In Italia, fino all’ultimo, il numero delle diserzioni di soldati tedeschi rimase contenuto

I documenti ancora disponibili negli archivi hanno permesso un’analisi sistematica [n.d.r.: relativa ai disertori dell’esercito tedesco in Italia] solamente per la 10ª armata tedesca. Anche in questo caso però le informazioni non coprono tutto l’arco di tempo in cui l’armata fu presente in Italia, ed è presumibile che i dati riportati rappresentino per difetto, più che per eccesso la reale consistenza numerica (a causa ad esempio di fattori come la mancanza, il ritardo o ancora la perdita delle segnalazioni).
Si può comunque ritenere che il fenomeno abbia avuto una dimensione limitata, se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia <619. Qui i soldati della Wehrmacht si trovavano in un paese straniero, circostanza questa che di per sé poteva rappresentare un deterrente per i disertori, per un’insieme di motivi che andavano dalle difficoltà linguistiche alle conoscenze geografiche insufficienti, alla presenza di formazioni partigiane e alleate.
Appare cosi corretto affermare che gli episodi di diserzione dei soldati non furono in grado di costituire un rilevante pericolo per la tenuta delle forze militari della Germania in Italia; ciò sembra confermare il giudizio espresso da Carlo Gentile, secondo il quale: “Fino al crollo del Terzo Reich le truppe tedesche presenti in Italia non andarono soggette a tendenze disgregative degne di nota, per cui nel marzo del 1945 le autorità della Wehrmacht poterono rinunciare per buone ragioni a instaurare un sistema di repressione interna simile a quello messo in atto nel territorio del Reich per punire i disertori e i disfattisti […] In Italia, fino all’ultimo, il numero delle diserzioni rimase contenuto” <620.
Diversi furono comunque i provvedimenti assunti per contrastare gli episodi di diserzione; esemplificative sono in tal senso le azioni dei reparti di polizia militare e degli altri reparti di disciplina dell’esercito tedesco.
Già nell’autunno del 1943 in un interrogatorio alleato si fece menzione della presenza nella zona di Napoli di un Jägerbattaillon il cui compito principale era il mantenimento dell’ordine tra i soldati tedeschi. Alcuni militari trovati in abiti civili, erano stati uccisi dal battaglione, mentre si riferiva che altri soldati scaricavano nell’aria le loro munizioni, così da poter finger di aver esaurito i proiettili e di aver combattuto fino all’ultimo nel caso di un loro arresto <621.
Come ricorda lo stesso Gentile inoltre nei primi mesi estivi del 1944 venne inviato in Italia un reggimento di Feldjäger, adibito alla repressione della diserzione <622.
Nella primavera del 1945 si procedette a organizzare delle linee di controllo, che dovevano servire per evitare che i soldati si intrattenessero nelle retrovie o commettessero atti di indisciplina <623. Ancora ad inizio aprile il comandante supremo del gruppo d’armate C (Oberbefehlshaber Südwest), in una sua comunicazione dai toni chiaramente propagandistici e destinata a essere diffusa tra i soldati, affermava come coloro i quali erano passati nelle fila dell’esercito angloamericano venivano considerati come “ehrlose Verräter”, traditori senza onore. La circolare riportava infatti quanto avevano riferito alcuni soldati al loro ritorno in Germania, ovvero che non appena avevano terminato di fornire informazioni di carattere militare erano stati trattati non più come normali prigionieri di guerra, ma senza alcun rispetto ed onore, con livelli minimi di assistenza e non adeguati alle norme internazionali sul trattamento dei prigionieri di guerra, proprio perché disertori <624.
Osservando le cifre di quanti tra i fuggitivi vennero ricatturati appare però come tali tentativi furono piuttosto limitati nella loro efficacia. In tal senso va fatta una considerazione anche sull’operato dei tribunali militari tedeschi e sull’efficacia del loro modus operandi. I procedimenti penali che vennero condotti nei confronti dei disertori intendevano non solo punire i colpevoli, ma tramite l’esemplarità rappresentata dalle condanne a morte anche dissuadere il resto dei soldati da questo tipo di comportamenti.
Erano però molti anche coloro i quali, colpevoli di reati minori, proprio per evitare le conseguenze di un eventuale condanna sceglievano di fuggire e abbandonare le formazioni, rendendosi però così a loro volta colpevoli di diserzione, così come emerge anche da alcuni casi presentati nel IV capitolo <625. Dai procedimenti penali dei tribunali emergono gli sforzi che questi attuarono per individuare e giudicare i comportamenti ritenuti contrari alla disciplina militare da parte dei soldati. Nei casi di diserzione alcuni elementi (la falsificazione dei documenti, l’abbandono della divisa e l’utilizzo di abiti civili, il contatto con le formazioni partigiane, l’aiuto ottenuto da persone esterne) venivano valutati dai giudici come dettagli che testimoniavano la volontà degli accusati di allontanarsi in maniera definitiva dalla propria unità. L’assenza, in alcuni casi, di queste aggravanti era invece sottolineata nelle arringhe dei difensori per mettere in risalto al contrario le buone intenzione degli imputati.
Ancora sulla base dei dati presentati nel III capitolo emerge come la maggior parte di coloro i quali si resero colpevoli di diserzione o di essersi allontanati dalle proprie formazioni non fossero nati in Germania ma provenissero invece da “paesi dell’Est”, reclutati spesso forzatamente, da persone appartenenti alla “Deutsche Volksliste III” o ancora da austriaci, jugoslavi, francesi. Ne è una conferma anche il fatto che, nei dati presentati nelle tabelle del terzo capitolo, il maggior numero di diserzioni è attribuibile alla 5ª Gebirgs-Division e alla 44ª Infanterie-Division, composte proprio da soldati di origine austriaca e slovacca, nei confronti dei quali particolarmente attiva era la propaganda partigiana.
Un’ulteriore conferma arriva anche dalla preponderante presenza di questi soldati all’interno delle bande partigiane italiane, rispetto ai loro camerati germanici; si deve però ricordare come questi gruppi etnici rappresentassero una minoranza nel numero complessivo dei soldati della Wehrmacht, che si dimostrarono invece pronti a combattere fino agli ultimi giorni di guerra. A simili risultati, per quanto riguarda i disertori dell’esercito tedesco passati a combattere con le formazioni partigiane nella provincia di Parma è giunto anche Marco Minardi, come abbiamo visto nel paragrafo conclusivo del III capitolo.
Come emerge dagli interrogatori condotti dagli alleati, i timori che i soldati tedeschi nutrivano per la propria sorte e per quella della Germania, che in caso di sconfitta si riteneva potesse andare incontro a distruzione materiale e culturale, rappresentarono un fattore di forza (insieme all’indottrinamento ideologico, alla propaganda e alla repressione interna) <626 dell’esercito nazista, anche quando la disfatta appariva ormai inevitabile.
Le fonti alleate riportavano anche come le classi di soldati più giovani e quelle più anziane apparivano quelle dal morale più basso durante la guerra <627. Sarebbero però necessarie ulteriori ricerche per ricostruire con più precisione i profili biografici di un più ampio numero di disertori, per valutare l’esistenza o meno di una relazione tra la frequenza degli episodi di diserzione e l’impiego che venne fatto in guerra delle divisioni dalle quali essi provenivano. Ciò ci permetterebbe di mettere in relazione le scelte di quanti disertarono con, ad esempio, alcuni dei risultati raggiunti da Carlo Gentile, il quale individuava in alcuni fattori, come la giovane età dei soldati, un elemento chiave negli episodi di violenza di cui si resero responsabili alcune formazioni, rivalutando al contrario l’incidenza dell’“Osterfahrung”. È possibile rintracciare un’incidenza di questi due aspetti anche per quanto riguarda i casi di diserzione? Appaiono comunque corrette le considerazioni espresse da Ziemann, già richiamate nell’introduzione e che emergono dall’analisi di diversi studi, secondo le quali le motivazioni politiche in senso stretto rappresentavano solo in un ridotto numero di casi l’elemento decisivo che spingeva alla diserzione i soldati <628. Ciò appare naturale per quanto emerge dai documenti dei tribunali militari, nei quali gli imputati intendevano dissimulare le loro reali intenzioni, adducendo scuse e presentando delle giustificazioni ai loro comportamenti, per poter in qualche modo rendere meno pesante la loro condanna. Altri elementi apparivano così più decisivi nella scelta della diserzione, come le
preoccupazioni per la propria famiglia, la volontà di avere del tempo libero, le relazioni sentimentali. In alcuni casi emerge anche dai casi presentati in questa tesi come diffusi fossero i casi di quanti intendevano sottrarsi alla giustizia militare, prendendo la decisione di fuggire. I dati riportati nelle tabelle a conclusione del III capitolo non permettono di distinguere tra quanti, dopo aver disertato, si consegnarono agli alleati e quanti invece ai partigiani. È però necessario ricordare come entrare in contatto con gli alleati rappresentasse senza dubbio una circostanza più favorevole rispetto al consegnarsi alle formazioni partigiane e che offriva maggiori garanzie, quali la possibilità di essere trattati come prigionieri, di non dover continuare a combattere e di tornare alle proprie famiglie.
Allo stesso modo Ziemann affermava che non erano conosciute le cifre e i motivi di quanti decisero di consegnarsi agli alleati in Italia <629. Circa le loro scelte emerge però dagli interrogatori alleati e da quelli fatti dai partigiani come, tra le motivazioni che venivano espresse, più frequenti fossero quelle di natura politica, legate all’opposizione al regime nazista. Anche in questo caso è però necessario interrogarsi sulla genuinità di tali confessioni, che non poterono non essere condizionate dalla situazione in cui vennero rilasciate.
Ad influenzare il fenomeno della diserzione furono anche alcune valutazioni di carattere “militare” come il fattore della ritirata continua, spesso in condizione di caos, che favorì così la fuga dei soldati, la perdita di fiducia nella vittoria, la supremazia aerea degli alleati. A rendere possibile, o perlomeno più semplice da realizzare e con maggiori possibilità di successo, l’abbandono della propria formazione, potevano però anche essere le favorevoli condizioni meteorologiche o il trovarsi in un ambiente adatto a nascondersi o a ricevere aiuto da attori esterni (popolazione, formazioni alleate, strutture religiose); al contrario, questi elementi potevano anche trasformarsi in fattori di dissuasione. Ciò trova conferma anche nei dati che vedono per l’Italia nell’estate-autunno del 1944 e negli ultimi mesi di guerra nella primavera del 1945 i periodi in cui si verificarono la maggiore parte dei casi di diserzione. Per l’estate del ’44 questi dati si possono spiegare sia in riferimento alla ritirata disordinata delle armate tedesche che ebbe luogo tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, conseguente allo sfondamento della linea Gustav e alla presa di Roma da parte degli alleati, sia con la crescita di attività delle formazioni partigiane, che causò il dilagare tra i soldati tedeschi di una sorta di “psicosi delle bande” <630.
Per quanto riguarda la primavera del 1945 un fattore decisivo fu invece rappresentato dalla consapevolezza sempre crescente che la guerra stava per terminare. Di conseguenza la presenza di disertori fu più alta nelle formazioni partigiane che operavano nelle regioni dove il fronte di guerra si fermò più a lungo e dove la presenza di militari della Wehrmacht fu maggiore (Emilia Romagna, Toscana, ma anche Piemonte e Veneto).
Un’analisi del fenomeno della diserzione nei vari fronti sui quali l’esercito tedesco fu impegnato deve necessariamente tenere conto di questi diversi fattori (temporali, ambientali, politici). Nei primi anni di guerra i successi tedeschi, la fiducia nella vittoria, ma anche la minaccia rappresentata dal movimento partigiano rappresentarono un motivo di coesione per le forze armate tedesche, sul fronte orientale così come in Africa. Soprattutto a partire dalla metà del 1944 però, con il crollo del gruppo d’armate Mitte, l’avanzata sovietica verso la Germania e lo sbarco alleato in Francia, divenne chiaro che la guerra sarebbe terminata con una sconfitta, che l’esercito alleato e quello sovietico erano militarmente superiori e che la fuga rappresentava una buona possibilità, per i soldati, di poter sfuggire ai combattimenti e tornare a casa, nonostante questo significasse sfidare la giustizia militare o un periodo di prigionia <631.
[NOTE]
619 Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia, in Gianluca Fulvetti, Paolo Pezzino (a cura di), Zone di guerra, cit., p. 131.
620 Carlo Gentile, I crimini di guerra, cit., pp. 391-392.
621 Headquarters Fifth Army, Psychological Warfare Branch I.N.C., Subject: Weekly Reports on P/W’s, 14/10/1943, US NARA, Record Group 407, Entry 427, Box 2216.
622 Carlo Gentile, I crimini di guerra, cit., p. 138.
623 BA-MA, RH 19-X/47. Si veda anche Andreas Kunz, Wehrmacht und Niederlage, p. 285.
624 Der Oberbefehlshaber Südwest (Oberkommando Heeresgruppe C), Betr: Behandlung deutscher Überläufer in anglo-amerikanischer Kriegsgefangenschaft, 03/04/1945, BA-MA, RH 19X/47.
625 Rimane comunque ancora da valutare, come anche Ziemann osservava, quale fosse l’effettiva capacità deterrente, all’interno delle truppe, rappresentata dalle condanne a morte e da altri tipi di punizioni, Benjamin Ziemann, Fluchten aus dem Konsens zum Durchalten, cit., pp. 599-600.
626 Thomas Kühne, Gruppenkohäsion und Kameradschaftsmythos, cit.
627 Headquarters Fifth Army, Psychological Warfare Branch, Subject: Morale interrogations of German prisoners. Weekly report, 23/10/1943, US NARA, Record Group 407, Entry 427, Box 2216.
628 In tal senso anche Andreas Kunz, Wehrmacht und Niederlage, cit., p. 268.
629 Benjamin Ziemann, Fluchten aus dem Konsens zum Durchalten, cit., p. 597.
630 Carlo Gentile, I crimini di guerra, cit., pp. 136-146.
631 Cfr. Manfred Messerschmidt, Die Wehrmachtjustiz, cit., p. 161 e ssg. Qui è offerta anche un’analisi comparativa del numero dei reati documentati per quanto riguarda l’esercito tedesco, quello giapponese, americano, inglese, francese e sovietico. Per la partecipazione di soldati tedeschi ai movimenti di resistenza europei anche Gerhard Paul, Die verschwanden einfach nachts, cit.
Francesco Corniani, “Sarete accolti con il massimo rispetto”: disertori dell’esercito tedesco in Italia (1943-1945), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2016-2017

#1943 #1944 #1945 #44ªInfanterieDivision #5ªGebirgsDivision #alleati #austriaci #disertori #fascisti #Feldjäger #FrancescoCorniani #francesi #interrogatori #Italia #jugoslavi #partigiani #repressione #Resistenza #tedeschi #tribunali #Wehrmacht

https://www.dw.com/de/polen-die-zur-zeit-der-nazi-besetzung-wehrmachts-soldaten-wurden-verraeter-oder-opfer-hitlers/a-73792302 #Polen in der #Wehrmacht: Verräter oder Opfer #NS-Deutschlands?
Bis zu 450.000 Polen haben im Zweiten Weltkrieg in der deutschen Wehrmacht gedient. Lange galten sie als Landesverräter - doch die historische Wahrheit ist komplizierter. Das zeigt eine #Ausstellung in #Danzig.
Polen in der Wehrmacht: Verräter oder Opfer NS-Deutschlands?

Bis zu 450.000 Polen haben im Zweiten Weltkrieg in der deutschen Wehrmacht gedient. Lange galten sie als Landesverräter - doch die historische Wahrheit ist komplizierter. Das zeigt eine Ausstellung in Danzig.

Deutsche Welle

Antimilitarist:innen blockieren Deutz AG in Köln Kalk

Heute Vormittag haben wir uns als Antimilitarist:innen selbstbestimmt die Straße genommen und das #Logistikzentrum der #Deutz AG in #Köln Kalk blockiert. Es wurden beide Eingänge verschlossen, Transparente mit Parolen gegen #Krieg aufgehängt und antimilitaristische Parolen an die Fassade und das Pförtnerhäusschen gesprüht. Im Anschluss zog die Blockade als #Spontandemonstration durch den Kölner Stadtteil Kalk, um mit dem öffentlichen Diskurs, welcher von der Herrschenden #Kriegspropaganda geprägt ist zu durchbrechen und mit der Perspektive eines Kampfes für eine Welt ohne Krieg und #Ausbeutung zu ersetzen.

Bereits im 1. Weltkrieg produzierte Deutz #Artilleriezugmaschinen für die #Großmachtsbestrebungen des deutschen Kapitals. Auch im 2. Weltkrieg war Deutz, damals noch unter dem Namen #Klöckner- #Humboldt-Deutz mit #Motorenproduktion für #Rüstungsgüter der #Wehrmacht in den# Weltkrieg involviert. Zur Produktion zählten Motoren, LKWs, Kettenfahrzeuge und Ersatzteile, sowie die Reparatur von Panzern. Im Jahr 1942 wurde Deutz von der „deutschen Arbeiterfront“ sogar zum #Kriegsmusterbetrieb erklärt. Die Produktion für den 2. Weltkrieg wurde zu 40 % von jüdischen Zwangsarbeiter:innen geleistet.

Nach dem 2. Weltkrieg hat der Konzern seine Produktion dann auf zivile Güter, vor allem Motoren für Traktoren und Fahrzeuge für Forst- und Landwirtschaft umgestellt. Auch wenn nach dem 2. Weltkrieg die Produktion auf zivile Güter umgestellt wurde, sehen wir, daß sich das Unternehmen, nicht darum schert, auch Motoren für #Militärfahrzeuge und #Panzer herzustellen, welche für die Kriege des deutschen #Imperialismus nötig sind. Darin zeigt sich, dass es einzig und allein um #Profite geht.

Deutz produziert und liefert seit 2022 Motoren für Militärfahrzeuge, sowie Hilfsmotoren für #Kampfpanzer. CEO Sebastian #Schulte sprach in mehreren Interviews davon, dass der Konzern das #Defence-Geschäft systematisch ausbaut. Motoren der Deutz AG werden in Militärfahrzeugen verbaut, die unter anderem im #Ukraine​krieg zum Einsatz kommen. Des weiteren ist der Konzern auch in die Nachrüstung von älteren Militärfahrzeugen und Panzern involviert.

Deutz zählt damit zu einem der Konzerne, die die ausgerufene #Zeitenwende genutzt haben, um in das #Rüstungsgeschäft einzusteigen. Die #Konversion von ziviler Produktion in die Produktion von #Rüstungsgütern zeigt die umfassende Einbindung unterschiedlicher Kapitalfraktionen in die Vorbereitung eines kommenden Krieges.

Obwohl #Polizei und #Justiz in Köln versucht haben das #Rheinmetall entwaffnen #Protestcamp zu verbieten und das #Polizeiaufgebot rund um das Camp enorm war, ist es uns gelungen von der Polizei weitestgehend unentdeckt und ungehindert in Aktion zu treten. Wir haben unseren Aktionsort selbstbestimmt gewählt, die #Logistik der Deutz AG aktiv blockiert und somit unseren Teil dazu beigetragen die #Kriegsvorbereitung aktiv zu behindern.

Wir haben mit unser Aktion deutlich und klar gemacht: Krieg beginnt hier. Deshalb müssen wir hier in #Deutschland die Kriegsproduzent:innen- und profiteure angreifen. Wir haben aufgezeigt, dass es Verantwortliche für die #Rüstungsproduktion und den Export dieser Güter gibt. Diese Verantwortlichen sind nicht irgendwo, sie haben ihre Firmensitze und Produktionsstätten in unserer Nachbarschaft und sie sind angreifbar!

Krieg dem Krieg!

Quelle:  @rheinmetallentwaffnen / „Rheinmetall Entwaffnen“ Pressemitteilung via trueten.de

#CapitalismIsADeathCult #Antimilitarismus

Kann die Witze hier zur/m #Wehrpflicht / #Wehrdienst nicht so diggen, sorry. Ich finde es skandalös, dass dieser #Fragebogen nur für Männer(*?) verpflichtend ist.

Das könnt ihr gerne auf meine Schneeflockigkeit schieben: Ich musste 2007 der Wehrpflicht Folge leisten und habe bis heute psychische Probleme (u.A.) vom #Zivildienst. Hat niemanden je interessiert, alles was kam, waren #NVA- oder gleich #Wehrmacht svergleiche.
Die Wehrpflicht wird weitere Männer* kaputt machen...

La militarización de la sociedad USA por Trump recuerda a la israelí y a la alemana con Hitler #Wehrmacht Fuerzas Armadas del Tercer Reich alemán

#USpol #NOAA #Resist #History #Fascism

(2/n)

...1945.

The #Wehrmacht had long been on the defensive militarily: the troops of the Western #Allies were already on the Rhine, while in the East the #Soviet army had advanced up to 80 km from #Berlin.

#Hitler sums up his distorted view of history once again, calls on the population to fight once more and 👉demands the greatest willingness to sacrifice from everyone in the country.👈"...

@wendinoakland @milo

Sul processo a Kesselring

L’esame del processo contro Kesselring è interessante per la ricostruzione del meccanismo del terrore messo in atto dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943, di cui ha parlato Battini. Durante le prime tre settimane del processo, ci si occupò dell’esame delle prove addotte per le due imputazioni, dell’interrogatorio dell’imputato e dell’escussione dei testimoni. Fra questi ultimi, ventuno furono convocati dalla difesa e nove dall’accusa. Un ruolo determinante ebbero tre testimoni dell’accusa: il tenente colonnello A.P. Scotland, un ufficiale dello spionaggio dell’esercito britannico che si era infiltrato nelle truppe tedesche, Herbert Kappler e il giudice militare dell’esercito tedesco, Hans Keller. Scotland aveva interrogato Kesselring e raccolto le sue deposizioni durante la sua prigionia a Londra. Questi atti costituirono le prove decisive per l’incriminazione dell’imputato, il quale – ricordiamo – il 6 maggio fu ritenuto colpevole di entrambi i capi d’imputazione e condannato a morte per fucilazione. Vediamo dall’analisi della sentenza come Battini sia arrivato a concludere che «la responsabilità diretta del comandante supremo era stata provata in modo incontrovertibile e la condanna fu inevitabile» <422.
Al processo, Scotland mise in luce che gli ordini emanati dal comando dell’esercito tedesco in Italia, in particolare quelli del 17 giugno e del 1° luglio, avevano contribuito a scatenare una controguerriglia condotta «con la massima violenza anche contro donne e bambini» <423, dando così avvio «a tutti gli eccessi contro i civili a cui si sarebbero abbandonati i comandanti subalterni» <424. Scotland sottolineò inoltre che, per un ordine del Comando supremo della Wehrmacht del 1° maggio 1944 inviato dal maresciallo Keitel, fossero stati affidati a Kesselring l’autorità suprema sulle operazioni antipartigiane, il comando sulle forze delle SS e della polizia dipendenti dal generale Wolff e la supervisione del coordinamento territoriale delle linee di comunicazione con le retrovie, conferito allo stesso Wolff. Le operazioni antipartigiane, affidate al comando delle SS, sarebbero state coordinate da Wolff in collaborazione con il quartier generale di Kesselring, a cui spettava l’approvazione di qualsiasi piano di attacco. Lo schema tratteggiato da Scotland trovò conferma nella testimonianza del colonnello Beelitz, che era stato primo ufficiale dello staff generale di Kesselring. Anch’egli ammise che dal 1° maggio al generale Wolff fu ordinato di seguire gli ordini di Kesslering, a capo dell’Oberkommando Sud West (Comando supremo del fronte sud-ovest), per quanto riguardava la guerra partigiana. Beelitz documentò l’esistenza di collegamenti fra il comando dell’esercito e quello delle SS, che avevano permesso a Kesselring di essere costantemente informato sulle operazioni antipartigiane condotte da Wolff. L’importanza di tali testimonianze è stata sottolineata da Battini:
“Si aprì così l’interrogativo su quanto Kesselring avesse effettivamente conosciuto delle efferate attività di alcune unità delle Waffen SS poste direttamente agli ordini di Berlino – ad esempio la XVI Panzerdivision SS, la divisione SS Hermann Göering e la divisione cosacca di Debes – le quali si erano rese responsabili di alcuni dei massacri più feroci, da S. Anna di Stazzema a Marzabotto. Venne così provata l’ipotesi che le SS furono effettivamente subordinate alla Wehrmacht nelle operazioni contro i partigiani e contro le popolazioni civili”. <425
Lo stesso Kappler danneggiò il feldmaresciallo, dichiarando di aver detto esplicitamente a Kesselring di avere in custodia persone imputate di reati punibili con la pena di morte e non ancora condannate a morte. Fu quest’ultimo a ritenere necessario eseguire immediatamente l’ordine di rappresaglia imposto da Hitler. La testimonianza di Kappler contrastava con quella del giudice militare Hans Keller, il quale però non riuscì a trovare prove a suo favore. Questi, sebbene sostenesse di aver emanato l’obbligo per tutti i battaglioni di dotarsi di corti marziali sul campo, dovette ammettere che tali corti non avevano gli strumenti per poter operare effettivamente. Egli non riuscì nemmeno a provare l’esistenza di direttive per lo svolgimento di regolari processi ai partigiani catturati e ai civili sospettati di collaborare con loro. Il comando non aveva proposto, evidentemente, alcuna misura garantistica: nessuna esecuzione di civili era stata preceduta da un processo. Il testimone finì così per compromettere la posizione dell’imputato e ammise che l’ordine di Kesselring del 17 giugno 1944 che garantiva protezione a qualsiasi ufficiale che si fosse reso responsabile di eccessi nelle stragi «sarebbe risultato ambiguo e avrebbe potuto essere frainteso» <426, soprattutto nelle mani di un giovane ufficiale.
Kesselring si difese sostenendo che gli ordini da lui emanati si spiegavano con la difficile situazione in cui l’esercito tedesco, dopo la caduta di Roma del 4 giorno 1944, si era trovato ad agire, costretto alla ritirata, tormentata dai bombardamenti aerei alleati e dagli attacchi dei partigiani. Le sue dichiarazioni dimostrarono però che in quelle difficoltà egli maturò un atteggiamento di rancore verso l’esercito e il popolo italiano, che sarebbe stato poi alla base della sua politica di occupazione. Baldissara e Pezzino hanno messo ben in luce come questo rancore si sia riversato sulla popolazione civile, provocando stragi di inermi:
“Questa insistenza sulla minaccia partigiana […] era la spia di una preoccupazione reale per l’attività della guerriglia sul terreno propriamente militare, inscritta però in un latente e ampiamente condiviso giudizio di disprezzo e totale repulsa per qualsivoglia forma di guerra irregolare. Un disprezzo che non poteva non rovesciarsi sui componenti delle formazioni partigiane e sulle popolazioni che si ritenevano collaterali a esse, e che non poteva non costituire il presupposto della sottrazione di innocenza ai civili – donne e bambini inermi – e dunque della giustificazione stessa del massacro, sia durante (per coloro che lo compivano) sia dopo (per coloro che lo giudicavano)”. <427
Sebbene Kesselring inizialmente provasse ad addossare la colpa delle stragi senza limiti alle autorità fasciste della RSI, dovette poi ammettere che qualche atrocità era stata commessa anche da parte tedesca. Kesselring si contraddisse durante il processo, poiché da una parte affermava che i propri ordini avessero rispettato il diritto di guerra, dall’altra attribuì la causa delle stragi al caos in cui era precipitato l’esercito, che avrebbe rallentato il sistema di comunicazione. I documenti, invece, dimostravano che gli ordini emanati da Kesselring non avevano rispettato affatto procedure regolari secondo il diritto di guerra. Ne è una prova anche il fatto che Kesselring solamente alla fine dell’estate del 1944 aveva istituito tribunali militari sul campo mentre, l’8 febbraio 1945, aveva stabilito che le decisioni sarebbero state prese solo dalle corti marziali. In realtà Kesselring, sin dalla fine del 1943, aveva ordinato di utilizzare non solo le misure tradizionali della controguerriglia ma tutti i mezzi a disposizione, perfino l’uccisione indiscriminata di civili sospettati di collaborazione, garantendo una protezione speciale a chi non fosse passato attraverso un procedimento giudiziario sul campo. Il colonnello Halse gli contestò allora il testo dell’ordine del 1° luglio 1944: «Una quota della popolazione maschile dell’area (infestata dai partigiani) verrà arrestata e, nel caso del prodursi di atti di violenza questi stessi uomini saranno uccisi» <428. A quel punto, Kesselring, incalzato dalle domande del colonnello, arrivò a sostenere che «anche i civili innocenti sterminati come ostaggi erano stati uccisi perché comunque colpevoli di “non aver per tempo preso le distanze dai partigiani”» <429.
Un’altra ammissione, sulla falsariga della precedente, che il feldmaresciallo fece durante l’interrogatorio, sarebbe stata determinante per l’esito del processo. Kesselring infatti affermò: «nelle aree infestate o occupate dai partigiani la popolazione combatteva al loro fianco o collaborava con essi, volontariamente o no. L’esercito fu allora costretto a considerare la popolazione alla stregua dei partigiani» <430. Come ha sottolineato Battini, l’imputato offriva così una prova della criminosità dei suoi ordini, «introducendo un’artificiosa distinzione tra la popolazione delle “aree infestate” dai partigiani, che poteva essere rastrellata, deportata e anche “giustiziata” nel caso di attacchi ripetuti, e le rappresaglie contro i partigiani combattenti, i quali potevano essere eliminati in qualsiasi circostanza senza il rispetto delle regole del diritto di guerra» <431. A quel punto, il presidente del tribunale ribatté che in entrambi i casi si era trattato di massacri indiscriminati, contrari alle norme belliche e che quindi tale distinzione non aveva alcun valore. Sebbene le convenzioni belliche non riconoscessero ai civili il diritto di insorgere contro l’occupante, quest’ultimo era chiamato al rispetto delle loro vite. Senza una regolare inchiesta che provasse la colpevolezza dei civili, essi rimanevano innocenti e la rappresaglia risultava completamente illegittima. Per questo, era stato illegale uccidere sia civili innocenti che ostaggi: in entrambi i casi si era trattato di assassinio e non di legittima rappresaglia.
In questo senso fu particolarmente significativo un altro passaggio del processo, la seduta del 14 marzo, nella quale Kesselring spiegò cosa intendesse per «zone partigiane»: parti di territorio in cui «tutta intera la popolazione condivideva lo stesso obiettivo [dei partigiani] e perciò io potevo supporre quasi con certezza che chiunque fosse stato estratto da questo gruppo di persone […] appartenesse ai partigiani e che alcuni di essi fossero dei capibanda»432. Ciò implicava che gli abitanti di zone nelle quali si fossero verificati episodi di guerriglia fossero considerati di per sé dei partigiani e che quindi fosse riservato loro lo stesso trattamento repressivo. Nel caso di episodi di insorgenza, veniva dunque sancita una condizione di colpevolezza collettiva: i civili non potevano non sapere e avrebbe dovuto collaborare con l’occupante, dunque, in caso contrario, la punizione collettiva nei loro confronti senza indagine né processo era giustificata. Come hanno sottolineato Baldissara e Pezzino, «la fonte di legittimazione della violenza e del ricorso alla rappresaglia contro i civili stava dunque nel presentare come illegittima e immorale la guerra partigiana, addirittura nell’assumerla – forzando l’interpretazione delle convezioni internazionali – alla stregua di un crimine di guerra ai danni dell’esercito regolare» <433.
Per concludere, è interessante prendere in esame un ultimo documento, il “Report on German reprisals for partisan activity in Italy”, il rapporto generale steso dagli inglesi sui risultati delle indagini da loro compiute sulle stragi di civili commesse in Italia, che l’11 di agosto del 1945 veniva inviato dal Quartier generale alleato al sottosegretario di Stato britannico del War Office. Questo rappresentava la sintesi delle investigazioni britanniche e mostra come gli inglesi fossero arrivati a comprendere la sistematicità del meccanismo terrorista praticato dai tedeschi contro le popolazioni civili. Il report collegava infatti le rappresaglie tedesche all’attività partigiana e sottolineava il complesso sistema di ordini che aveva scatenato le violenze contro la popolazione civile. Secondo i britannici, che erano entrati in possesso della documentazione del quartier generale di Kesselring, a causa delle preoccupazioni tedesche per l’intensificarsi dell’attività partigiana nell’estate 1944, «un vero e proprio sistema di ordini aveva fondato e incoraggiato la fase più intensa di azioni contro i civili» <434. Un messaggio telegrafato del 1° maggio 1944 inviato dal feldmaresciallo Keitel, capo dell’OKW, Oberkommando der Wehrmacht (Comando supremo delle forze armate) a Kesselring risolveva così il problema della ripartizione di competenze fra SS e forze armate: al generale comandante in capo del settore sud-ovest era attribuito il comando supremo delle operazioni contro i partigiani in Italia. Al comandante supremo delle SS e della polizia, Karl Wolff, spettava dunque la responsabilità operativa delle operazioni lontane dal fronte, ma egli doveva seguire i principi guida stabiliti da Kesselring, che assunse perciò il comando della lotta alle bande partigiane in Italia, e operare sotto di lui. Gli ordini di Kesselring erano quindi trasmessi ai vari livelli gerarchici per dare indicazioni sulle misure da adottare. Anche nel report si faceva riferimento agli ordini del 17 giugno 1944 e del 1° luglio dello stesso anno, che – come abbiamo visto sopra – sono stati citati durante il processo a dimostrazione del fatto che Kesselring aveva incoraggiato una vera e propria controguerriglia contro i civili. Il rapporto britannico concludeva che le «rappresaglie non erano state compiute per ordine di comandanti di singole formazioni ed unità tedesche, ma erano esempi di una campagna organizzata diretta dal Quartier Generale del feldmaresciallo Kesselring» <435.
Questo rapporto inglese ci offre anche indicazioni sul giudizio dei britannici nei confronti della guerra partigiana, poiché affermava che «nessuna obiezione potesse essere avanzata per l’uccisione di partigiani durante le operazioni e nella maggior parte dei casi per la loro esecuzione dopo la cattura» <436. A ragione di ciò, veniva utilizzata un’argomentazione che già abbiamo trovato: «è senza dubbio vero che molti erano camuffati con uniformi tedesche o non avevano segni distintivi o uniformi dalle quali potessero essere riconosciuti» <437. Si riteneva inoltre che potesse essere giustificata nel diritto internazionale e consuetudinario la presa di ostaggi come misura per prevenire attacchi ostili, ma che tale non potesse essere la cattura casuale di uomini innocenti e la loro uccisione al di fuori di ogni regola come rappresaglia. L’uccisione di anziani, donne e bambini era comunque «assolutamente indifendibile» <438.
La rilevanza di questo documento è dunque duplice poiché, da una parte, mostra come i britannici fossero perfettamente a conoscenza della gerarchia dei comandi tedeschi e del sistema degli ordini che faceva capo a Kesselring e che aveva originato una controguerriglia contro le bande partigiane e le popolazioni civili e, dall’altra, è prova dello scetticismo dei britannici verso la guerra partigiana, «della quale peraltro gli Alleati avevano ampiamente usufruito, e che avevano anzi incoraggiato sia con inviti al combattimento, sia con i lanci di materiale e di armi, ma che essi stessi giudicavano alla fine del conflitto, contraria alle norme del diritto internazionale di guerra» <439. Lo scetticismo verso la forma della guerra partigiana, diffuso – come abbiamo visto – anche nella cultura di guerra britannica, assunse però nel caso delle truppe tedesche aspetti molto più radicali.
Nella cultura della guerra nazista, alla rappresentazione fortemente negativa della guerriglia si aggiunsero anche altri fattori ideologici, come il risentimento verso gli italiani «traditori» e la dimensione razziale del nazismo, che spiegano perché le forze tedesche, soprattutto le formazioni più ideologizzate, arrivarono a compiere tali violenze. La disumanizzazione del nemico portò ad abbassare «la soglia dell’inibizione a colpire gli inermi» <440. Il coinvolgimento nel conflitto dei civili si inscriveva in un contesto di guerra totale, condotta con un grande dispiego di mezzi e uomini e con armamenti di grande capacità distruttiva. Era comunque la guerra partigiana il fattore principale che provocava il ricorso terroristico alla violenza contro i civili. Da una parte, per la difficile situazione in cui si trovava l’esercito tedesco in continua ritirata, il quale non riusciva a sopportare la costante condizione di insicurezza alle proprie spalle. In questo senso, il meccanismo del terrore suppliva a queste difficoltà e alla mancanza di uomini per il controllo del territorio e diventava parte delle tattiche dell’esercito. Dall’altra, «nella difficoltà di individuare e contrastare adeguatamente i combattenti irregolari, di differenziare […] l’abitante dal “bandito” […], i civili si trasformano essi stessi in partigiani: non nel senso che siano – neppure nella percezione tedesca – nella loro totalità effettivamente dei combattenti, […] ma che nelle rappresentazione delle forze d’occupazione i profili del civile e del partigiano tendono viepiù a sovrapporsi e coincidere» <441.
Possiamo concludere che alcune riflessioni giuridiche maturate all’interno del dibattito dei giuristi sul processo di Norimberga, come la questione della responsabilità individuale e dell’obbedienza agli ordini dei superiori, trovarono una sorta di applicazione nelle forme della giustizia assunte nei tribunali militari italiani. Giuristi come Nuvolone e Vassalli avevano ben colto infatti la rilevanza di tali questioni. Il primo si era addentrato in un’analisi dei vari livelli di responsabilità che la riflessione sull’obbedienza agli ordini superiori comportava. È interessante notare che nella casistica analizzata da Nuvolone troviamo dei riferimenti precisi al cosiddetto mandante specifico, il quale è ravvisabile negli uomini a capo di un’amministrazione militare. Questa categoria di persone, la quale rispecchiava proprio il ruolo dei militari tedeschi giudicati in Italia, era – a parere del giurista – pienamente responsabile dei crimini compiuti, sebbene questi le fossero stati ordinati da un superiore. Potremmo dire che lo stesso principio giuridico era stato applicato dal Tribunale militare di Bologna, affermando che, se anche Reder avesse ricevuto ordini superiori, avrebbe dovuto rifiutarsi di compiere atti che costituivano manifestatamente reato. Ciò non era avvenuto invece per il processo a Kappler, nel quale l’obbedienza a un ordine era stata considerata un’esimente. Il passo avanti fatto dal tribunale bolognese, messo in luce anche dal già menzionato Ago, aveva dunque accolto le riflessioni di quei giuristi come Nuvolone e Vassalli che ritenevano che un ordine illegittimo non potesse valere come giustificazione di una condotta criminale.
[NOTE]
422 Battini, Peccati di memoria cit., p. 88.
423 Atti del processo, cit. in Ivi, p. 77.
424 Ibidem.
425 Battini, Peccati di memoria cit., p. 80.
426 Atti del processo, cit. in Ivi, p. 78.
427 Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p. 418.
428 Cit. in Battini, Peccati di memoria cit., p. 83.
429 Battini, Peccati di memoria cit., p. 84.
430 Atti del processo in Battini, Peccati di memoria cit., p. 81.
431 Battini, Peccati di memoria cit., p. 81.
432 Atti del processo in Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p. 419.
433 Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p.420.
434 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 19.
435 Cit. in De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 20.
436 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 20-21.
437 Ivi, p. 21.
438 Ibidem.
439 Ibidem.
440 Ivi, p. 421.
441 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 419.
Claudia Nieddu, Il dibattito in Italia sui criminali di guerra (1945-1951), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2017-2018

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Scott Ritter: The Birth of the German Fourth Reich
https://consortiumnews.com/2025/07/15/scott-ritter-the-birth-of-the-german-fourth-reich/
After its defeat, Adolf Hitler’s Third Reich was coaxed back to life by the very forces that once conspired to defeat it. Germany today has dangerously embarked on a rearmament campaign to prepare for a supposed Russian threat. New Chancellor&#8230;
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Scott Ritter: The Birth of the German Fourth Reich

After its defeat, Adolf Hitler’s Third Reich was coaxed back to life by the very forces that once conspired to defeat it. Germany today has dangerously embarked on a rearmament campaign to prepare for a supposed Russian threat. New Chancellor Frederich Merz told the Bundestag in May Germany w

Consortium News
The Clean Wehrmacht: Making a Myth - Cornell University Press https://share.google/LCVBbN88sUhpMK7E6
#democracy vs #fascism #wehrmacht
The Clean Wehrmacht: Making a Myth

The year 2021 is the eightieth anniversary of Operation Barbarossa, the largest military campaign in modern history.

Cornell University Press
Die sog. 'private' Söldnergruppe #Wagner treibt ihr Unwesen im Auftrag von Kremlchef Wladimir #Putin weiter, wenn auch hauptsächlich in #Afrika. Im #Mali wurde 2024 im Auftrag von Putin eine Einheit gegründet, die genauso heißt wie einst ein Verband der deutschen #Wehrmacht: #Afrikakorps.

„Sie haben einfach ihre Unifor...
„Sie haben einfach ihre Uniformen ausgetauscht“: Was aus Russlands berüchtigten Wagner-Kämpfern wurde

Bis Juni 2023 kämpften Wagner-Söldner für Kremlchef Wladimir Putin im Ukraine-Krieg. Dann meuterte ihr Chef Jewgeni Prigoschin – und starb. Das Ende der Privatarmee? Bei weitem nicht.

Der Tagesspiegel