell’Occidente, con l’ombra di epoche trascorse e con il destino di un’Europa esausta. Qui l’elegia privata si trasforma in elegia storica, e il poeta assume un ruolo di testimone del collasso culturale, non solo del tormento personale. A questo sguardo ampio si aggiunge l’intertestualità filosofica: Nietzsche e Zarathustra, il mito classico, il Mediterraneo, le figure della civiltà europea diventano interlocutori di un discorso che si vuole plurale e non più circoscritto al diario dell’io.

D’altro lato, nella scrittura di Sanges permangono tratti di conservazione e di continuità che lo inscrivono alla tradizione post-elegiaca. Il lessico resta alto, nutrito di parole-simbolo come “destino”, “fato”, “cammino”, “torre”, “cieli”, che mantengono un tono aulico e solenne, lontano dalla sperimentazione linguistica più recente. La struttura del verso libero è regolare, con chiusure sentenziose che ricordano la lirica novecentesca più composta, mentre il paesaggio naturale — mare, stagioni, vette, rovine — continua a funzionare da correlativo oggettivo, sulla scia di Montale e Luzi. Inoltre, a differenza delle scritture kitchen e distopiche o di altre esperienze post-concettuali (vedi la contemporanea poesia francese), nei testi di Sanges manca il plurilinguismo vero e proprio: la sua voce resta univoca, priva di contaminazioni prosastiche, mediatiche o gergali.

Ne deriva un profilo duplice. La poesia di Sanges è progressiva laddove si apre al coro, al mito, alla filosofia e alla storia tentando di riscattare l’elegia individuale con un respiro collettivo e civile. Ma, direi, anche conservativa, in quanto resta fedele a un registro lirico tradizionale, solenne e unitario, che la distingue dalle esperienze di frattura e di frammentazione della poesia più sperimentale. Distensione del destino segna dunque una via intermedia: un tentativo di portarsi oltre il Novecento senza rompere del tutto con la sua eredità, cercando una forma di equilibrio tra la memoria della grande lirica della tradizione modernista e la necessità di un nuovo spazio espressivo corale.

 La “distensione” e il destino della poesia post-elegiaca

Distensione del destino si offre come un attraversamento critico della tradizione lirica italiana post-novecentesca, ereditandone tensioni e conflitti e insieme tentando un loro superamento. La voce poetica si muove tra le ceneri dell’elegia, il peso della memoria storica e civile, e il bisogno di un nuovo spazio corale.

Sin dalle prime sezioni, dominate dall’inverno e dall’inferno (“Inverni di cemento”, “Inferno di asfalto”), la poesia di Sanges si presenta come immersione in un paesaggio desolato e arido in cui il mito e la natura non offrono più alcun varco salvifico. È la condizione tipica della tradizione post-montaliana e post-moderna: di un io consapevole della fine dei fondamenti metafisici e religiosi, che trova davanti a sé soltanto “mucchi di niente”. Eppure, a differenza di tanta lirica contemporanea rimasta prigioniera del diario dell’io, qui si percepisce un gesto di apertura: la disperazione personale si carica di un valore collettivo, come se l’io fosse la soglia per un noi che non ha ancora trovato parola.

Il movimento dei testi è infatti progressivo: dal gelo iniziale, dalla teologia negativa che riduce gli dèi a “figure di secondo ordine”, si passa a una lenta risalita verso la speranza e l’affermazione di una possibilità vitale. Nel cuore della silloge emerge un respiro corale: “Grande è il cammino degli uomini. / Grande è il futuro che hanno davanti”. Qui la voce non è più chiusa nell’io, ma si dilata in un orizzonte condiviso, quasi epico, che spezza il minimalismo diaristico dell’ultimo Novecento. È questo uno dei tratti più significativi della poesia di Sanges: il recupero di una dimensione civile e storica, che si confronta con il destino dell’Occidente, con Roma, con l’Europa, con le macerie della storia.

Non manca un dialogo intertestuale con la filosofia e il mito. Zarathustra, le vette, Itaca, il Mediterraneo: sono presenze che aprono la poesia a un pensiero più ampio, in cui il verso si misura con la storia delle idee e delle immagini dell’Europa. Non si tratta di citazioni ornamentali, ma di una tensione culturale che vuole riportare la poesia dentro un orizzonte plurale, non più limitato al frammento privato. Sanges cerca un’uscita dall’impasse della poesia post-elegiaca, che si era chiusa nella cronaca individuale e nel linguaggio minimale ma, come detto, il suo gesto resta pur sempre ambivalente, accanto ai momenti progressivi, permangono tracce di conservazione stilistica. Sanges non giunge ad adottare il plurilinguismo e la contaminazione dei linguaggi che caratterizzano alcune esperienze più radicali del presente, come la scrittura kitchen/distopica, preferisce mantenere un registro omogeneo, fedele alla linea lirica della tradizione.

Qui si colloca il nodo ermeneutico: Distensione del destino è una poesia che si misura con l’“evento poetico” ma non vi si abbandona del tutto. Seguendo Heidegger, l’evento poetico (Ereignis) è ciò che accade come linguaggio inappropriabile, ciò che apre uno spazio nuovo in cui il mondo si dà nella sua estraneità. In Sanges, l’evento non si manifesta nella frattura del linguaggio (come avviene nelle scritture plurivocali e sperimentali) quanto piuttosto in una trasformazione interna dell’elegia: dall’io al noi, dal nichilismo alla speranza, dall’assenza di senso a un orizzonte storico e civile che, pur fragile,  mantiene ancora in vita il senso. L’evento qui non è la frattura radicale del linguaggio, ma il gesto di conservazione e distensione del destino della poesia, di piegare la tradizione senza spezzarla.

La poesia di Sanges si colloca in una posizione liminare: non più pura elegia, ma nemmeno pienamente evento postmoderno della storialità; non più chiusura diaristica, ma nemmeno frammentazione plurilingue. È una poesia che ha contezza nel potere del canto, pur dimidiandone l’enfasi (“evitiamo il fracasso languido del canto”), che cerca un equilibrio tra la memoria del passato e la possibilità di un futuro comune.

In questo senso, Distensione del destino è una scrittura di resistenza e di esistenza: resistenza alla dissoluzione della poesia in cronaca privata, resistenza alla frammentazione del linguaggio, ed esistenza nel mondo che si incammina verso la storialità. È una poesia che conserva per poter tramandare, che custodisce per poter distendere, e che affida alla parola pur sempre il compito di testimoniare, anche quando la parola appare logora, anche quando il canto sembra disutile, superfluo, decorativo.

(Giorgio Linguaglossa)

Antonio Sanges interpretando l’opera di Beckett, in particolare, Endgame, acutamente scrive: «La questione della scelta del genere letterario diventa allora non limitata alla dimensione della interpretabilità o meno del testo letterario, ma assume sostanza profonda in quanto la posta in gioco risulta essere il modo di raffigurare qualcosa e presentarlo al pubblico, utilizzando una forma che prevede che ci sia un’azione… Il paradosso di utilizzare una forma d’arte che contempli l’azione per rappresentare qualcosa in cui non accade alcunché risulta evidente e pone problemi ermeneutici che sfociano di necessità in una riflessione meta-interpretativa sulla possibilità stessa di interpretare il testo».

Concordemente con la sua impostazione ermeneutica, Antonio Sanges così continua:

  «ragionare sul fatto che la scelta di scrivere per un genere letterario (il teatro) è scelta congruente con il fatto di scrivere cose senza apparente importanza e dunque sull’interpretare queste cose stesse riflettendo su come questo castello di carte si tenga insieme, continuamente negando i propri significati che potrebbero comparire e, in ultima analisi, posticipando una fine oscena in cui l’azione possa mostrarsi effettivamente (un’azione che possa essere identificata immediatamente e in senso non problematico, in un “gioco” sociale o artistico riconoscibile secondo regole condivise e non secondo un gioco creato ad hoc da Beckett in cui esistono azioni, per quanto non condivise subito dal pubblico, cfr. infra, capitolo 2). Solo per completezza si cita una delle tante frasi di Beckett quanto al suo lavoro che scoraggiano un’interpretazione meccanicamente allegorica dei suoi testi, in questo caso si sta riferendo ad Aspettando Godot: «It means what it says». Posto che i significati che possono derivare interpretando i testi di Beckett sono naturalmente moltissimi, a partire dalla biblioteca di riferimento che abbiamo a disposizione (ma cfr. l’intera premessa metodologica qui sopra, paragrafo 1), attenersi alla lettera significa compiere un tentativo di comprendere come funziona un testo in cui apparentemente non accade nulla; considerando però che il genere teatrale implica azione, prima delle considerazioni culturali derivanti dall’interpretazione del significato “assurdo” del testo, si considera la questione d’un testo che per sua categoria di genere contempla un’azione ma che nega l’azione stessa, oppure la nega in apparenza, nel senso che la partita è da giocare tutta all’interno della lingua e le azioni che possono avvenire sono da figurarsi al di fuori del testo, oltre quel limite non sfondato, oltre una fine che è celata, e che si potrebbe quasi dire oscena. In tale ottica, il significato culturale del testo di Beckett può essere visto in una nuova luce, considerando che esso nasce direttamente da una lotta con la lingua che diventa lotta con un genere letterario dopo 2 eventi storici catastrofici e scoperte filosofico-scientifiche destabilizzanti. Beckett ci forza a uscire dalle nostre regole e, destabilizzandoci, a vedere il suo gioco composto dalle sue regole, diverso dai giochi in cui possiamo interpretare secondo categorie preconfezionate. Si scrive di seguito l’inizio dell’Atto primo di Waiting for Godot, ovvero la didascalia e il primo scambio di battute dei due protagonisti:

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Strada di campagna, con albero.

È sera. Estragone, seduto per terra, sta cercando di togliersi una scarpa.

Vi si accanisce con ambo le mani, sbuffando. Si ferma stremato, riprende fiato, ricomincia daccapo. Entra Vladimiro.

ESTRAGONE (dandosi per vinto) Niente da fare.

VLADIMIRO (avvicinandosi a passettini rigidi e gambe divaricate) Comincio a crederlo anch’io. (Si ferma) Ho resistito a lungo a questo pensiero; mi dicevo: Vladimiro, sii ragionevole, non hai ancora tentato tutto. E riprendevo la lotta. (Prende un’aria assorta, pensando alla lotta. A Estragone) Dunque, sei di nuovo qui, tu?

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Nella didascalia, dopo che viene indicato il luogo dell’azione, è descritto ciò che Estragone sta facendo. È seduto ma sta compiendo un’azione, sta cercando di togliersi una scarpa, fermandosi e poi ricominciando. Ampliando la visione alla trama dell’opera descritta sopra, si potrebbe considerare come debba essere letto il fatto che Estragone cerca di togliersi una scarpa senza riuscirci, ovvero se la cosa debba essere interpretata o semplicemente non debba essere letta e vista per quello che è: un personaggio tenta di togliersi una scarpa ma non ci riesce. Si considera allora il fatto che quella di togliersi la scarpa è un’azione, ma un’azione il cui senso ci sfugge, proprio come tutte le azioni di Aspettando Godot. Eppure, tale azione è descritta nei minimi particolari, come se fosse importante; e tuttavia, se l’azione in sé non porta ad alcun significato, ciò che 33 La citazione beckettiana è reperibile in J. Croall The Coming of Godot, Bloomsbury Publishing, Londra, 2005. 34 S. Beckett, Teatro, op. cit., p. 11. Antonio Sanges – 36 – dev’essere notevole è appunto la descrizione stessa, le parole utilizzate. Già qui si vede che esiste un’apparente anomalia nella dialettica azione-narrazione a teatro. Qui viene narrata un’azione che non è apparentemente un’azione che porti a qualcosa, e non dà informazioni utili per il prosieguo della trama stessa. Se il teatro greco era un teatro della parola, la definizione tiene ancora per il teatro di Beckett? La narrazione relegata al prologo nei drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide introduceva il dramma, e nel caso di Sofocle i prologhi avevano addirittura una funzione etopoietica (35). In Beckett, invece, non sembra esserci alcuna narrazione, nessun épos trasformato in drama, ma una sorta di compenetrazione dei due elementi per cui si narra un’azione che rimanda alla narrazione stessa in un gioco di specchi. Estragone è seduto per terra e sta cercando di togliersi una scarpa; questa non è una descrizione minimalistica che indugi compiacente nel mostrare qualcosa; infatti, è posta ad apertura di libro e il personaggio “si accanisce con ambo le mani” nel tentativo di togliere tale scarpa, “sbuffando”. Tutto ciò porta ad un esaurimento di Estragone stesso che si ferma “stremato”, poi “ricomincia daccapo”. È evidente che Beckett dà qui importanza all’azione che descrive, per quanto essa appaia assurda e non porti ad alcunché; eppure, l’azione è descritta nei minimi particolari. Beckett ci sta introducendo in un mondo che ha le sue regole, ci sta invitando a giocare ad un gioco non per interpretarlo, ma per vederlo; in questo gioco un’azione descritta in una didascalia in un genere letterario (quello teatrale) che prevede un’azione, porta ad una sostanziale inazione (“si ferma stremato”), e poi ad una successiva e identica azione (“ricomincia daccapo”). Si potrebbe sostenere che questa descrizione sia semplicemente straniante, grottesca, assurda e quindi ci si potrebbe appoggiare ad una lettura in chiave ironica per cui ci sarebbe una descrizione di una situazione insensata che provoca uno straniamento del pubblico e anche il riso. Di qui, peraltro, sarebbe arduo non giungere a considerazioni politiche circa l’intera opera beckettiana, come fece Lukacs il quale ritenne che l’autore avesse fatto un’apologia del capitalismo e dell’alienazione dell’uomo nel mondo moderno, rassegnandosi pessimisticamente a ciò (36). Infatti, le situazioni perennemente stranianti che vivono i personaggi di Beckett, e le descrizioni degli stati più degradanti dell’esistenza (anche nei romanzi), danno ragione ad alcune letture in chiave politica, ma la tensione concreta insita nella paradossale “azione che non agisce” è straniante di per sé, ad un livello, per così dire, pre-intellettuale, per non dire pre-politico, immediatamente mostrato agli occhi, come se l’estetica e dunque lo stile venissero ridotti ad un livello base, precedente e per questo dominante su tutti gli altri livelli: Beckett dichiarò di scrivere in francese anziché nella sua lingua madre «Parce qu’en français, c’est plus facile d’écrire sans style» (37). Non considero dunque quella che il critico ungherese definiva negativamente, nutrendosi della sua formazione realista, come “ideologia del modernismo”. Qui si ritiene che, in prima istanza, in Beckett agisca continuamente uno stimolo oppositivo che non è né ideologico né anti-ideologico, ma preideologico, nutrito da una lotta con la lingua e con lo stile letterario. La descrizione dell’azione è qui tanto precisa da non potere essere analizzabile solo facendo affidamento alla funzione dell’ironia, perché Estragone che tenta invano di togliersi la scarpa riflette tutto ciò che succede durante lo spettacolo, ovvero una serie di azioni che non portano a nulla e che fanno dubitare del loro status stesso di azione. Estragone si ferma quando è “stremato”; se la funzione ironica è quella straniante di provocare il riso per una situazione assurda, allora lo sarà anche tutta quella dello spettacolo in cui non si comprende quale sia il senso delle azioni. Ma se lo spettacolo si conclude, ciò non significa che la fine non esista ma essa è “oscena”, perché non è valicato un limite, non è mostrato quello che potrebbe succedere oltre la fine. E, ancora, lo sfasamento tra un evento descritto secondo le convenzioni di un genere letterario che prevede – l’azione e il fatto che le azioni descritte (come questa) non portino a niente, agisce ad un livello strutturale ed estetico che forza a considerare il testo beckettiano come situato entro coordinate stilistiche che creano i propri riferimenti. In questo caso, dunque, l’accanimento di Estragone per togliersi la scarpa è analizzabile come un’azione che assume significato nel gioco artistico di questo testo stesso, ovvero nel gioco in cui queste azioni sono azioni estetiche, qui descritte nella didascalia, che hanno una loro performatività solo entro le coordinate di un particolare gioco linguistico (cfr. infra, cap. 2)».

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35 Cfr. G. Mastromarco, Storia del teatro greco, Le Monnier, Firenze, 2008.

36 Il magnum opus di Lukacs si concentra sul romanzo, tuttavia risulta essere ancora un termine di confronto imprescindibile nel dibattito teorico quanto alla forma dei testi scritti. Per gli studi teorici sul romanzo di Lukacs, cfr. G. Lukacs, Die Theorie des Romans, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenchaft», 2, 1916, pp. 225-71, 390-431, ed. it. Teoria del romanzo, tr. it. di F. Saba Sardi, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1994. 37 Cito da N. Gessner, Die Unzulänglichkeit der Sprache, Juris, Zurigo, 1957, p. 32. Les jeux son faits: la cultura della superficie – 37

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Poesie scelte da Distensione del destino

I nomi delle cose

Il tempo scorre
mai così lento mai così veloce
mai sono stato disperatamente
come ora, come allora – Quando? Non so –
in cerca di una voce.
Mai come ora ho
diffidato
dell’esatta consistenza
della mia natura umana.
Potrei nominare esattamente
cose che non ho
mostrare nomi che non so.
Ma sarebbe inesatto sostenere
che non posso dire
alcunché:
ancora parlo
ancora scrivo
ancora vivo.

I significati delle cose

Cosa significa sapere di sapere
il nome delle cose,
e l’esatto metro
la misura senza errore
della tradizione?
Conosciamo le regole del gioco
ma è pittoresco pensare in coro
di intendere parole di ogni uomo

Il mio secolo

Sono stato chiamato alle armi.
Sono stato chiamato alla fede.
Sono stato chiamato alla gloria.
Ma la mia epoca non è ancora sorta
perché io nasco dalla storia
e la mia storia è morta.
Io sono l’erede degli eredi
degli epigoni l’epigono.
Io sono il limite esausto
della lingua di terra che si chiama
patria, una terra senza lingua.
In esilio la lingua d’esperia d’europa
non sento non perché io esausto straniero
non riconosca l’accento d’europa d’esperia.
Ma io sono straniero perché la materia
della mia civiltà, anima unica,
è lontana dall’anima della mia epoca.
Uomini trapassati è la vostra ora: il fato
è ancora un verbo al passato remoto.

La tentazione di vivere

Ho sentito la tentazione
di vivere
ma ero distratto.
O forse era il mio mondo
a essere già esausto:
nella luce del principio
avevo già sentito le scintille
della fine.
Non rinunciai alla rivolta
senza senso. Per principio
la mia struttura d’uomo
m’impedì di distendere lo sguardo
ché io sono un uomo orizzontale
la tensione
è il mio ultimo orizzonte
del mio mondo imperiale.
Ancora credo nello spirto
nel lauro e nel mirto.
So io anche il mio mondo
alla deriva
e la lasciva
tentazione di cedere al disastro.
Navigo a vista:
le mie epiche ossessioni
non si trovano in natura
ma nella mia cultura.
Gettata l’ancora nel mare delle tradizioni
partiremo alla ventura.

Distensione del destino

Ci separano lunghi luoghi dalle distese di neve
ma saremo presenti.
Il nostro lento andare
si aprirà finalmente a orizzonti più vasti
dove i cieli scorgono
un avvenire più lieto.
Presso la radura delle steppe
i nostri cavalli affaticati dal cammino
riposeranno placidamente.

Grande è il cammino degli uomini.
Grande è il futuro che hanno davanti.

Lontano per noi è ora il clangore
della battaglia, il suono funesto
degli anni di ieri che riposano finalmente
domati dalla pianura dell’oggi.
Distesi domiamo adesso
le terre camminando lentamente
lungo deserti di cui non vediamo,
non immaginiamo la fine.
Pazienti su dromedari instancabili
procediamo passo dopo passo
senza l’urgenza del fuoco, domato per ora,
senza parlare perché
la scelta delle parole è adesso attutita.
Evitiamo il fracasso languido
del canto. Riposiamo,
riprendiamo energie camminando
lentamente sotto un cielo superficialmente
nordico.
Prossimi alla radura
vuota dove la luce
è più distante
della nostra pace,
rallentiamo il passo
dei nostri cavalli pazienti.
Perché conosciamo
già quello che conosceremo
che la distanza non esiste
che è inconoscibile il sentiero
che porta alla scoperta
verso dopo verso.

Meglio dunque distendere il passo
e il verso e appropinquarsi
quietati alla radura che chiama
piano nel piano del bosco.

#AntonioSanges #AspettandoGodot #Beckett #DistensioneDelDestino #Estragone #giorgioLinguaglossa #Luzi #Montale #Nietzsche #Vladimiro #Zarathustra

Poesie di Vincenzo Petronelli – Una poesia fitta di vacillamenti, di vaneggiamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro, di un passo in avanti e due all’indietro; una poesia che va per passi laterali e per retrovie, per tentativi, per scorci e per scorciatoie, per smottamenti laterali, ribaltamenti, aperture parentetiche e serendipiche, per ri-tracciamenti, per sentieri che si rivelano Umwege e ri-tracciamenti all’indietro, di lato che si rivelano Holzwege.

Poesie di Vincenzo Petronelli

Fragmenta historica

Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico. Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.

“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.

Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”

“Who by fire? Who in the night time?”

Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.

Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

 

Au revoir, rêves de gloire

A bordo di una Tesla, i soldati lasciano Fort Alamo in direzione est:
“Per il nostro prossimo anniversario ti regalerò l’Iraq amore!”.

Al resort “Covo dei Cretesi” si celebrano le nozze di Telemaco e Nausicaa.
Lo chef Dunand raccomanda:

Tartare di bue agli estrogeni

Lepre di tegole
Frittatona di cipolle
Peroni ghiacciata
Rutto libero

Tarzan, Furia, La casa nella prateria hanno fermato i treni per Tozeur.
Il presidente ha la cravatta in pendant e la camicia fresca di lavanderia:
“Dio è dalla nostra parte: vincere e vinceremo!”.

Romolo e Salvatore sono ormai degli influencers su Instagram
da quando Chat GPT
li ha citati come icone LGBT.

Christopher Mc Candless ha scritto dall’Alaska:
la Vergine di Norimberga gli offre tortellini agli aculei tutte le sere.
“Happiness only real when shared” . “L’aria si è addolcita al confine russo: tra pochi giorni tornerò a casa”

L’annuncio urbi et orbi del ministro dei cocktails:
“Da oggi è severamente vietato
uscire senza abito da sera. I contravventori
saranno sottoposti a rieducazione coatta
presso la Antonio Cassano’s Fashion Academy ”.

Renato Curcio fa i fanghi a Salsomaggiore con l’Università della terza età.
Sulle spiagge di Albenga, ci si diverte con poco negli anni’60:
buche di sabbia, palette, secchielli
trick e track e bombe a mano.

Norma aspetta all’angolo in attesa di poter entrare al Rotary
nel suo fasciato nero d’occasione. Un’ auto in corsa le fa cat calling.
“Dai pure il ciak Cecil: sono pronta per il primo piano”.

“Addio, Hollywood!”. Si gira Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio”.

Miraggi

Padre Ralph ed il Commissario Lo Gatto sono arrivati questa mattina a Pantelleria.
Le maestre elementari girano video su Tik Tok: è un’altra estate al mare.

Mrs. Pynchon beve Negroni e tequila ghiacciata seduta al Bar Tramvia:
per il suo barboncino invece, solo spritz e patatine.
Lou Grant ha appena terminato di scrivere il suo ultimo pulp: “Pane, amore e botulino”.

Il balcone della Signora Francavilla sull’orizzonte del primo giorno di vacanze.
Chopin in tour al Lido Valerio presenta il suo ultimo album dance con Leone Di Lernia.

Bagni radioattivi ed orzate di periferia, Enzo Tortora e Lech Wałęsa, Mike il partigiano ed Alvaro Vitali: stessa spiaggia, stesso mare.

Enzo Sguera ha vinto per getto del bicchiere di whiskey al primo round:
“Questo matrimonio non s’ha da fare”.

Teresa ascolta i complimenti del supplente: Rosa rincasa tardi la sera con l’argenteria in tasca. Dino Zoff annuncia il suo ritiro. “Ho due braccia forti, benedizione di Babilonia”.

Il vento tra gli ombrelloni sa di melanzane alla parmigiana, pasta al forno, eau de Chernobyl ed inchiostro al metanolo.
Un corridoio al fosforo collega il Gargano e l’Albania nelle domeniche di agosto.

“Da domani vita nuova: avrò un lavoro autonomo”. È l’Italia che va, abbronzata dai miraggi.

Poetry kitchen GPT

Prologo (su una panchina di Porta Romana, Agosto 2025)

“Che diavolo sarà questa poetry kitchen, contessa?”
“Ma che ne so? Vuol mettere le belle poesie che studiavamo a memoria a scuola:
Pascoli, Carducci, Leopardi, D’Annunzio, con questa roba?
Sicuramente Gennaro l’idraulico ne saprà più di noi”.
“Ma come, n’o sapit? È come foss na specie d futurismo. Un momento, quando finisco di leggere la campagna acquisti del Napoli e vi faccio vedere una cosa”
“Ecco qua cos’aggie trovat”

*

Un carrello
deraglia tra le corsie di Marte,
offerte 3×2 su stelle esauste
— ma solo con la carta fedeltà di Giove.

Il robot alla cassa
scansiona il silenzio del cliente,
codice a barre stampato sulla fronte:
“Umano in scadenza 2054”.

Fuori, piovono banane fluorescenti.
Un influencer dal casco blu
trasmette in diretta il diluvio,
mentre Noè parcheggia il SUV elettrico
nel box del condominio celeste.

Intanto il parroco
benedice le lattine di tonno,
e un algoritmo invecchiato
ricorda di aver amato
una fotocopiatrice nel 1997

Epilogo

“Avete sentit sì che bella poesia? Chist sì, è poesia ch’a cazzimm”.

Articolo dal Corriere della Sera del 30 Agosto 2025: “Si indaga sulla misteriosa morte della contessa di Vimodrone e della sua governante; si sospetta del poeta kitchen Vincenzo Petronelli”

Il momento espressivo della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale

Il momento espressivo di Vincenzo Petronelli coincide con un linguaggio irriconoscibile. Voglio dire che se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in pseudo-forma, degenera in mera esternazione dell’io, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc., cose legittime, s’intende, ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma espressiva integrale» di un «evento».

Il problema filosofico di fondo della poesia della seconda metà del novecento, che si prolunga per ignavia di pensiero poetico in questo post-novecento che è il nuovo secolo, è il non pensare che il problema di una «forma espressiva» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio espressivo integrato» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo espressivo» (tempus regit actum). Il digiuno di filosofia di cui si nutre la poesia scettico pragmatica del quotidiano, ha determinato in Italia una poesia prevedibile, scontatamente lineare, che procede in una sola dimensione: quella della linearità unitemporale a scartamento ridotto sulla misura dell’io; ne è derivata una poesia-comunicazione, poesia da infotainment. I responsabili di questa situazione di scacco della poesia italiana sono stati i maggiori poeti del secondo novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), da Elsa Morante con Il mondo salvato dai ragazzini (1971) e da Patrizia Cavalli con Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975);  queste cose le ho già divulgate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011, ma era utile riepilogarle in questa sede.

Qui posso solo tracciare il punto di arrivo di questa processualità italiana (ed europea): il minimalismo, il post-minimalismo, il cronachismo dell’io e il quotidianismo dell’io. Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa in diagonale la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione della «discesa culturale» (dizione di Berardinelli) che ha attinto la poesia italiana del secondo novecento. Delle due l’una: o si accetta la poesia del post-minimalismo romano milanese, che prosegue la linea di una poesia da infotainment, o si tenta una  inversione di tendenza: da una poesia unidimensionale ad una poesia pluridimensionale, plurifrastica, plurilinguistica che accetti di misurarsi con uno «spazio espressivo integrato», con una molteplicità di spazi e di tempi, con una molteplicità di linguaggi, con quello che un tempo si definiva il «plurilinguismo e il pluristile».

L’andatura apoplettica e sistematicamente sismicizzata della «nuova poesia» kitchen e distopica di Vincenzo Petronelli ha un andamento jazz, dove non sai mai che cosa vi dirà il verso successivo; una poesia fitta di vacillamenti, di vaneggiamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro, di un passo in avanti e due all’indietro; una poesia che va per passi laterali e per retrovie, per tentativi, per scorci e per scorciatoie, per smottamenti laterali, ribaltamenti, aperture parentetiche e serendipiche, per ri-tracciamenti, per sentieri che si rivelano Umwege e ri-tracciamenti all’indietro, di lato che si rivelano Holzwege. Una poesia che ha il coraggio di esternare una scommessa con l’ignoto dei linguaggi.

Ma è che oggi non essendoci più una fondazione sulla quale posare il discorso poetico, anch’esso se ne va a ramengo, senza un mittente, senza un destinatario, privo di identità, contando unicamente sulla destinazione senza destinatario; si invia, si destina qualcosa a qualcuno pur sapendo che non giungerà più nulla a nessuno, in quanto la destinazione è priva di destino, si vive alla giornata seguendo il Principio Postale, la spedizione della cartolina, delle cartoline. Il «polittico» e il «kitchen» di Vincenzo Petronelli sono spazi espressivi integrati ragguagliabili ad inganni sussultori, inganni di frasari, di fraseggi, di cartoline, di invii, di ri-invii, di post-it, di scripta (che non manent), di voci interrotte. Si va per la via della complessificazione della forma-poesia, verso l’entropia dei linguaggi che collassano in un imbuto, in un buco nero. Si tratta di un meccanismo di ri-invii e di ri-tracciamenti destinati allo sviamento e all’evitamento, dove il messaggio, che reca impresso il desiderio, la pulsione, non arriva mai a destinazione in quanto per definizione freudiana inibito alla meta. Il Principio di Piacere che ha prodotto il desiderio approda infine al Principio di Realtà, e quest’ultimo retro agisce sul primo riproducendo il circuito chiuso di un meccanismo invernale. E così facendo perpetua il meccanismo di riproduzione del capitale libidico del piacere non ottenuto mediante la riproduzione del piacere libidico in piacere sublimato, piacere tras-posto, tras-ferito.

Del resto, l’Elefante si è accomodato in salotto. E sta bene lì dove sta.

(Giorgio Linguaglossa)

Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como. Dopo un primo percorso post-laurea come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e redattore editoriale negli stessi comparti, oltreché in quello musicale, attualmente gestisce un’attività di consulenza aziendale nel campo della comunicazione, del marketing internazionale e dell’export. Agisce in vari settori culturali. Come autore sono impegnato scrive testi di poesia, di narrativa e di storytelling sportivo, musicale e cinematografico, nonché come autore di testi per programmi televisivi e spettacoli teatrali. Nel contempo, prosegue nell’impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia sul versante storico-antropologico, occupandosi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare, la cultura di massa, la storia delle religioni. È attivo nell’ambito della ricerca storica e antropologica e come storyteller, nell’organizzazione di eventi e festival culturali in diversi settori (musica, letteratura, teatro, divulgazione) e come promoter musicale. È redattore per il blog letterario internazionale lombradelleparole.wordpress.com e collabora con le riviste Il Mangiaparolee Mescalinaoccupandosi di musica, poesia e del rapporto tra poesia e scienze sociali. Dal 2018 è presidente dell’associazione letteraria Ammin Acarya di Como. Ha iniziato a comporre poesie dalla seconda metà degli anni novanta. Alcuni suoi testi sono presenti nelle antologie IPOET edita nel 2017 e Il Segreto delle Fragole edita nel 2018, entrambe a cura dell’editore Lietocolle, nonché in Mai la Parola rimane sola edita nel 2017 dalla associazione “Ammin  Acarya” di Como, nel blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite 2023 e  nel volume di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025.

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Adam Vaccaro SIGNOREMIE Piccola antologia portatile con Missiva ed Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Un nuovo linguaggio poetico sorge, può sorgere, soltanto allorché il vecchio linguaggio poetico del secondo Montale e del secondo Zanzotto è tramontato e i nuovi posticci linguaggi poetici vanno in vacanza. Dal “quotidianismo lombardo” alla poetica di “Clitennestra”, qui Vaccaro rompe con la tradizione lombarda e apre nuove vie

(Adam Vaccaro 2013 Firenze)

Piccola antologia di Adam Vaccaro

Oh quante volte fare per altre vie la stessa strada
cercando nel passato una strada
dal presente al futuro
Ti ricordi miasignora
che gare di baci carsi
scintille arse e perse nel vento
le cosce tenute come portafogli ricolmi
intenti a non lapidare quel capitale
di sogni e miracoloso nel ventre

Ti ricordi miasignora
il cammino fatto per cercare quel punto
fatto sempre di punti dell’intento
di ricominciare daccapo

e che fatica disperazione e premio
prima e dopo quel punto

Che signora era allora Milano
calda e coicapelli nel vento
una barca alla ricerca del largo
schiaffeggiata dall’acque e baciucchiata dal sole
dopo i massacri recenti della guerra più oscena
tra buchi nel ventre topi sommersi volti riemersi

Entrare in un bar – allora – era come
cucciarsi in un angolo curvo dell’arca
ruotando gli occhi e quel bicchiere
s’una voce giurando riflessa

Stavo con te scorrevamo nel sogno
i sogni belli del dormiveglia in
quell’alba rosata del dopoguerra
ch’aiutava certo a danzare sul mare
cupo di fame e di attese gonfiate
così poveri e ricchi così poveri e ricchi
come noi su questo letto

Sett. ’97 (Da La casa sospesa, Joker, Novi L. 2003 e da La piuma e l’artiglio, Editoria & Spettacolo, Roma 2006)

IM/POTENZE

c’è una tempesta che non cessa
e nei bar girano relitti
la faccia del male è
in un ragazzo di ventanni
che ha già visto tutto il vuoto
nel passato e nel futuro
sapessi che male dice
dammi mille lire
di cosa mi occupo di arte
della sopravvivenza

(Febbr. ‘98)

(In La casa sospesa, Joker Ed., Novi L., 2003; poi in La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006)

(Quintocortile

Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente

per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre

fumavano salsicce e bandiere rosse
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa

Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri

Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo

2004
(In Seeds, Chelsea Ed., New York 2014)

(Clitennestra

In cerca di semi piccoli e testardi
si muove intenta e cauta Clitennestra: io
che ho dato la vita e poi la morte
sono qui tra questi mucchi di rifiuti
travolta
dall’odio che ribolliva prima
di uccidere Agamennone e
quali semi di vita troverò qui
per altri solo un’isola di morte?
Qui
ai bordi della città che ancora dorme
oltre questa discarica di orme e silenzi
fino a quando scoppierà il frastuono
di centomila cavalli di lamiera.
Io
che per malfusso caso presi il nome
di un’assassina ho ucciso un’ora fa
chi ha fatto di me una regina
di questo viale quasi vallo o
fessura
che accostella inviti e luci di latte verso
il ventre-città. Io regina tradotta dalle
montagne aspre d’Albania e poi ridotta
a discarica di misere colline di piacere.
Lui
che altro Agamennone si disse ed erede
quando con un inchino apprese il mio
che sorridendo disse vedi che sono
sarò sempre il tuo re.
Lui
che scivolando con me da quelle
montagne di fame a questi sommersi
viali di pizze stracci fumi e giarrettiere
non poteva sapere l’odio feroce
l’odio
che divampava in me come le fiamme di quel
lanciafiamme visto al cinema mentre
lui con una mano nella cosa tra le cosce
mi sussurrava all’orecchio
sai
regginadicazzi che quel figlio di nessuno
te l’ho venduto…e uno sghignazzo senza
sorrisi e inchini gli squarciava il petto
che a me sbranava la gola che ora
in mezzo a questo pattume respira

(testo del 2001, adesso in La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006 e in Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014)

Poesia di pietra

Milano è poco più di niente, pensa
il distratto che corre con le cuffie
sulla sua capacità di sentire. Poi
senza più fiato si accascia
in questo slargo di sassi
con la montagna di guglie bianche
che lo guarda. E qualcosa si accende
s’illumina anche in lui l’immagine
di una poesia di pietra
lanciata a meraviglia del cielo
alla sua così oscena e plateale
indifferenza
Febbr. 2015

(in Tra Lampi e Corti, Saya Ed. Milano 1919)

adam vaccaro

Adam Vaccaro, poeta e critico nato a Bonefro in Molise nel 1940, vive a Milano. Ha pubblicato: La vita nonostante, Studio
d’Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa 1997; La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003; La piuma e
l’artiglio
, Editoria & Spettacolo, Roma 2006; Seeds, Chelsea Editions, New York 2014, trad. Sean Mark; Tra Lampi e Corti, Saya Ed, Milano 2019; Identità Bonefrana, Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2020; Google – il nome di Dio, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL), 2021; In respiratia zilei, Nel Respiro del giorno, trad. Alexandru Macadan, Editura Cosmopoli, Bacau, Romania, 2023; Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia, puntoacapo Ed,,20024. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare, con
acrilici di Romolo Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara 2002; Sontuosi accessi – superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra, Signum edizioni d’arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione, con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario Lunetta, Milanocosa, Milano 2005. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica e poesia. È stato tradotto in Spagnolo, in Inglese e in Rumeno.
È presente nell’Atlante della Poesia contemporanea curato dall’Università di Bologna, oltre che in molti blog e raccolte
antologiche. E collabora a riviste e giornali con testi poetici e critici. Sul versante critico, ha pubblicato: Ricerche e forme di
Adiacenza
, Asefi, Milano 2001, Premio Laboratorio Arti di Milano 2001. È tra i saggisti di: Sotto la superficie – quaderno sulla poesia contemporanea de “La Mosca di Milano”, Bocca, Milano 2004; La Poesia e la carne, La Vita Felice, Milano 2009. Tra gli altri riconoscimenti: Violetta di Soragna 2005, e Premio Astrolabio, Pisa 2007. L’ultima sua pubblicazione saggistica è Percorsi di Adiacenza, Saya Ed. 2025, con prefazione e cura di Donato di Stasi, e postfazione di Elio Franzini. Antologia di saggi della sua ricerca critica dei linguaggi della Poesia e dell’Arte.
Ha fondato e presiede Milanocosa (https://www.milanocosa.it), Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative e curato pubblicazioni. Tra queste: “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, Atti, Milanocosa 2003; “Bunker Poetico” in collaborazione con M. N. Rotelli alla 49 a Biennale d’Arte di Venezia, giugno 2001, con la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^ Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e coordinata con A. Santoro e M. Jatosti; evento col patrocinio del presidente della Repubblica e dell’UNESCO in corrispondenza della Giornata Mondiale della Poesia del 2003. Ha poi curato: 7 parole del mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura infine la Rivista online Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.
Adam Vaccaro – Via Lambro 1 – 20090 Trezzano S/N (MI) – T. 02 85686958 – 347 7104584 – Email: adam.vaccaro@tiscali.it

(Giorgio Linguaglossa in campagna, 2013)  Missiva di Giorgio Linguaglossa ad Adam Vaccaro

caro Adam Vaccaro,

la tua poesia spiega benissimo il tuo modo di interpretare e cercare di risolvere la questione stilistica di fondo degli ultimi cinquanta anni di poesia italiana: il blocco storico che ha determinato una «discesa culturale» (dizione di Alfonso Berardinelli) della poesia italiana del tardo novecento. Tralascio qui il che cos’è stata questa questione di fondo che, detta in poche parole, altro non è che: il quotidianismo lombardo che ha attraversato la poesia italiana del secondo Novecento e che è stato un prodotto sì autoctono ma che ha avuto alla lunga un esito negativo perché ha ritardato e ostacolato  la nascita del nuovo linguaggio poetico, ha impedito di volgere lo sguardo alle esperienze poetiche che si facevano oltralpe, ad esempio allo svedese Tomas Tranströmer, ai poeti del modernismo europeo (penso ai polacchi Rozewski, Hebert, Krinicki etc). e alla poesia del secondo surrealismo praghese, impoverendo, in ultima analisi, gli esiti della poesia italiana. Le obblivioni contano, e pesano.

Sì, è vero, tu con il concetto di «adiacenza» hai affrontato questa problematica, hai tentato di reindirizzare la poesia italiana entro il quadro europeo; tu sei tra gli antesignani tra color che hanno sostenuto questa necessità, questa problematica, la necessità storica di un allargamento del linguaggio del «quotidiano» ormai del tutto inadeguato a rappresentare la nuova realtà del capitalismo cognitivo e dei suoi epifenomeni; le tue poesie segnano la volontà di andare oltre il concetto lombardo del «quotidiano», che ha funzionato però come collo di bottiglia, e lo hai fatto investendoci enormi quantità di energie, ma resta il fatto che Milano è e resta la capitale economica dell’Italia, non è la capitale politica del nostro Paese, non ha le risorse intellettuali, il retroterra, l’humus politico né le capacità politiche (e forse neanche la volontà) di ampliare il linguaggio poetico italiano. Ma questo vale anche per la capitale politica del Paese, Roma, che ha obliterato la lezione del grande Gioacchino Belli, se facciamo eccezione di  Transumanar e organizzar (1971) di Pasolini.

Forse questo disegno lo hai perseguito senza crederci troppo, o forse perché ci hai creduto troppo, ovvero, che fosse possibile fare della poesia milanese un terreno fertile di incontro e di scambio di «adiacenze», di esperienze culturali. Ma questo probabilmente non era fattibile, possibile, ma per motivi storici, perché Milano ha una borghesia da sempre allineata sulla fatticità e sulla produttività economica. Tu hai tentato per molti anni di aprire il dialogo perché non volevi tagliare i ponti con i tuoi compagni di strada lombardi, ma, in definitiva, le cose sono rimaste tali e quali, il quotidianismo lombardo ha continuato a funzionare come un collo di bottiglia e a mietere allori nel mentre che impoveriva il  ventaglio lessicale e stilistico della poesia italiana (basta leggere la poesia dei milanesi di ieri e di oggi). Questo è stato ed è tuttora, a mio avviso, il punto dirimente.

Ma tu hai continuato, con tenacia, nella tua intuizione che fosse necessario ampliare i recinti linguistici del discorso poetico, ed è un merito che ti va ascritto: nelle cose che si fanno bisogna crederci e percorrere fino in fondo gli esiti ultimi di una ricerca intellettuale, costi quel che costi. La tua poesia è ben alloggiata, non si palesa come «ammobiliata» con mobili d’occasione presi a prestito, ne convengo, ma è scritta con un linguaggio che risente ancora di una certa aura post-lirica della tradizione del tardo novecento italiano. A tua giustificazione dirò che in questi ultimi cinquanta anni in Italia non c’è stato un linguaggio poetico di ricambio, non c’è stato un linguaggio poetico in grado di intercettare una tematica come quella della de-fondamentalizzazione dell’io e delle sue pertinenze (che tu chiami «adiacenze»), se facciamo eccezione di  quattro  cinque poeti significativi di questi ultimi trenta anni: Mario Lunetta (1943-2017), Maria Rosaria Madonna (1940-2002), Giorgia Stecher (1929-1996), Anna Ventura (1936-2019) e Steven Grieco-Rathgeb (1949) che pochissimi conoscono. E lo dico io a tua (e mia, nostra) giustificazione. Tu hai tentato, e si vede bene dalle tue poesie, di scrivere di uno stato d’animo dei tuoi personaggi lumbàrd con un linguaggio che ancora non era pronto, disponibile, quello che era in uso non era adeguato. Probabilmente  ti mancava, ma è mancato a tutti noi, il linguaggio, il «nuovo linguaggio poetico» ma non solo a te, mancava a tutta la nostra generazione ed è mancato alle generazioni che sono venute prima e dopo la nostra. Così che non ci è stato concesso il tempo e il modo di apprestare un nuovo linguaggio poetico.

La questione di un nuovo linguaggio poetico implica sempre quella di un pensiero che pensi l’impensato, che fratturi il pensato. Un nuovo linguaggio poetico sorge, può sorgere, soltanto allorché il vecchio linguaggio poetico del secondo Montale e del secondo Zanzotto è tramontato e i nuovi posticci linguaggi poetici vanno in vacanza. Io ho tentato di cavalcare le fratture linguistiche con la messa a terra della nuova ontologia estetica nel 2008, e oggi con la poetry kitchen e la poesia distopica con i risultati che si vedranno, se li si vogliono vedere;  tu hai tentato di ripristinare una poesia che dei principi etici di Antonio Porta ne fosse la erede, noi invece abbiamo gettato lo sguardo oltre le Alpi, a Tomas Tranströmer, ai poeti del secondo surrealismo praghese, all’Europa.
Sono, come vedi, due modi (mondi) diversi, il tuo e il mio, e lontanissimi di impostare il discorso poetico, che però non confliggono, non si escludono a vicenda. Non dico che il nostro sia migliore del tuo, dico solo che sono due modi distanti di scrivere nuova poesia. E qui ci cape la questione della ricerca di una «nuova ontologia estetica» (con le mie parole) e/o di una nuova «adiacenza» (per usare una tua parola-chiave).

(Giorgio Linguaglossa, 11 agosto 2025)

adam vaccaro

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Ermeneutica testuale

Dalle poesie di Adam Vaccaro emerge chiaramente una linea poetica che intreccia tre elementi principali: Milano come luogo e personaggio, non solo sfondo, ma entità viva e mutevole, che nel dopoguerra è una «signora calda» e solidale, che poi diventa città di «sogni disfatti» e di cortili urbani che celano brandelli di tempi passati. Milano è onnipresente e viene osservata dal basso: tra bar, metrò, cortili e scarti urbani, con uno sguardo insieme affettivo e critico.

Il registro è quello basso, pieno di concretezza quotidiana. Vaccaro muove dalla tradizione del quotidianismo lombardo, con un linguaggio spesso colloquiale, diretto, sensoriale e sensitivo: i corpi, gli odori, le strade, i bicchieri, i relitti umani sono resi senza filtri retorici. Questo radicamento nel reale urbano porta la poesia a un contatto immediato con la vita vissuta, ma la spinge anche verso un rischio di «collo di bottiglia» tematico e lessicale.

Racconto e storytelling

Le poesie non sono solo immagini statiche, ma racconti in miniatura, spesso in prima persona, che alternano memorie intime e quadri sociali. In “Clitennestra”, invece, il quotidiano si intreccia con il mito e con l’esperienza migratoria, allargando lo spettro tematico oltre i confini milanesi e lombardi. Qui la lingua conserva il linguaggio diretto ma si carica di violenza, di marginalità, di storie di potere e sopravvivenza.

In sintesi, il genere di poesia che rappresenta Vaccaro è una poesia urbana e narrativa, radicata nella tradizione lombarda postbellica ma con la tensione a superarla, usando il concetto di adiacenza, intesa come apertura ad altri mondi e linguaggi. È una poesia che alterna realismo crudo, memoria affettiva e sperimentazione mitico-sociale, mantenendo però un filo di riconoscibilità nel tono e nella musicalità spezzata come era in vigore nel tardo Novecento italiano.

Ecco una mappa transitiva dal “quotidianismo lombardo” alla poetica di “Clitennestra”, qui Vaccaro rompe con la tradizione lombarda e apre nuove vie.

Come detto, nella poesia di Vaccaro si ha la prevalenza di ambienti urbani lombardi: Milano come scena e fondale del teatro quotidiano.  La città di  Milano resta presente, ma intravista dai margini («ai bordi della città», «discarica»), luoghi di confine tra centro e periferia, Italia e Albania. Lo spazio è inquadrato come cronaca urbana, riconoscibile e priva di mitizzazione. In “Clitennestra” invece nasce uno spazio contaminato, ibrido: reale e mito si intrecciano, la discarica convive con il mito greco. I personaggi  sono quelli tipici della vita milanese: lavoratori, frequentatori di bar, figure di strada, osservati  come da maggiore distanza, con tono familiare e ironico. Clitennestra è figura mitica, ma incarnata in una migrante albanese; il racconto è in prima persona, con forte introspezione e tono drammatico. La narrazione è corale e osservativa, spesso filtrata dal poeta-testimone.  Il dettato poetico da storytelling si intreccia con il monologo interiore, voce intensa e ambivalente che oscilla tra la vittima e il carnefice.

 Linguaggio e registro linguistico nella poesia  “Clitennestra”    

Qui Vaccaro prende le distanze dal  quotidianismo lombardo per adottare un linguaggio basso, colloquiale, anche dialettale e vicino al parlato; mantiene sempre vigile l’attenzione al dettaglio concreto, al registro basso e crudo («regginadicazzi»), ma inserisce frammenti di lirismo e input di intensità semi tragica. Il lessico resta fedele  alla quotidianità urbana e popolare, diventa ibrido: termini concreti della marginalità («pizze, stracci, fumi») accanto a parole da tragedia antica («odio feroce», «regina»). La vita è quella di tutti i giorni: la memoria del dopoguerra, le relazioni umane elementari  e disautentiche o disilluse, con l’apporto di violenza, vendetta, potere, sessualità, migrazione, degrado urbano; la quotidianità viene così trasfigurata in conflitto tragico.

Le strutture strofiche sono brevi, le  immagini rapide, il ritmo è un ricalco della conversazione, e la narrazione è distesa con andamento da storytelling semi tragico, con sequenze che mescolano azione, memoria e riflessione. I finali sono spesso aperti e/o sospesi sono legati alla suggestione visiva, ma sempre ad alta tensione lirico-emotiva («in mezzo a questo pattume respira»), con chiusure fortemente simboliche. In “Clitennestra” si verificano una serie di  continuità con la tradizione lombarda: (presenza di Milano e dei suoi luoghi marginali, registro basso e concretezza sensoriale, radicamento nel reale urbano), e di rotture: (fusione di mito e quotidiano, dal bar milanese alla tragedia greca), con messa in evidenza della centralità di una voce femminile migrante e violenta e un ampliamento tematico a dimensioni transnazionali e archetipiche, narrazione potremmo dire più teatrale e drammatica rispetto alla semplice cronaca urbana.

Con “Clitennestra”, Adam Vaccaro resta pur sempre figlio adottivo del quotidianismo lombardo per il radicamento nella concretezza milanese e nel linguaggio basso, ma rompe con quella tradizione trasformandola in una poesia di confine, ibridando la forma-poesia dove il reale urbano si fonde con il mito e con la voce di figure marginali. L’autore milanese si colloca così con questa poesia in un territorio di confine e ibrido, tra narrativa urbana e commedia semi drammatica.

 (Giorgio Linguaglossa)

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“La poesia di Eugenio Montale è stata, per me, il salto dentro la polpa delle parole. È il primo poeta: colui il quale mi ha fatto vedere e sentire che poteva darsi un uso del linguaggio che metteva in tale subbuglio le sinapsi da creare uno stato di sbalordimento del percepibile”

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https://lucysullacultura.com/centanni-di-ossi-di-seppia-ma-montale-ci-parla-ancora/
Cent’anni di "Ossi di seppia". Ma Montale ci parla ancora? - Lucy sulla cultura

Un secolo dopo l’esordio che cambiò la poesia italiana, alcuni autori contemporanei raccontano cosa resta – e cosa no – di quei versi. Tra nostalgia, eredità e nuove fratture.

Lucy sulla cultura
Oggi sono esattamente 100 anni da Ossi di seppia.

Stamattina, a Rovereto, e presto in vari luoghi del Trentino.

Irrinunciabile, grazie a Giuseppe Calliari e a tutti quelli che hanno contribuito, @diaolin in testa.

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La stazione di ricarica Atlante presso l'Ecovillaggio Montale di Castelnuovo Rangone MO: tutto ok fino a 56,9 kW ma i servizi di bar e ristorazione situati li accanto non sono ancora operativi https://www.forumelettrico.it/forum/colonnina-atlante-fast-ecovillaggio-montale-castelnuovo-rangone-mo-via-beniamino-gigli-t36139.html #CastelnuovoRangone #Montale #Modena #atlante

Massimo Ridolfi (Teramo, 1973), che si occupa di letteratura come studioso indipendente dal 1995, con la sua opera ha visitato tutti i generi e le forme della letteratura. Nei suoi lavori si ritrovano, infatti, poesia, romanzo, racconto, drammaturgia, saggistica, traduzione e anche sceneggiatura per il cinema. Per la poesia ha pubblicato Abiura di una nazione (2019), Mediterraneo (2019), Padre Nostro (2020), Un incontro impossibile (2021), Le Lamentazioni di Kiev (2022) e Palestina (2024); per la narrativa i romanzi L’Uomo Invisibile (2019), Onde di Colore (2020) e Lungo il Miglio (2021); per la forma racconto ha pubblicato 49 racconti della solitudine (2020), Pinocchio e l’uovo di Pasqua (2022) e I DUE RACCONTI (2022); mentre per il teatro le opere Mulieri Michele di Innocenzo (2019), Il Pensiero delle Nuvole (2019), EVANGELIUM (2020), il CAPITALE (2021) e CHET SPEAKS (2022); come americanista, curatore e traduttore ha pubblicato Il Profeta di Venice, Into a Life: Stuart Z. Perkoff, Poesie 1956 – 1973 (2020), Il Contadino della Nuova Inghilterra, Into a Life: Robert Frost,The Five Books & Twilight, volume primo (2022), Il Medico di Ninive, Into a Life: Ahmed Mohamed Ramadan, Feno Meno Logia, Poesie 2018-2021 (2023) e North of Boston, Il Contadino della Nuova Inghilterra, Into a Life: Robert Frost,The Five Books & Twilight, volume secondo (2024); e poi per la saggistica ha pubblicato la collezione critica Personal Essays (2020) e GLIIGNAVI (2022). Per il cinema ha pubblicato una sceneggiatura e un soggetto nel volume Cinematek (2020). Entro il 2024 vedrà la luce la collana Corale di voci altre, a cura di Massimo Ridolfi, dedicata alla poesia italiana contemporanea. Ha collaborato e collabora con diverse riviste di settore, on-line e cartacee: di particolare rilievo sono le rubriche concepite e dirette per il quotidiano on-line Certa Stampa, CORALE: SETTIMANALE DI RICERCA SULLA POESIA ITALIANA CONTEPORANEA e SEGUIRE LE IMMAGINI: SETTIMANALE DI RICERCA SULLA TRADUZIONE DI POESIA, e per il mensile cartaceo Navuss, Il Foglio Bianco: rubrica mensile dedicata al racconto breve. Nel giugno del 2019 ha ideato il progetto editoriale Letterature Indipendenti, unicum nell’editoria internazionale, con il quale cura l’edizione di tutta la sua opera letteraria, riservandosi in questo modo la piena autonomia di forme e contenuti delle proprie pubblicazioni: tutta la sua opera, per l’alto valore letterario e scientifico, è acquisita e conservata presso la Library of Congress, Washington D.C.

Glossa di Giorgio Linguaglossa

«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».1]

Ho citato Gianni Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Parlare di «nuova ontologia estetica», forse è già una contraddizione in sé, implica pur sempre una accentuazione del sostantivo; si sostantivizza il sostantivo, quando invece è la modalità che è centrale, il modo con il quale le parole si consegnano a noi che è significativo. Abbiamo parlato in questi ultimi anni di una «nuova ontologia estetica», ma avremmo dovuto declinare la frase al plurale, il fatto è che ci sono tante ontologie estetiche quanti sono gli abitanti del pianeta terra, con il che si mettono in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «dis-propriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare, non si risolve il problema rimettendo in discussione le categorie su cui si reggeva l’ontologia novecentesca, ma occorre far luce sulle nuove categorie sulle quali si regge la poiesis di oggi.

In un mondo in cui il progresso diventa un fatto tecnico e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto della dis-propriazione di quel mondo, con la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità» e del «pathos dell’originario» da cui provengono l’elegia e la «sartoria teatrale» di montaliana memoria. La poesia più matura di oggi si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, nonché dell’allegria dell’inautenticità. Quello che resta è l’allergia per i linguaggi consunti. Non v’è di che discettare sulla autenticità o non autenticità poiché non v’è più da tempo un «originario» a cui attenersi come ad un corrimano nel bus che corre verso il futuro come quelli che transitano per le strade sgangherate di Roma.

Nella poesia di Massimo Ridolfi ci avvediamo subito che non c’è alcun «pathos dell’autenticità», presente invece in larga misura nella poesia del novecento e di questi ultimi due lustri epigonici. I suoi testi sono «ibridi» (tra il racconto breve e la post-poesia) di una autenticità che si è dissolta; «la poesia non è mica del morbillo una forma particolare», ci dice Ridolfi, e nemmeno la si può alimentare per via «parenterale», «tanto meno si può farne una questione solamente amicale»; le istituzioni stilistiche ontologiche del novecento sono rovinate nella polvere, oggi il poeta è costretto a sottrarre le parole dal futuro piuttosto che dal passato, è diventato un ladro di parole che nasconde la refurtiva nella bisaccia piena di buche a perdere. Le parole sono diventate parole a perdere.

Con le parole di Marcuse: «È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

Allora, non resta che infrangere retrospettivamente ciò che resta della «tradizione», della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, penso. Un esempio: come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e (che in Italia apparirà soltanto nel 2001), Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo orfico-sperimentale per approdare ad una sorta di poesia pre-sperimentale e post-sperimentale, una sorta di terra di nessuno?; ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come un fantasma che passeggia con il bordone nella nuova società dei frigoriferi e dei televisori a buon mercato.

Se consideriamo le opere di un poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta – da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi, Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976) – dovremmo ammettere che nella linea centrale del secondo Novecento ci sono anche i poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Ad esempio, il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà in direzione di una poesia che si situa al di qua del post-simbolismo, la sua resta una poesia di stampo modernista con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna (1940-2022); in questi ultimi decenni emergono profili importanti: Anna Ventura, Anonimo romano (1944-2005), Giorgia Stecher (1936-1996), Mario Lunetta (1936-2017), tutti questi poeti adottano una post-poesia che si nutre di post-verità, che si lascia il modernismo alle spalle, con testi che sfrigolano e stridono per l’impossibilità di fare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». Avviene che negli anni ottanta la grande distribuzione e gli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale opteranno per i poeti che si ritirano nel piano cronachistico e personologico. Il questo quadro culturale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «politici». Il fatto è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come narrazione del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Il post-sperimentalismo e il post-orfismo hanno sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico. Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudo concetto di una numinosità  magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. Ma anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia: che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» presuppone invece una «latenza».

Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962:

«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi. La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».

Le parole di Fortini colgono il nocciolo della questione. Ed ecco qui Massimo Ridolfi che sposta il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi a quelli operativi, che va per via di rastremazione progressiva del discorso poetico, lo prosciuga, lo asciuga e giunge ad un dettato essenziale, prosastico che coniuga versi brevissimi con altri lunghi e lunghissimi, lui che nutre una completa sfiducia nei tropi retorici del novecento adesso avverte con chiarezza che tutta una intera tradizione è affondata come una navicella «versicolori»; ciò è avvenuto senza alcun trauma, ma con un fruscio. Ridolfi sa bene la massima di Pound: «nessuna buona poesia può essere scritta con uno stile di venti anni prima», e ne trae le conseguenze. Ma è che in quei venti anni nella poesia italiana ci sono state battaglie che non è possibile ignorare. La «nuova poesia» non può che passare attraverso la nuova ontologia estetica di autori come Anna Ventura, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta e Anonimo romano per avere una idea della posta in gioco. A mio avviso, non vi può essere una resa dei conti stilistica senza mettere in conto quei fattori stilistici e linguistici.

 1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11.

(opera digitale di Lucio Mayoor Tosi, 2024)

Alla maniera di Franz Anton Mesmer

I

Tommaso, metti la tua mano
nel mio costato.
Rinuncia ai tuoi occhi.
Fidati della tua mano.

II

Tommaso, metti la tua mano
ti ho detto nel mio costato.
Rinuncia ai tuoi occhi
sciocchi.
Fidati della tua mano
che mai di tanto
io mi allontano.

.

del Morbillo

a Franco Buffoni

la poesia non è mica del morbillo una forma particolare
vale a dire che non è mai lo sfogo di una condizione patologica
e nemmeno la si può alimentare forzatamente per via parenterale
e tanto meno si può farne una questione solamente amicale
altrimenti poi segue lo scoppio delle risa alla assai più sorvegliabile noia
che non è mai nostro malgrado una espressione per l’appunto di gioia.

Cecità:

a Bruno Di Pietro; per Lucio Piccolo

dire poesie può solo arricchire.
dire l’eredità del poeta, ascolta, può solo arricchire.
dire povero poeta steso nelle mute carte: degli eredi soffre le inutili ire
a impoverire.
dire salva la carta e il poeta, che non cadrà a impoverire.

Così dentro la tua stessa morte1

«Schopenhauer says “defunctus” is
a beautiful word – as long as one does not suicide»2

SAMUEL BECKETT (1906 – 1989)

in memoria di Vitaliano Trevisan (1960 – 2022)

fuori dalla stucchevole retorica che precede il tuo funerale
e non quello loro
dopo aver buttato, tu, parole
a casaccio su Hemingway e Malaparte

dentro questa morte
scontata e senza sconti
ci sei solo tu

come ci sei solo tu
dentro la tua scrittura
solipsistica ossessiva compulsiva

tutto chiuso dentro questo compiaciuto
tutto tuo sbrodolarti pisciarti cacarti addosso vita
alieno

*

(tutto chiuso dentro quel tuo presuntuoso
saputo avvitato arrotato rileggerti sorreggerti
intarsiato dal tutto tuo stupido inglese

le tue infantili corse in motocicletta:
scrivi come un adolescente che si vuole
fare il figo

hai lavorato, bravo!
è quello che tutti fanno, banalmente
per vivere, certo, ma che bella scoperta)

*

come non c’è letteratura
nei tuoi libri
che non sanno nulla dell’esorcismo

del dolore di cui è capace
un vero artista se ci si scansa
se ci si dedica solo a questa

non credere a chi piange
i tuoi romanzi le tue drammaturgie
i tuoi racconti in qualche modo

*

solipsistico ossessivo compulsivo
perché di questi non ne hai
scritti e non ne scriverai ora

non eri un grande scrittore
ma solo uno che scriveva
a se stesso delle lunghe

lettere di malattia
e quel nostro litigio ora
ti sembrerà così stupido

*

che è quello
che cercavo di dirti
inascoltato:

«6 impotente anche tu? e
Malaparte sarebbe un “scrittorino della
domenica “? stai zitto stupido»1

così ossessionato dai soldi
come solo chi crede
di non averne avuti mai abbastanza

*

bisogna saper stare al proprio posto
bisogna imparare a stare al proprio posto vita
alieno senza recitare

respirare ogni respiro
oppure recitando
pregando ogni respiro

così fermo
freddo
dentro il tuo gesto.

1. vedi «De “La vita è un fatto” o “I materiali di una poesia”».
2. medesima epigrafe che riporta Vitaliano Trevisan nel libro Tristissimi giardini al capitolo “L’autore a chi legge”, Editore Laterza, Roma-Bari, 2010 (eBook 2013): «Schopenhuaer dice che “defunctus” è una parola meravigliosa – fino a quando uno non si suicida.», versione in lingua italiana dello stesso Massimo Ridolfi, ndr.

.
La vita è un corpo

“io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia”

Pierluigi Cappello (1967-2017)

I

La vita è un corpo e ognuno di noi ha
diritto di decidere cosa farne di
questo corpo, se ritenesse non
essere più aderente alla vita.

La vita è un corpo e ognuno di noi ha
diritto di decidere cosa farne di
questo corpo, se ritenesse
essere altra forma la vita.

II

Danil ha buttato via tutto dov’è tutto
irrimediabilmente sbagliato.

Non butto via quasi niente per
vedere dov’è che ho sbagliato.

È nato

per Elso

è nato, profugo, in fuga
uomo eppure straordinario;
partorito di donna

attraversa, escluso
le nostre strade
ogni giorno

e in acqua riappare
e scompare, che non
la sa camminare, né nuotare

povero donato ai poveri, specchio
Luce improvvisa, nel buio
cuore cavo dell’uomo
l’Uomo più innamorato
lasciato a questo approdo, fiato
soffio su questa isola dell’universo, l’amato

da lontano
il suo avvento
è stato annunciato

dentro antichi testi
da uomo a uomo
l’hanno raccontato

anticipata, stretta, scesa
giuntura a quel Cielo
mai prima tanto sperato, vero

è nato, e con le mani
si aggrappa all’acqua
cerca in superficie il fiato

tenta con lo sguardo
la compattezza della terra
ferma; sogna la regolarità

del respiro, e il fluire libero dell’aria.

Marie Laure Colasson, présence, acrilico, 70×70, 2024

https://lombradelleparole.wordpress.com/2024/08/25/poesie-di-massimo-ridolfi-il-poeta-di-teramo-sposta-il-centro-di-gravita-del-moto-dialettico-dai-rapporti-predicativi-a-quelli-operativi-che-va-per-via-di-rastremazione-progressiva-del-discorso-poet/

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Poesie di Massimo Ridolfi, Il poeta di Teramo sposta il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi a quelli operativi, va per via di rastremazione progressiva del discorso poetico, lo prosciuga, lo asciuga e giunge ad un dettato essenziale, prosastico che coniuga versi brevissimi con altri lunghi e lunghissimi,

Massimo Ridolfi (Teramo, 1973), che si occupa di letteratura come studioso indipendente dal 1995, con la sua opera ha visitato tutti i generi e le forme della letteratura. Nei suoi lavori si ritrov…

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l’arco del cielo appare
finito.
 
Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo; – in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l’usata strada.
Nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.       

*E. #Montale   

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