La cupa leggenda di Abashiri, carcere costruito sui gelidi confini del Giappone settentrionale - Il blog di Jacopo Ranieri

Con il repentino ingresso del Giappone nell’epoca moderna, successivamente all’apertura forzata dalle navi nere del Commodoro Perry a partire dal 1853 e la conseguente serie di sconvolgimenti sociali, amministrativi e culturali che portarono alla caduta del secolare shogunato dei Tokugawa, una nuova concezione del potere ebbe modo di palesarsi dai feudi occidentali di Chōshū e ... Leggi tutto

Il blog di Jacopo Ranieri

Due azioni legali, una alla Corte penale internazionale per complicità in crimini di guerra, #crimini contro l’umanità e #genocidio, l’altra per la mancata protezione della Global Sumud #Flotilla. A essere chiamato in causa è il governo italiano, di cui ora un gruppo di avvocati tenta di far accertare le responsabilità rispetto allo sterminio in corso a #Gaza e al blocco della flotta civile carica di aiuti umanitari da parte delle forze israeliane.
#nogenocidio

https://lavialibera.it/it-schede-2440-gaza_denuncia_governo_italiano_meloni_genocidio_blocco_sumud_flotilla

"Ci sono circostanze in cui un soldato può legalmente disobbedire agli ordini del suo superiore?" Stephanie Tran intervista l'avvocato dell'esercito australiano e informatore David #McBride dal carcere.
#Australia

https://michaelwest.com.au/david-mcbride-interview-army-whistleblower-high-court-nuremberg/

David McBride è in carcere per aver rivelato i #crimini di #guerra compiuti dalle truppe australiane in #Afghanistan.

David McBride interview: from Army media hijinks, to whistleblower, to High Court Nuremberg challenge - Michael West

"Are there any circumstances where a soldier can lawfully disobey orders from their superior?" Interviews with army whistleblower David McBride

Michael West

Sul processo a Kesselring

L’esame del processo contro Kesselring è interessante per la ricostruzione del meccanismo del terrore messo in atto dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943, di cui ha parlato Battini. Durante le prime tre settimane del processo, ci si occupò dell’esame delle prove addotte per le due imputazioni, dell’interrogatorio dell’imputato e dell’escussione dei testimoni. Fra questi ultimi, ventuno furono convocati dalla difesa e nove dall’accusa. Un ruolo determinante ebbero tre testimoni dell’accusa: il tenente colonnello A.P. Scotland, un ufficiale dello spionaggio dell’esercito britannico che si era infiltrato nelle truppe tedesche, Herbert Kappler e il giudice militare dell’esercito tedesco, Hans Keller. Scotland aveva interrogato Kesselring e raccolto le sue deposizioni durante la sua prigionia a Londra. Questi atti costituirono le prove decisive per l’incriminazione dell’imputato, il quale – ricordiamo – il 6 maggio fu ritenuto colpevole di entrambi i capi d’imputazione e condannato a morte per fucilazione. Vediamo dall’analisi della sentenza come Battini sia arrivato a concludere che «la responsabilità diretta del comandante supremo era stata provata in modo incontrovertibile e la condanna fu inevitabile» <422.
Al processo, Scotland mise in luce che gli ordini emanati dal comando dell’esercito tedesco in Italia, in particolare quelli del 17 giugno e del 1° luglio, avevano contribuito a scatenare una controguerriglia condotta «con la massima violenza anche contro donne e bambini» <423, dando così avvio «a tutti gli eccessi contro i civili a cui si sarebbero abbandonati i comandanti subalterni» <424. Scotland sottolineò inoltre che, per un ordine del Comando supremo della Wehrmacht del 1° maggio 1944 inviato dal maresciallo Keitel, fossero stati affidati a Kesselring l’autorità suprema sulle operazioni antipartigiane, il comando sulle forze delle SS e della polizia dipendenti dal generale Wolff e la supervisione del coordinamento territoriale delle linee di comunicazione con le retrovie, conferito allo stesso Wolff. Le operazioni antipartigiane, affidate al comando delle SS, sarebbero state coordinate da Wolff in collaborazione con il quartier generale di Kesselring, a cui spettava l’approvazione di qualsiasi piano di attacco. Lo schema tratteggiato da Scotland trovò conferma nella testimonianza del colonnello Beelitz, che era stato primo ufficiale dello staff generale di Kesselring. Anch’egli ammise che dal 1° maggio al generale Wolff fu ordinato di seguire gli ordini di Kesslering, a capo dell’Oberkommando Sud West (Comando supremo del fronte sud-ovest), per quanto riguardava la guerra partigiana. Beelitz documentò l’esistenza di collegamenti fra il comando dell’esercito e quello delle SS, che avevano permesso a Kesselring di essere costantemente informato sulle operazioni antipartigiane condotte da Wolff. L’importanza di tali testimonianze è stata sottolineata da Battini:
“Si aprì così l’interrogativo su quanto Kesselring avesse effettivamente conosciuto delle efferate attività di alcune unità delle Waffen SS poste direttamente agli ordini di Berlino – ad esempio la XVI Panzerdivision SS, la divisione SS Hermann Göering e la divisione cosacca di Debes – le quali si erano rese responsabili di alcuni dei massacri più feroci, da S. Anna di Stazzema a Marzabotto. Venne così provata l’ipotesi che le SS furono effettivamente subordinate alla Wehrmacht nelle operazioni contro i partigiani e contro le popolazioni civili”. <425
Lo stesso Kappler danneggiò il feldmaresciallo, dichiarando di aver detto esplicitamente a Kesselring di avere in custodia persone imputate di reati punibili con la pena di morte e non ancora condannate a morte. Fu quest’ultimo a ritenere necessario eseguire immediatamente l’ordine di rappresaglia imposto da Hitler. La testimonianza di Kappler contrastava con quella del giudice militare Hans Keller, il quale però non riuscì a trovare prove a suo favore. Questi, sebbene sostenesse di aver emanato l’obbligo per tutti i battaglioni di dotarsi di corti marziali sul campo, dovette ammettere che tali corti non avevano gli strumenti per poter operare effettivamente. Egli non riuscì nemmeno a provare l’esistenza di direttive per lo svolgimento di regolari processi ai partigiani catturati e ai civili sospettati di collaborare con loro. Il comando non aveva proposto, evidentemente, alcuna misura garantistica: nessuna esecuzione di civili era stata preceduta da un processo. Il testimone finì così per compromettere la posizione dell’imputato e ammise che l’ordine di Kesselring del 17 giugno 1944 che garantiva protezione a qualsiasi ufficiale che si fosse reso responsabile di eccessi nelle stragi «sarebbe risultato ambiguo e avrebbe potuto essere frainteso» <426, soprattutto nelle mani di un giovane ufficiale.
Kesselring si difese sostenendo che gli ordini da lui emanati si spiegavano con la difficile situazione in cui l’esercito tedesco, dopo la caduta di Roma del 4 giorno 1944, si era trovato ad agire, costretto alla ritirata, tormentata dai bombardamenti aerei alleati e dagli attacchi dei partigiani. Le sue dichiarazioni dimostrarono però che in quelle difficoltà egli maturò un atteggiamento di rancore verso l’esercito e il popolo italiano, che sarebbe stato poi alla base della sua politica di occupazione. Baldissara e Pezzino hanno messo ben in luce come questo rancore si sia riversato sulla popolazione civile, provocando stragi di inermi:
“Questa insistenza sulla minaccia partigiana […] era la spia di una preoccupazione reale per l’attività della guerriglia sul terreno propriamente militare, inscritta però in un latente e ampiamente condiviso giudizio di disprezzo e totale repulsa per qualsivoglia forma di guerra irregolare. Un disprezzo che non poteva non rovesciarsi sui componenti delle formazioni partigiane e sulle popolazioni che si ritenevano collaterali a esse, e che non poteva non costituire il presupposto della sottrazione di innocenza ai civili – donne e bambini inermi – e dunque della giustificazione stessa del massacro, sia durante (per coloro che lo compivano) sia dopo (per coloro che lo giudicavano)”. <427
Sebbene Kesselring inizialmente provasse ad addossare la colpa delle stragi senza limiti alle autorità fasciste della RSI, dovette poi ammettere che qualche atrocità era stata commessa anche da parte tedesca. Kesselring si contraddisse durante il processo, poiché da una parte affermava che i propri ordini avessero rispettato il diritto di guerra, dall’altra attribuì la causa delle stragi al caos in cui era precipitato l’esercito, che avrebbe rallentato il sistema di comunicazione. I documenti, invece, dimostravano che gli ordini emanati da Kesselring non avevano rispettato affatto procedure regolari secondo il diritto di guerra. Ne è una prova anche il fatto che Kesselring solamente alla fine dell’estate del 1944 aveva istituito tribunali militari sul campo mentre, l’8 febbraio 1945, aveva stabilito che le decisioni sarebbero state prese solo dalle corti marziali. In realtà Kesselring, sin dalla fine del 1943, aveva ordinato di utilizzare non solo le misure tradizionali della controguerriglia ma tutti i mezzi a disposizione, perfino l’uccisione indiscriminata di civili sospettati di collaborazione, garantendo una protezione speciale a chi non fosse passato attraverso un procedimento giudiziario sul campo. Il colonnello Halse gli contestò allora il testo dell’ordine del 1° luglio 1944: «Una quota della popolazione maschile dell’area (infestata dai partigiani) verrà arrestata e, nel caso del prodursi di atti di violenza questi stessi uomini saranno uccisi» <428. A quel punto, Kesselring, incalzato dalle domande del colonnello, arrivò a sostenere che «anche i civili innocenti sterminati come ostaggi erano stati uccisi perché comunque colpevoli di “non aver per tempo preso le distanze dai partigiani”» <429.
Un’altra ammissione, sulla falsariga della precedente, che il feldmaresciallo fece durante l’interrogatorio, sarebbe stata determinante per l’esito del processo. Kesselring infatti affermò: «nelle aree infestate o occupate dai partigiani la popolazione combatteva al loro fianco o collaborava con essi, volontariamente o no. L’esercito fu allora costretto a considerare la popolazione alla stregua dei partigiani» <430. Come ha sottolineato Battini, l’imputato offriva così una prova della criminosità dei suoi ordini, «introducendo un’artificiosa distinzione tra la popolazione delle “aree infestate” dai partigiani, che poteva essere rastrellata, deportata e anche “giustiziata” nel caso di attacchi ripetuti, e le rappresaglie contro i partigiani combattenti, i quali potevano essere eliminati in qualsiasi circostanza senza il rispetto delle regole del diritto di guerra» <431. A quel punto, il presidente del tribunale ribatté che in entrambi i casi si era trattato di massacri indiscriminati, contrari alle norme belliche e che quindi tale distinzione non aveva alcun valore. Sebbene le convenzioni belliche non riconoscessero ai civili il diritto di insorgere contro l’occupante, quest’ultimo era chiamato al rispetto delle loro vite. Senza una regolare inchiesta che provasse la colpevolezza dei civili, essi rimanevano innocenti e la rappresaglia risultava completamente illegittima. Per questo, era stato illegale uccidere sia civili innocenti che ostaggi: in entrambi i casi si era trattato di assassinio e non di legittima rappresaglia.
In questo senso fu particolarmente significativo un altro passaggio del processo, la seduta del 14 marzo, nella quale Kesselring spiegò cosa intendesse per «zone partigiane»: parti di territorio in cui «tutta intera la popolazione condivideva lo stesso obiettivo [dei partigiani] e perciò io potevo supporre quasi con certezza che chiunque fosse stato estratto da questo gruppo di persone […] appartenesse ai partigiani e che alcuni di essi fossero dei capibanda»432. Ciò implicava che gli abitanti di zone nelle quali si fossero verificati episodi di guerriglia fossero considerati di per sé dei partigiani e che quindi fosse riservato loro lo stesso trattamento repressivo. Nel caso di episodi di insorgenza, veniva dunque sancita una condizione di colpevolezza collettiva: i civili non potevano non sapere e avrebbe dovuto collaborare con l’occupante, dunque, in caso contrario, la punizione collettiva nei loro confronti senza indagine né processo era giustificata. Come hanno sottolineato Baldissara e Pezzino, «la fonte di legittimazione della violenza e del ricorso alla rappresaglia contro i civili stava dunque nel presentare come illegittima e immorale la guerra partigiana, addirittura nell’assumerla – forzando l’interpretazione delle convezioni internazionali – alla stregua di un crimine di guerra ai danni dell’esercito regolare» <433.
Per concludere, è interessante prendere in esame un ultimo documento, il “Report on German reprisals for partisan activity in Italy”, il rapporto generale steso dagli inglesi sui risultati delle indagini da loro compiute sulle stragi di civili commesse in Italia, che l’11 di agosto del 1945 veniva inviato dal Quartier generale alleato al sottosegretario di Stato britannico del War Office. Questo rappresentava la sintesi delle investigazioni britanniche e mostra come gli inglesi fossero arrivati a comprendere la sistematicità del meccanismo terrorista praticato dai tedeschi contro le popolazioni civili. Il report collegava infatti le rappresaglie tedesche all’attività partigiana e sottolineava il complesso sistema di ordini che aveva scatenato le violenze contro la popolazione civile. Secondo i britannici, che erano entrati in possesso della documentazione del quartier generale di Kesselring, a causa delle preoccupazioni tedesche per l’intensificarsi dell’attività partigiana nell’estate 1944, «un vero e proprio sistema di ordini aveva fondato e incoraggiato la fase più intensa di azioni contro i civili» <434. Un messaggio telegrafato del 1° maggio 1944 inviato dal feldmaresciallo Keitel, capo dell’OKW, Oberkommando der Wehrmacht (Comando supremo delle forze armate) a Kesselring risolveva così il problema della ripartizione di competenze fra SS e forze armate: al generale comandante in capo del settore sud-ovest era attribuito il comando supremo delle operazioni contro i partigiani in Italia. Al comandante supremo delle SS e della polizia, Karl Wolff, spettava dunque la responsabilità operativa delle operazioni lontane dal fronte, ma egli doveva seguire i principi guida stabiliti da Kesselring, che assunse perciò il comando della lotta alle bande partigiane in Italia, e operare sotto di lui. Gli ordini di Kesselring erano quindi trasmessi ai vari livelli gerarchici per dare indicazioni sulle misure da adottare. Anche nel report si faceva riferimento agli ordini del 17 giugno 1944 e del 1° luglio dello stesso anno, che – come abbiamo visto sopra – sono stati citati durante il processo a dimostrazione del fatto che Kesselring aveva incoraggiato una vera e propria controguerriglia contro i civili. Il rapporto britannico concludeva che le «rappresaglie non erano state compiute per ordine di comandanti di singole formazioni ed unità tedesche, ma erano esempi di una campagna organizzata diretta dal Quartier Generale del feldmaresciallo Kesselring» <435.
Questo rapporto inglese ci offre anche indicazioni sul giudizio dei britannici nei confronti della guerra partigiana, poiché affermava che «nessuna obiezione potesse essere avanzata per l’uccisione di partigiani durante le operazioni e nella maggior parte dei casi per la loro esecuzione dopo la cattura» <436. A ragione di ciò, veniva utilizzata un’argomentazione che già abbiamo trovato: «è senza dubbio vero che molti erano camuffati con uniformi tedesche o non avevano segni distintivi o uniformi dalle quali potessero essere riconosciuti» <437. Si riteneva inoltre che potesse essere giustificata nel diritto internazionale e consuetudinario la presa di ostaggi come misura per prevenire attacchi ostili, ma che tale non potesse essere la cattura casuale di uomini innocenti e la loro uccisione al di fuori di ogni regola come rappresaglia. L’uccisione di anziani, donne e bambini era comunque «assolutamente indifendibile» <438.
La rilevanza di questo documento è dunque duplice poiché, da una parte, mostra come i britannici fossero perfettamente a conoscenza della gerarchia dei comandi tedeschi e del sistema degli ordini che faceva capo a Kesselring e che aveva originato una controguerriglia contro le bande partigiane e le popolazioni civili e, dall’altra, è prova dello scetticismo dei britannici verso la guerra partigiana, «della quale peraltro gli Alleati avevano ampiamente usufruito, e che avevano anzi incoraggiato sia con inviti al combattimento, sia con i lanci di materiale e di armi, ma che essi stessi giudicavano alla fine del conflitto, contraria alle norme del diritto internazionale di guerra» <439. Lo scetticismo verso la forma della guerra partigiana, diffuso – come abbiamo visto – anche nella cultura di guerra britannica, assunse però nel caso delle truppe tedesche aspetti molto più radicali.
Nella cultura della guerra nazista, alla rappresentazione fortemente negativa della guerriglia si aggiunsero anche altri fattori ideologici, come il risentimento verso gli italiani «traditori» e la dimensione razziale del nazismo, che spiegano perché le forze tedesche, soprattutto le formazioni più ideologizzate, arrivarono a compiere tali violenze. La disumanizzazione del nemico portò ad abbassare «la soglia dell’inibizione a colpire gli inermi» <440. Il coinvolgimento nel conflitto dei civili si inscriveva in un contesto di guerra totale, condotta con un grande dispiego di mezzi e uomini e con armamenti di grande capacità distruttiva. Era comunque la guerra partigiana il fattore principale che provocava il ricorso terroristico alla violenza contro i civili. Da una parte, per la difficile situazione in cui si trovava l’esercito tedesco in continua ritirata, il quale non riusciva a sopportare la costante condizione di insicurezza alle proprie spalle. In questo senso, il meccanismo del terrore suppliva a queste difficoltà e alla mancanza di uomini per il controllo del territorio e diventava parte delle tattiche dell’esercito. Dall’altra, «nella difficoltà di individuare e contrastare adeguatamente i combattenti irregolari, di differenziare […] l’abitante dal “bandito” […], i civili si trasformano essi stessi in partigiani: non nel senso che siano – neppure nella percezione tedesca – nella loro totalità effettivamente dei combattenti, […] ma che nelle rappresentazione delle forze d’occupazione i profili del civile e del partigiano tendono viepiù a sovrapporsi e coincidere» <441.
Possiamo concludere che alcune riflessioni giuridiche maturate all’interno del dibattito dei giuristi sul processo di Norimberga, come la questione della responsabilità individuale e dell’obbedienza agli ordini dei superiori, trovarono una sorta di applicazione nelle forme della giustizia assunte nei tribunali militari italiani. Giuristi come Nuvolone e Vassalli avevano ben colto infatti la rilevanza di tali questioni. Il primo si era addentrato in un’analisi dei vari livelli di responsabilità che la riflessione sull’obbedienza agli ordini superiori comportava. È interessante notare che nella casistica analizzata da Nuvolone troviamo dei riferimenti precisi al cosiddetto mandante specifico, il quale è ravvisabile negli uomini a capo di un’amministrazione militare. Questa categoria di persone, la quale rispecchiava proprio il ruolo dei militari tedeschi giudicati in Italia, era – a parere del giurista – pienamente responsabile dei crimini compiuti, sebbene questi le fossero stati ordinati da un superiore. Potremmo dire che lo stesso principio giuridico era stato applicato dal Tribunale militare di Bologna, affermando che, se anche Reder avesse ricevuto ordini superiori, avrebbe dovuto rifiutarsi di compiere atti che costituivano manifestatamente reato. Ciò non era avvenuto invece per il processo a Kappler, nel quale l’obbedienza a un ordine era stata considerata un’esimente. Il passo avanti fatto dal tribunale bolognese, messo in luce anche dal già menzionato Ago, aveva dunque accolto le riflessioni di quei giuristi come Nuvolone e Vassalli che ritenevano che un ordine illegittimo non potesse valere come giustificazione di una condotta criminale.
[NOTE]
422 Battini, Peccati di memoria cit., p. 88.
423 Atti del processo, cit. in Ivi, p. 77.
424 Ibidem.
425 Battini, Peccati di memoria cit., p. 80.
426 Atti del processo, cit. in Ivi, p. 78.
427 Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p. 418.
428 Cit. in Battini, Peccati di memoria cit., p. 83.
429 Battini, Peccati di memoria cit., p. 84.
430 Atti del processo in Battini, Peccati di memoria cit., p. 81.
431 Battini, Peccati di memoria cit., p. 81.
432 Atti del processo in Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p. 419.
433 Baldissara e Pezzino, Il massacro cit., p.420.
434 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 19.
435 Cit. in De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 20.
436 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 20-21.
437 Ivi, p. 21.
438 Ibidem.
439 Ibidem.
440 Ivi, p. 421.
441 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 419.
Claudia Nieddu, Il dibattito in Italia sui criminali di guerra (1945-1951), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2017-2018

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Le brigate Garibaldi della Lombardia furono tra le più efficienti nella cattura dei presunti collaborazionisti

Il decreto legislativo n.° 142 emanato il 22 aprile 1945 toccò un nervo scoperto di chi aveva conosciuto le asprezze del governo di Salò e il fardello dell’occupazione tedesca.
Molti cittadini si dimostrarono pronti a collaborare con le istituzioni preposte per attuare i provvedimenti sanzionatori sporgendo denunce contro i collaborazionisti. A Liberazione avvenuta, svanito il timore delle repressioni e delle persecuzioni da parte di nazisti e saloini, nulla più ostacolò l’iniziativa della popolazione di “farla pagare” ai precedenti oppressori e profittatori.
La mole e lo stato attuale dell’archiviazione delle fonti a disposizione rende difficoltosa, al momento, la ricostruzione dell’effettiva consistenza di tutte le denunce sporte a carico dei collaborazionisti nella provincia di Milano <124.
Dalle informazioni reperibili a partire dagli atti processuali si desume che la maggior parte delle persone accusate di collaborazionismo per cui fu istruito il processo furono segnalate tra la fine di aprile e la fine di giugno 1945. Nella seconda metà dell’anno le denunce continuarono con una minore intensità fino a cessare nella primavera successiva <125.
Gli autori delle denunce furono in molti casi i parenti o i conoscenti delle vittime o coloro che avevano direttamente subito i torti o le violenze. E’ il caso, ad esempio, dell’avvocato Alfonso Mauri, il quale due giorni dopo la liberazione di Milano denunciò il portinaio dello stabile dove esercitava la professione, Stefano Barlocco, per aver provocato il suo arresto da parte della polizia tedesca <126. E’ invece la vedova Anna Abanassino a denunciare, il 20 maggio 1945, Norberto Ficini quale delatore del marito Ferruccio Bolognesi, morto in Germania dopo esservi stato deportato <127. Analogamente, il commerciante di origine argentina Santiago De Filippi, processato “per aver denunciato alle SS Germaniche il sig. Goldfluos Enrico, segnalandolo come israelita e detentore di armi destinate ai partigiani nonché di apparecchio radio ricevente trasmittente, provocandone l’internamento a Dachau”, è stato segnalato dal figlio dell’internato <128.
Anche i gruppi partigiani attivi sul territorio investirono le proprie energie nella ricerca e denuncia dei fascisti di Salò che, in molti casi, vennero dalle stesse bande fermati e arrestati.
Alcuni esempi: l’ufficiale della Gnr Alberto Guzzi fu prelevato il 26 aprile da un corpo di Volontari della Libertà, Maria Ferlat, interprete, venne arrestata il 30 aprile dai volontari della sezione romana-vigentina del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Alcuni agenti di pubblica sicurezza del comando generale della VIII brigata Matteotti fermarono il 3 maggio Tommaso Cacciapuoti, arricchitosi grazie a traffici illegali con i tedeschi, mentre il Commissario nazionale per l’Opera Nazionale Combattenti Luigi Russo fu arrestato qualche giorno dopo (12 maggio) da una formazione di “Giustizia e Libertà” e Ugo Franzolin, cronista di guerra della X Mas, da un gruppo garibaldino della Lombardia <129. Le brigate Garibaldi della Lombardia furono tra le più efficienti nella cattura dei presunti collaborazionisti. Oltre ad esse e a quelle citate nei precedenti esempi si misero in azione la brigata “giovanile Matteotti”, la brigata “San Giusto”, la brigata “Migliarini” e gruppi del Corpo Volontari della Libertà come la brigata “Biancardi” e il gruppo “Montezemolo”.
Altre volte le segnalazione di sospetti collaborazionisti arrivarono da colleghi di lavoro <130 o coinquilini <131, mentre in rari casi – concentrati nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile – si registrano costituzioni spontanee <132.
A tener desti gli animi della popolazione sulla punizione dei delitti commessi in nome del fascismo contribuirono, nei primi mesi dopo la liberazione, gli organi di stampa. I giornali del tempo ospitarono, infatti, articoli che, con toni più o meno infervorati e con considerazioni più o meno polemiche, mantennero la vicenda sanzionatoria al centro dell’interesse pubblico.
A partire dalla fine di maggio, sulla pagina milanese del Corriere d’Informazione apparvero costantemente aggiornamenti sugli ex-fascisti arrestati <133 e resoconti dei processi che si svolgevano davanti alla Corte d’Assise Straordinaria di Milano <134.
Parallelamente, i cittadini furono febbrilmente invitati collaborare con i Cln e le pubbliche autorità per avviare più celermente possibile i processi sanzionatori. Già nei primissimi giorni successivi alla liberazione apparvero incoraggiamenti a sporgere “denuncie dettagliate, indicando le persone, i fatti, i danni subiti e le prove documentali od orali” facendo pervenire “uno scritto senza alcuna formalità alla Commissione intestata sedente presso il Palazzo di Giustizia, via Freguglia” <135.
Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, i numerosi articoli sull’argomento divennero veri e propri appelli indirizzati alla popolazione a darsi da fare per “stanare” gli ex fascisti che si nascondono <136 o che tentano di riciclarsi come partigiani <137 e coloro che hanno approfittato dell’occupazione tedesca per godere di posizioni di potere o per portare a termine affari e profitti personali <138. La risposta dei cittadini ai frequenti appelli sembrò essere positiva, tanto da incalzare il lavoro della polizia e dell’apparato giudiziario <139.
In genere i querelanti indirizzarono i propri esposti alla Questura, ai Carabinieri o direttamente alla Corte d’Assise Straordinaria mediante l’ufficio del PM o l’autorità inquirente. Moltissimi furono anche coloro che si rivolgono ai Cln che, in questa fase di “caccia al nemico” dimostrarono grande energia ed operosità.
Tra la primavera e l’estate del 1945 i Comitati di Liberazione regionali e provinciali ricevettero una pioggia di denunce, segnalazioni, aggiornamenti e indicazioni <140.
Al Cln della città di Milano privati cittadini denunciarono, ad esempio, alcuni impresari nel campo edile per essersi messi a servizio dell’occupante.
Gino Ferrari, appaltatore edile operante a Molinazzo di Cormano, venne denunciato perché “Sostenitore e difensore e propagandista del verbo fascista – prima e dopo l’8 settembre 1943 – particolarmente ai propri dipendenti, collaborazionista dei fascisti e dei tedeschi per i quali ha fatto lavori diversi per conto della Todt, di Milano e provincia”. Inoltre, “ha minacciato ripetutamente i dipendenti di invio in Germania se questi manifestavano la loro avversione ad essere impiegati sui lavori per i tedeschi e per le loro organizzazioni. Sollecitava i nipoti all’iscrizione nell’esercito repubblichino e brigava presso Farinacci per far ottenere una ricompensa al valore militare ad un nipote ferito nella lotta contro i Patriotti sul fronte italiano”. Infine: “E’ già stato segnalato da diversi dipendenti come elemento fazioso, e ricercato dopo il 26 luglio 1943 per una giusta punizione, ma si era reso irreperibile. Ha fatto discreta fortuna durante il periodo di guerra immagazzinando rilevante quantità di materiale venuto da vie traverse della Todt”. Insieme a lui, anche la moglie, Maddalena Lireque Ferrari, di nazionalità francese, fu segnalata in quanto “coadiuva, segue ed incita il marito, tipico esempio di degenerazione dei caratteri francesi, fascista, opportunista, denigratrice del proprio paese” <141.
Di un altro appaltatore edile operante nel milanese, Aldo Cardani, si comunicò: “Sostenitore fascista e propagandista di prima e dopo il 26 luglio. Tacciava pubblicamente di antitaliani dei semplici antifascisti, provocando noie e richiami polizieschi per questioni seguite da minacce da parte delle autorità politiche fasciste” <142.
Un’ulteriore denuncia riguardò l’Ingegner Guido Piazzoli, titolare della ditta “Fr. Ing. Piazzoli” di Milano. In essa si dichiarò che l’ingegnere, al momento irreperibile, usava mettere a disposizione dei tedeschi le proprie risorse e la propria professionalità eseguendo lavori di fortificazioni, bunker, fori da mine nel tratto stradale Ventimiglia-San Remo, e che in più si vantava della ingente fortuna che queste attività gli avevano procurato <143.
Anche i soldati tedeschi rimasti in territorio italiano dopo il 25 aprile furono oggetto delle denunce dei cittadini.
Nel luglio 1945 l’artista lirico Luigi Stellasi informò il Clnai che Alf Rauch, cittadino tedesco e nazista, circolava in Milano con falsi documenti e suggerì di rivolgersi all’impresario del teatro Carcano per testimonianze circa i suoi trascorsi <144. Negli stessi giorni, venne denunciato anche il Dr. Wilhelm Vogel, proprietario o comproprietario della ditta “Primo aghificio italiano S.A. Lecco-Laorca”.“Il dott. Wielhelm Vogel – si legge nella denuncia – è spia di pace e di guerra, lui e sua moglie Gina Fabbri di Ravenna, ove ha parenti fascisti e già gerarchi e ove avranno forse nascosto denaro e gioielli e altro. Questa canaglia del dott. Vogel, come tutti gli altri tedeschi che sono in Italia e “nessuno li tocca” <145, quanto siamo imbecilli noi Italiani, e sono migliaia che infestano Milano e tutta l’Italia e tutti da fucilare perché tutti quanti complici (spie ladri assassini) coi comandi tedeschi e in futuro proibire per legge la residenza in Italia a tutti i tedeschi, questo spione del dott. Voghel ha diversi indirizzi …” <146.
La spirale delle denunce cominciata alla fine dell’aprile 1945 divenne per qualcuno una ghiotta occasione da sfruttare per disfarsi di elementi sgraditi. Risale al 4 settembre 1945 una lettera firmata dal Cln di Pantigliate in cui si chiede al Clnai di intercedere presso il Comando dell’Arma dei Carabinieri per ottenere la sostituzione del Brigadiere Fogliani, Comandante la Stazione locale dei Carabinieri. Il motivo della richiesta fu la sua “scandalosa condotta”. Egli “gozzoviglia, e da tempo, con tutti i signoretti esponenti dell’ex PFR diminuendo il principio d’autorità e giustizia che dovrebbe essere integro in un Comandante dei CC.RR. […] Inoltre è un uomo che non ha nessuna parola, che girella a seconda dell’opportunità e non gode ne stima né fiducia tanto dalle Autorità quanto dal popolo” <147.
[NOTE]
124 Le denunce a carico dei collaborazionisti non sono raccolte in modo sistematico e unitario ma sparpagliate tra le denunce giunte ai vari commissariati di Polizia e alla Questura di Milano per tutti i tipi di reato. Cfr. ASM, QUESTURA DI MILANO, Casellario permanente di polizia giudiziaria (bb 523), Commissariati di pubblica sicurezza di zona (bb 558), Commissariati di pubblica sicurezza distaccati (bb 33). A queste bisogna poi aggiungere le segnalazioni fatte al Clnai e alle sue varie sezioni provinciali della Lombardia, di cui è reperibile solo una miscellanea nei fondi Cln Alta Italia e Cln città di Milano dell’INSMLI.
125 L’ultimo esposto registrato è quella a carico di Franco Gandini, denunciato il 4 aprile 1946 dal dott. Weinelberger Emanuele, di nazionalità ebraica e suo creditore, per averlo precedentemente segnalato all’ufficio politico del gruppo Oberdan di Milano. ASM, Cas Milano, 10.05.1947, Sez. Terza, Pres. Emanuele Giovanni, vol. 10/1947.
126 ASM, Cas Milano, 06.07.1945, Sez. Prima, Pres. Marantonio Luigi, vol. 1/1945.
127 ASM, Cas Milano, 19.09.1945, Sez. Terza, Pres. Marano Matteo, vol.2/1945.
128 ASM, Cas Milano, 08.08.1945, Sez. Prima, Pres. Mottino Gianbattista, vol.1/1945.
129 Nell’ordine: ASM, Cas Milano, 08.06.1945, Sez. Prima, Pres. Marantonio Luigi; 23.05.1945, Sez. Prima, Pres. Marantonio Luigi; 06.07.1945, Sez. Prima, Pres. Marantonio Luigi; 01.06.1945, Sez. Prima, Pres. Marantonio Luigi ; 13.06.1945, Sez. Seconda, Pres. Modugno Domenico, vol.1/1945.
130 Edgardo Matisek, ad esempio, Commissario per la gestione straordinaria della società per azioni “Philips Radio e Metalix” è denunciato per illeciti affari con gli occupanti dai colleghi di lavoro. ASM, Cas Milano, 09.07.1045, Sez. Prima, Pres. Mottino Gianbattista, vol. 1/1945.
131 De Rossi Maria, casalinga, è accusata di delazione dal coinquilino Enzo Imbriani. ASM, Cas Milano, 03.07.1945, Sez. Seconda, Pres. Gurgo Luigi, vol. 1/1945
132 Mario Nasini, ufficiale dell’esercito poi passato alla milizia volontaria della sicurezza nazionale e al servizio della Rsi, si consegna spontaneamente alla polizia alla fine di aprile mentre Giuseppe Dalla Croce si costituisce al Cln di Cusano Milanino per essere stato capitano della Gnr e aver svolto la funzione di Pubblico Ministero presso il Tribunale Speciale per la difesa dello stato, nella sezione VII con sede in Milano. Nell’ordine: ASM, Cas Milano, 11.06.1945, Sez. Seconda, Pres. Modugno Domenico; 13.07.1945, Sez. Prima, Pres. Mottino Gianbattista, vol. 1/1945.
133 “Quasi quattro mila “politici” nel carcere di San Vittore” e “Spie e aguzzini fascisti tratti in arresto” in Corriere d’informazione, 28 maggio 1945; “Tristi figuri fascisti tratti in arresto”, in Corriere d’informazione, 09 giugno 1945.
134 “Il processo a Rolandi Ricci. Un clamoroso incidente”, in Il Corriere d’informazione, 24 maggio 1945; “Trent’anni ad Attilio Teruzzi e quindici e Rolandi Ricci”, Ibidem, 25 maggio 1945; “L’istruttoria contro Graziani”, Ibidem, 27 maggio 1945; “Buffarini Guidi e Uccelli condannati alla pena capitale”, Ibidem, 29 maggio 1945; “Escandescenze dell’ex gerarca durante l’interrogatorio”, Ibidem, 8 giugno 1945; “Cesare Rossi condannato a quattro anni di reclusione”, Ibidem, 9 giugno 1945.
135 “Le Commissioni di giustizia al lavoro”, in L’Unità, 28 aprile 1945.
136 “Centinaia restano da prendere ancora annidiati nelle case o ricomparsi in strada sotto i travestimenti più impensati. Tenete gli occhi aperti. Segnalateli subito ai Comandi”, in “Un collaborazionista”, Ibidem, 11 maggio 1945.
137 “Bisogna stare in guardia, bisogna impedire che questa gente giunga a infiltrarsi nei partiti antifascisti”, in “Mimetizzazioni”, Ibidem, 12 maggio 1945.
138 “Punire i collaborazionisti”, Ibidem, 30 aprile 1945.
139 “alla pressione delle masse, che diventa sempre più intensa, corrisponde un risveglio, sia pure ancora insufficiente, dell’apparato giudiziario e dell’attività degli organi di polizia”, in “La questione partigiana davanti al Consiglio dei Ministri”, Ibidem, 13 maggio 1945.
140 Il fervore e lo slancio dei cittadini a partecipare alla punizione dei fascisti è testimoniato dalla mole della documentazione reperita. Numerosi sono gli incartamenti conservati all’Archivio dell’Istituto INSMLI di Sesto San Giovanni in cui sono conservate centinaia di denunce e segnalazioni. Cfr. Archivio INSMLI, Fondo Cln Alta Italia, b. 49, fasc. 606, 607, 608, b. 51, fasc. 679, b. 52, fasc. 688, b. 58 fasc. 765, b. 59, fasc. 787 e 789; Fondo Cln città di Milano, b. 3, fasc. 19. Lo stesso dato è messo in luce per l’Emilia Romagna da Mirco Dondi in M. Dondi, La lunga liberazione, p. 41.
141 Archivio INSMLI, Fondo Cln Alta Italia, busta 59, fasc. 787.
142 Ivi
143 Ivi
144 INSMLI, Fondo Clnai, b. 49, fasc. 606.
145 Corsivo suo.
146 INSMLI, Fondo Clnai, b. 49, fasc. 606.
147 INSMLI, Fondo Clnai, b. 59, fasc. 793.
Lucia Reggiori, Collaboratori e collaborazionisti a Salò: i processi per collaborazionismo nelle sentenze della Corte d’assise straordinaria di Milano (1945-1947), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2014

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Corte europea: «Dal 2014, crimini abominevoli della Russia in Ucraina» - metropoli.online

Torture, stupri, esecuzioni e rapimenti: una sentenza storica. «Da nessun altro un tale disprezzo per l’ordinamento giuridico internazionale»

metropoli.online
L'#Onu e numerose ong internazionali hanno denunciato questi episodi come #crimini di #guerra e chiedono una tregua umanitaria immediata per permettere la distribuzione sicura di #cibo, #medicine e #soccorsi alla popolazione palestinese, che vive in condizioni di estremo disagio e assedio.
Perplexity

A Norimberga i crimini di guerra trovarono una loro prima codificazione

Il generale italiano Giovanni Messe in una nota del febbraio 1945 al Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi riguardo al presunto cambiamento d’idea da parte dei rappresentanti alleati sulla consegna dei criminali di guerra italiani a Paesi stranieri sottolineò che tale decisione ritornava a una «applicazione di un noto principio di diritto internazionale universalmente accettato, secondo il quale i reati commessi da componenti di corpi militari di spedizione all’estero rientrano nella giurisdizione dei tribunali dello Stato al quale i corpi stessi appartengono» <536. Rimane il fatto che tutti i Paesi che ebbero la possibilità di portare a giudizio i militari nazifascisti accusati di crimini di guerra utilizzarono il proprio diritto interno. In Germania nelle rispettive zone d’occupazione gli alleati applicarono l’Allied Control Council Law No. 10 Punishment of Persons Guilty of War Crimes, Crimes Against Peace and Crimes Against Humanitt (CCL 10) del 20 dicembre 1945, nel quale venne ripreso sostanzialmente il contenuto dello Statuto di Norimberga <537. In Giappone invece gli Stati Uniti applicarono il proprio diritto interno visto che erano anche l’unica vera potenza occupante <538.
[…] Sperare che un apparato statale strettamente legato non solo al potere politico ma ad una istituzione legata al principio della gerarchia quali sono le forze armate, potesse avere degli efficienti strumenti pratici quali i codici penali militari allora vigenti per reprimere violenze belliche nei confronti di chi ne doveva essere immune e soprattutto essere in grado di non guardasse al ruolo ricoperto dagli accusati e agli eventi bellici stessi della guerra che videro travolgere quei principi di autorità non solo riferibili alle forze armate ma alla sostanza stessa della struttura dello Stato è stata forse una pretesa eccessiva a prescindere da una reazione morale, prima che legale, a quelle violenze nazifasciste che sconvolsero le coscienze di molti europei.
E senza dimenticare l’ulteriore elemento destabilizzante che rafforzò il carattere politico dei processi per i crimini di guerra, ossia il partigiano portatore, come abbiamo visto, di una teoria sfociante nel concetto del politico <544. A questo si sommò la possibilità di imbastire dei processi dove pesava l’incognita di una loro estensione a proposito delle responsabilità da un punto di vista penale ma anche a causa della valutazione di un contesto dove bisognava fare i conti con le peculiarità di una guerra in cui i classici combattenti persero la propria esclusività. La semplice valutazione della responsabilità individuale e quindi penale – di per sé già complicata perché comportante da parte dell’imputato di una presunta analisi dell’ordine superiore in un contesto bellico dove il controllo delle passioni imponeva uno sforzo non comune a cui si sommava la realtà autoritaria tipica di un regime fascista dove il militare si era spesso formato – senza una riflessione sul contesto in cui trovò origine il dolo avrebbe probabilmente limitato la forza delle motivazioni di un’eventuale condanna che per i procedimenti avviati sembrava a molti già allora doverosa. Nel caso contrario invece non era da escludere il sorgere di seri ostacoli a una condanna netta dei comportamenti incriminati. La sentenza Kappler e soprattutto quella Reder per molti aspetti più innovativa, paiono darne una chiara conferma.
I crimini di guerra nazifascisti con tutte le loro implicazioni scossero alle radici il diritto bellico europeo che rientrava integralmente in quello che Schmitt definì lo Jus Publicum Europaeum fondato sul sistema degli Stati sovrani che, in quanto tali, non potevano produrre nessuna formulazione giuridica a una resistenza nei loro confronti. Lo Statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga ha significato anche la ricerca di sopperire alla mancanza della legge codificata e consuetudinaria di una impostazione del diritto di resistenza visto che «per esso non c’era assolutamente posto nello spazio dominato dall’irresistibile grande macchina» <545 quale sembrava lo Stato.
Ed anche se le limitazioni alla conduzione della guerra, sorte con notevole fatica a partire dal diciannovesimo secolo, vennero violate sia dalle truppe nazifasciste che da quelle alleate, nella mente degli apparati statali e degli stessi politici furono sempre presenti i contrappesi a tali limiti, identificabili nella necessità bellica e nell’obbedienza. Questi possono aver facilmente offuscato il quadro generale e normativo che risultò assai contradditorio e forse troppo interpretabile.
E forse anche per questo Norimberga, indipendentemente dalle motivazioni di opportunità politica che la generarono, fu un atto che mirò a creare un diritto penale internazionale. La seconda guerra mondiale aveva messo davanti agli occhi distruzioni materiali e umane che difficilmente potevano essere metabolizzate al pari delle distruzioni delle guerre che la precedettero. Un’occupazione segnata da rappresaglie, deportazioni e massacri di gruppi etnici e culturali ritenuti degni solo della morte sommata a una conduzione dei combattimenti con un potenziale distruttivo mai visto prima e che ridussero le vecchie limitazioni dello jus in bello a carta straccia spinsero gli alleati e in particolare gli Stati Uniti ad affrontare le responsabilità morali derivanti dal ruolo di vincitori e quindi di regolatori del nuovo ordine mondiale.
A Norimberga i crimini di guerra trovarono una loro prima codificazione insieme a una nuova fattispecie giuridica quali i crimini contro l’umanità che meglio di qualsiasi altra dicitura fino ad allora elaborata chiarivano, o almeno si avvicinavano, a dare una parvenza penale e positiva a una parte di quel “diritto umanitario” a cui si riferivano alcuni giuristi.
Norimberga dimostrò che per sanzionare penalmente tali eventi non erano sufficienti gli strumenti legali del tempo. La dimensione e per certi versi la novità dei fatti del 1939-1945 dovevano essere affrontati dai giudici militari con armi forgiate per le guerre dell’Ottocento o tutto al più con gli aggiornamenti dei primi decenni del Novecento.
[NOTE]
536 Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco, op. cit., p. 153.
537 Vedi, The Avalon Project. Documents in Law, History and Diplomacy, Yale Law School, consultabile su internet.
538 M. Cherif Bassiouni, Crimes against humanity in International Criminal Law, Kluwer Law International, Hague 1992, p. 34.
544 Carl Schmitt, Teoria del partigiano, op. cit., p. 132.
545 Carl Schmitt, Sul Leviatano, op. cit., p. 82.
Marco Conti, Il Diritto in azione. Profili giuridici e problemi storici dei processi per i crimini di guerra nazisti nell’Italia del 1943-1945, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2008-2009

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