Fermezza o trattative con le Brigate Rosse nel 1981

Ma non è certo solo il caso Gioia, o, più in generale, un diverso approccio verso il ruolo della commissione inquirente, a dividere il Psi dal Pci. Gli ultimi mesi del 1980 infatti fanno riaprire vecchie ferite che risalgono a oltre due anni prima, ai giorni del rapimento di Aldo Moro e che ancora non si sono rimarginate. Nel mese di ottobre Berlinguer si reca a deporre presso la commissione parlamentare sul caso Moro ed esprime opinioni critiche nei confronti della condotta del Psi, che aveva rotto il “fronte della fermezza” con il suo tentativo umanitario; l’Avanti definisce «sconcertante» la deposizione del segretario comunista <220. A novembre è il turno di Craxi di deporre in commissione ed il leader del Psi parla dei contatti attivati con gli esponenti di Autonomia e, pochi giorni dopo, rilascia un’intervista all’Europeo sull’argomento. Ma il momento di maggior tensione arriva alla fine del mese quando i quattro commissari del Psi, dopo una riunione con Craxi, abbandonano polemicamente la commissione. In un comunicato si spiega la condotta dei socialisti con non meglio precisate «strumentalizzazioni e violazioni di legge» nei lavori della commissione e con la divulgazione intenzionale di documenti e, soprattutto, la «tendenza a trasferire l’obiettivo dell’inchiesta, trasformando i lavori della commissione in un vero e proprio processo politico diretto contro una tesi, una condotta e una forma politica» <221. A generare le ire del Psi sembra essere stata soprattutto la richiesta da parte della procura di una copia delle deposizioni di Craxi, Landolfi, Signorile e Guiso; ire acuite quando sia la Dc che il Pci (che insieme dispongono della maggioranza dei voti) si dimostrano intenzionati ad accogliere la richiesta dei magistrati <222.
I giorni del rapimento di Aldo Moro ritornano prepotentemente alla memoria di tutti quando, nel mese di dicembre, si verifica una nuova emergenza che ripropone il dilemma tra “fermezza” e “trattativa”. Il giorno 12 del mese viene rapito il magistrato Giovanni D’Urso, presidente di sezione della Cassazione e distaccato presso il ministero di Grazia e giustizia con responsabilità sul trasferimento di detenuti. L’azione è subito rivendicata dalle Br, che chiedono per la liberazione che venga chiuso il carcere dell’Asinara in Sardegna. Questa volta, a differenza di quanto era avvenuto nel 1978, lo schieramento tra fautori della fermezza e disponibili alla “trattativa” si definisce molto rapidamente.
Nel governo i socialisti sostengono che la chiusura del carcere non costituisce una violazione di legge <223 e la si può concedere per salvare una vita umana, mentre la maggior parte dei democristiani ed i repubblicani affermano che, sebbene non rappresenti un’illegalità, la chiusura dell’Asinara significa piegarsi al ricatto, e con ciò dare legittimità ai terroristi. I magistrati in generale dimostrano grande solidarietà nei confronti di D’Urso e, coloro che manifestano un’opinione, sebbene nessuno ovviamente proponga di violare la legge, sono a favore di prendere «tutte le misure possibili» per salvare il giudice rapito <224. Il 25 dicembre Craxi rilascia una dichiarazione nella quale dice che il carcere sardo deve essere chiuso subito; si tratta di quello che Gaetano Scamarcio definisce il «blitz di Natale» <225. Due giorni dopo la vecchia prigione viene effettivamente sgombrata <226, ma il 28 vi è una rivolta nel carcere di Trani organizzata dai terroristi, che prendono in ostaggio diversi agenti di custodia. Questa volta la reazione del governo è di notevole determinazione: il giorno seguente le installazioni di Trani vengono prese d’assalto dalle unità speciali dei Carabinieri, che salvano gli agenti sequestrati e ristabiliscono l’ordine senza vittime.
La posizione del Pci è, dall’inizio, critica di ogni linea d’azione che implichi segni di arrendevolezza nei confronti dei terroristi; dopo la chiusura del carcere sardo, nel commentare le esternazioni di Pertini, il quale si dimostra decisamente contrario a trattative, un editoriale dell’Unità afferma che “…è impensabile che chi governa questo paese sia così sprovveduto […] da non capire quello che anche il più ingenuo degli italiani ha capito subito: che l’Asinara era un pretesto, che cedere su quel pretesto significava esporsi a pagare poi, e forse subito, prezzi e rischi sempre più alti, che nessuna proclamazione di “autonomia” nell’atto di cedimento avrebbe liberato il governo dal sospetto di aver accettato il terreno della contrattazione coi terroristi…” <227
Il 31 dicembre viene assassinato a Roma il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, responsabile della sicurezza esterna delle carceri e quattro giorni dopo le Br diramano un comunicato in cui dichiarano che D’Urso è stato condannato a morte, ma che lasceranno ai compagni detenuti una valutazione definitiva. In favore della trattativa ci sono, oltre al partito Radicale, i cui deputati vanno nelle carceri a parlare con i terroristi, i vertici dell’Anm e, si direbbe, la maggior parte dei magistrati. Tra di essi però non mancano segnali in senso contrario, ad esempio il discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario del Pg di Roma Pascalino, che invita alla fermezza <228; oppure, qualche giorno dopo, la decisione dei magistrati della sezione civile della pretura, che rigettano l’istanza del fratello del giudice rapito con la quale si chiede di ordinare ai giornali la pubblicazione dei documenti Br per uno «stato di necessità» <229; ma quando Curcio accenna alla liberazione del brigatista Gianfranco Faina, la Corte d’Appello di Firenze ne ordina subito la libertà provvisoria, attirandosi le critiche del Pci <230.
I socialisti, mentre Craxi si trova in Africa in vacanza, tengono una direzione e sembrano orientati ad evitare contatti con i brigatisti in carcere <231; poco dopo, l’8 gennaio, i terroristi detenuti a Trani affermano che daranno il loro benestare alla grazia se giornali e Tv divulgheranno documenti preparati dai brigatisti <232. Mentre diversi giornali proclamano quello che verrà definito il “black-out”, per non favorire il disegno dei terroristi, i magistrati si fanno ancora promotori di una linea meno intransigente e l’Anm promuove un incontro con la federazione della stampa per trattare l’argomento; il segretario dell’associazione, l’esponente di Magistratura democratica Senese, spiega che «la nostra posizione è che nel rispetto della legalità si debba fare tutto per salvare il collega […] La cosa peggiore che si possa fare in questo momento è trasformare il dibattito sulle decisioni da prendere in una discussione teologica sui massimi sistemi» <233.
Intanto Craxi rientra dalle vacanze e impone la linea al partito sconfessando la direzione precedente: il Psi appoggerà la campagna radicale per la pubblicazione. Ad essa aderiscono Lotta Continua, il Manifesto, L’Avanti e, in un secondo momento anche il Secolo XIX ed il Messaggero. Il 14 gennaio l’Avanti ospita una lettera dello stesso D’Urso che, dalla prigionia, chiede la pubblicazione dei documenti; il giorno seguente il magistrato viene liberato.
Dopo il rilascio il Presidente del consiglio si reca immediatamente alla Camera per fare una relazione sull’accaduto ma nel suo discorso, ben accolto da Psi, Psdi e radicali, si sforza di non accusare nessuno e non prendere parte nel dibattito tra fermezza e trattativa. I repubblicani appaiono critici <234, ma lo stesso può dirsi di importanti settori della Dc. Il Popolo cita una dichiarazione di Piccoli in cui spiega che «l’atteggiamento di fermezza è stato determinante per la tenuta contro il ricatto delle Br» e poi, illustrando la posizione dei partiti, spiega che “Il Psi ha esposto la propria posizione «in autonomia»” ricordando la polemica di Balzamo contro il Pci, accusato di «farneticare su un presunto partito del cedimento che non è mai esistito» <235. Ma qualche tempo dopo Piccoli apparirà molto più deciso; in occasione del congresso del suo partito, nei primi giorni di maggio 1982, circa la richiesta di
pubblicare documenti ricorderà che “…affermavo: siamo dinnanzi al più grave ed inaccettabile dei ricatti […] furono molti i giornali, anche di partito, che ritennero di accedere alle richieste delle Br […] Mi limito ad osservare che accedere a quella richiesta consentì alle Br di conseguire un obiettivo essenziale della loro strategia di intossicazione psicologica […] Ciò che avrebbe dovuto suggerire maggior cautela a esponenti socialisti nell’affrontare alcune delle questioni poste dalla liberazione di Ciro Cirillo…” <236
Nel caso D’Urso quindi si riprende il gioco delle parti già sperimentato quasi tre anni prima, ma con qualche differenza: a questo punto l’opinione pubblica sembra essersi assuefatta, in qualche misura, alla tesi circa le possibilità che lo Stato si impegni in qualche tipo di “trattativa” con i terroristi. Di conseguenza l’azione del Psi, accompagnata da quella dei radicali, è assai più decisa ed incisiva. L’altra differenza è che questa volta a sostenere il governo in Parlamento non ci sono più i comunisti, e quindi i democristiani si ritrovano soli ad osservare il movimentismo degli alleati socialisti e lo fanno non senza malumori e risentimento.
[NOTE]
220 “Sconcertante deposizione di Berlinguer su Moro”, Avanti del 11 ottobre 80
221 “Si sono dimessi i commissari Psi”, Avanti del 29 novembre 80
222 “Commissione Moro”, La Stampa del 28 novembre 80
223 Inoltre la dismissione dell’Asinara era già prevista e al momento del sequestro vi rimanevano solo 25 detenuti.
224 Vedi ad esempio “I magistrati contrari a scelte aprioristiche per Giovanni D Urso”, Avanti del 19 dicembre 80, o “I magistrati favorevoli a chiudere l’Asinara”, Avanti del 31 dicembre 1980, contenente un’intervista a Beria d’Argentine; vedi anche P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 Cit. pag. 858
225 Dichiarazione citata in G. Fiori, Berlinguer Cit. Pag. 412
226 Secondo Fiori, in questa maniera, la chiusura è «data non alle Br per salvare una vita umana, ma a Craxi per salvare il governo», Ibid. Pag. 413
227 “Salvare un governo o la democrazia?”, Unità del 30 dicembre 80
228 “E’ escluso che lo stato possa cedere al terrorismo”, Popolo del 10 gennaio 81
229 “Giornali (con poche eccezioni) prevale la linea della fermezza”, Popolo del 13 gennaio 81
230 “Traspare una torbida trattativa con le BR”, Unità del 9 gennaio 81
231 G. Fiori, Berlinguer. Cit. Pag. 415
232 “33 giorni di prigionia”, La Stampa del 15 gennaio 1981.
233 “Iniziativa dei giudici verso stampa e partiti”, Avanti del 7 gennaio 81
234 “Le BR annunciano: liberiamo d’Urso”, Unità del 15 gennaio 81
235 “La maggioranza unita nella lotta al terrorismo”, Popolo del 15 gennaio 81
236 “Relazione di Piccoli al congresso”, Popolo del 3 maggio 82
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013

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La mappa del potere locale cambia radicalmente nel 1975

Nella primavera del 1975 però è la procura di Milano che comincia a lavorare sugli appoggi politici a Sindona, in particolare su un finanziamento di due miliardi fatto alla Dc (secondo alcuni in cambio della nomina di Mario Barone a consigliere di amministrazione del Banco di Roma, circostanza confermata anche da Aldo Moro nel “memoriale” scritto durante il sequestro operato dalle Br nel 1978), su cui i magistrati intendono sentire l’On. Micheli, responsabile amministrativo del partito, che però si dice disponibile solo dopo le elezioni amministrative di giugno. Successivamente però Micheli non chiarirà l’origine dei due miliardi che la Dc non può negare di aver ricevuto, mentre i magistrati milanesi inviano una comunicazione giudiziaria anche a Carli, governatore della Banca d’Italia, per l’autorizzazione data al salvataggio (rivelatosi poi inutile) della Banca Privata.
La procura di Milano fin dal gennaio 1975 aveva inviato la richiesta di estradizione di Sindona al ministero di Grazia e giustizia per l’inoltro negli Usa (dove il bancarottiere era stato intanto tratto in arresto per il fallimento della banca USA Frankin, acquistata da Sindona pochi anni prima) ma, nel meccanismi della burocrazia qualcosa si era inceppato e la domanda non aveva ottenuto esiti. Secondo la denuncia dei comunisti si era trattato di una mossa deliberata per aiutare Sindona; inoltre si era prospettata anche la possibilità che emissari della Dc avessero contattato il finanziere per indurlo a dichiarare di aver ricevuto la restituzione dei due miliardi <211. In seguito, nel febbraio 1976, Giovanni Guidi, amministratore del Banco di Roma, affermerà ai magistrati di Milano che erano stati Fanfani e Andreotti a propiziare il finanziamento di 100 milioni di dollari da parte del Banco di Roma a Sindona <212, imponendo Mario Barone come consigliere e amministratore delegato della banca. Guidi spiegherà anche che il prestito era stato deciso in autonomia dalla banca e che Carli era stato informato solo dopo, a luglio.
Nel seguire tutte le vicende l’Avanti non usa particolari cautele nei confronti dell’alleato di governo. Già nell’ottobre del 1974 aveva parlato, sebbene in termini generali, “delle compiacenze di cui ha goduto” Sindona <213; ma fra maggio e giugno del 75, con l’avvicinarsi delle amministrative, e quando il ruolo di esponenti della Dc appare pienamente documentato, un paio di articoli di Ugo Intini segnano un affondo del Psi <214. Afferma Intini che «La particolare caratteristica del crimine nel nostro Paese trova le sue radici […] nella corruzione del potere», inoltre il giornale attacca la politica di law & order promossa da Fanfani e dalla Dc, affermando che in realtà il pericolo per la legalità viene dal legame tra criminali e potere e cita ad esempio il caso Sindona. La Dc sui propri giornali quasi non si occupa della questione, in alcune delle poche circostanze in cui lo fa sostiene che l’operazione del Banco di Roma, tutto sommato è stata vantaggiosa e comunque era stata autorizzata dalla Banca d’Italia <215; molto simili nei loro contenuti le dichiarazioni del ministro del Tesoro Colombo su La Discussione <216.
La definizione di “terremoto” <217 elettorale per le amministrative del giugno 1975, in un paese in cui lo spostamento di consensi da un partito all’altro è sempre stato piuttosto ridotto, sembra decisamente azzeccata. La Dc perde due punti e mezzo rispetto alla tornata del 1970, i socialisti guadagnano quasi due punti. Ma è soprattutto l’affermazione del Pci, il quale passa dal 27,9% al 33,5 e si trova quindi a meno di due punti dai democristiani, che crea sensazione. La mappa del potere locale cambia radicalmente, comincia la stagione delle “giunte rosse” che, per alcuni, potrebbero costituire un anticipo dell’affermarsi dell’”alternativa” anche al livello del governo centrale. Eppure i comunisti sono coerenti nel portare avanti la strategia del “compromesso”, che la grande affermazione contribuisce semmai a confermare. Tra i socialisti, nonostante l’incremento di voti, traspare una certa delusione perché l’altro partito della sinistra ha guadagnato ben di più, un dirigente socialista fa notare che «noi abbiamo scosso l’albero ma i comunisti hanno raccolto i frutti» <218; l’adesione al governo, è la riflessione di molti, penalizza il partito. In occasione del comitato centrale che ha luogo a luglio <219 comincia un periodo di riflessione che dura fino al CC successivo, nel mese di ottobre; in questa fase «si consuma la completa conversione del gruppo dirigente di quel partito alla linea dell’alternativa» <220, cambiamento di rotta poi formalizzato in occasione del congresso del marzo 1976.
Ma chi subisce il travaglio più significativo all’indomani delle elezioni di giugno 1975 sono i democristiani i quali, per usare le parole di Moro, si rendono conto che il destino «non è più, in parte, nelle [loro] mani» <221. Fanfani, nonostante la sua strenua resistenza, perde la segreteria e dopo alcune convulsioni da parte delle correnti prevale la soluzione patrocinata con grande abilità tattica dal presidente del consiglio: il nuovo leader diviene Benigno Zaccagnini, almeno in via provvisoria, in attesa del congresso previsto per il 1976 <222. La sua figura <223 diverrà il simbolo del rinnovamento del partito e del tentativo di liberare dalla sua immagine l’associazione con una serie di episodi torbidi contrassegnati da corruzione, collusione con la criminalità organizzata e, secondo molti, anche con le vicende eversive in funzione anticomunista. Anche le strategie del partito per quanto riguarda le alleanze subiscono cambiamenti; quando Aldo Moro tiene il suo noto discorso in occasione della Fiera del Levante a Bari, a settembre, diviene chiaro che la Dc sta mutando atteggiamento nei confronti dei comunisti: «nessuno può disconoscere la forza e il peso del Pci nella vita del Paese. Nessuno può oggi sottrarsi ad un confronto serio, non superficiale né formale con la massima forza di opposizione…» <224
Tuttavia il nuovo corso della Dc è ben lungi dall’essere accettato da tutte le sue componenti e le abilità di mediazione di Moro non impediscono alla nuova segreteria di essere oggetto di attacchi, soprattutto da parte dei dorotei <225.
Ma le tensioni non si limitano al partito di maggioranza relativa: anche nell’ambito delle forze che sostengono il governo Moro il malcontento viene espresso in maniera sempre più esplicita, in particolare dai socialisti che alla fine dell’anno giungono a provocare la crisi, quando il loro segretario dichiara la «morte» del centrosinistra e reclama un governo che coinvolga in qualche modo i comunisti. Ma una simile mossa non viene raccolta dalla Dc e i socialisti non riescono ad ottenere un epilogo a loro favorevole. Moro può quindi costituire il suo ultimo governo, al quale questa volta partecipa il Psdi al posto del Pri, che pure assicura, come i socialisti, il sostegno parlamentare.
[NOTE]
211 “Sindona doveva asserire che la Dc gli aveva restituito i due miliardi” Unità del 13 settembre 1975
212 “Il banchiere Guidi chiama in causa la Dc e Fanfani per il crack Sindona”, Unità del 20 febbraio 1976.
213 “Nel sistema le radici del caso Sindona”, Avanti del 10 ottobre 1974.
214 “Crimine, mafia, banche e politica”, Avanti del 09 maggio 1975, e “Il volto inquietante del potere” Avanti del 12 giugno 1975.
215 “Piena luce sul caso Sindona”, Il Popolo del 12 ottobre 1974.
216 “Colombo sul caso Sindona”, La Discussione N. 1044 del 11 novembre 1974.
217 L’espressione viene introdotta nel dibattito pubblico per indicare gli esiti delle elezioni amministrative del 1975 da C. Ghini, Il terremoto del 15 giugno, Feltrinelli, Milano, 1976.
218 G. Galli, Ma l’Italia non cambia, Studio Tesi, Pordenone, 1978. Pag. 146
219 Vedi l’Avanti del 29/07/75, “Una via democratica per rinnovare il Paese”, nella sua relazione al partito De Martino afferma chiaramente che è necessario “superare il centrosinistra”
220 G. Amato e L. Cafagna, Duello a sinistra. Cit. pag. 106
221 La nota frase viene pronunciata in occasione del discorso detto “della terza fase”, in occasione del Consiglio nazionale del luglio 1975.
222 G. Galli, Mezzo secolo di Dc. Cit. Pag.285.
223 Zaccagnini aveva sorpreso non pochi osservatori quando, alcuni mesi prima, nel corso di un’intervista, (apparsa su Panorama del 26 settembre 1974) aveva espresso l’opinione che il partito doveva rinnovarsi profondamente e abbandonare la ricerca del potere ad ogni costo, ricerca che era divenuta l’«elemento primario».
224 Passaggi del discorso sono riportati su l’Avanti del 13/09/75, “Bilancio di Moro sulla situazione politica”.
225 Vedere “Situazione pesante all’interno della Dc”, l’Avanti del 09 ottobre 1975 e “Piccoli attacca la segreteria e rilancia la centralità”, Avanti del 09 novembre 1975
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013

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Intanto nel 1958 il Parlamento approva la legge per l’introduzione del Consiglio superiore della magistratura

Verso la fine del decennio, d’altra parte, la vita associativa comincia a fare emergere anche divisioni in seno all’associazione tra le giovani leve ed i gradi più alti, divisioni legate essenzialmente al problema dell’indipendenza interna e, in particolare, alla richiesta di abolizione dei concorsi previsti per i passaggi di categoria dei giudici che comportano un certo livello di controllo dell’intero corpo da parte dei cassazionisti. Tale frattura emerge in maniera netta nel corso del congresso dell’Associazione del 1957 a Napoli, durante il quale viene votata una mozione che si richiama, appunto, all’abolizione delle carriere. La reazione dei magistrati di cassazione è decisa e la scissione è inevitabile: gli alti gradi della magistratura costituiscono, nel 1960, l’Unione delle corti, poi ribattezzata Unione magistrati italiani (1961), che condurrà una propria esistenza completamente separata dall’Anm ed anzi spesso in contrasto con essa, fino alla fine degli anni Settanta.
Intanto nel 1958 il Parlamento approva la legge per l’introduzione del Consiglio superiore della magistratura; si tratta però di una legge che scontenta molti magistrati (nel congresso di Napoli già ricordato il disegno di legge presentato dal guardasigilli Aldo Moro era stato abbondantemente criticato) e giuristi a causa del grado, considerato non sufficiente, di indipendenza che assicura ai giudici nei confronti del potere politico. Secondo la legge del 1958 infatti il ministro mantiene il potere di iniziativa per quanto riguarda l’assegnazione dei magistrati, la loro promozione e, in generale il loro status. Altro aspetto della legge profondamente criticato è la rappresentatività della composizione del Csm: in base alla legge elettorale vengono sovra-rappresentati i magistrati di Corte d’appello e, ancor di più quelli di Cassazione, che in sostanza hanno la possibilità di dominare il Consiglio <27. Anche Maranini si esprime negativamente, affermando che la legge è ben lontana dal garantire l’indipendenza dell’ordine giudiziario prevista dalla Costituzione <28.
Al conflitto interno alla magistratura tra “innovatori” e “tradizionalisti” non sono estranei anche alcuni politici. Nel giugno del 1959, poco prima di un nuovo congresso dell’Anm, previsto per ottobre a Sanremo, vi è una presa di posizione da parte dell’on. Rocchetti, democristiano, futuro vicepresidente del Csm e membro della Corte costituzionale; questi in Parlamento critica il sistema elettorale interno dell’Anm, nell’ambito della quale stanno emergendo posizioni di rottura rispetto alla tradizione, denunciando il sistema delle deleghe e affermando la necessità di regole interne <29.
Con la scissione da parte dei cassazionisti, gli equilibri interni dell’associazione dei magistrati divengono più favorevoli agli “innovatori” e ciò comporta una maggior pressione nei confronti del Parlamento e dei partiti verso una riforma dei sistemi interni di promozione. Un primo importante successo arriva nel 1963, quando viene promulgata una legge che introduce i “ruoli aperti” (ma si tratta in realtà di un compromesso in cui l’Anm sacrifica parte delle proprie rivendicazioni), ovvero le promozioni in soprannumero rispetto ai posti disponibili e abolisce i detestati concorsi per titoli (uno degli strumenti di controllo da parte degli alti gradi in passato). La strada non è però tutta in
discesa: già l’anno successivo infatti Giallombardo su “La Magistratura”, organo dell’Anm, condanna l’operato del Csm, sostenendo che le commissioni per gli scrutini dei magistrati stanno, nella pratica concreta, annullando gli effetti della legge <30. Ma il 1963 è un anno importante anche per la trasformazione dell’organo di autogoverno: una sentenza della Corte costituzionale dichiara illegittima la legge istitutiva del 1958 nella parte che richiede l’iniziativa del ministro guardasigilli per la maggior parte degli atti più significativi del Consiglio, ritenendola lesiva dell’indipendenza della magistratura.
Il 1964 è un anno decisivo per l’associazionismo dei magistrati: l’assemblea dell’Anm decide di adottare il sistema proporzionale per l’elezione del direttivo; la conseguenza probabilmente più importante è lo sviluppo dei gruppi di riferimento interni, presto battezzati “correnti” dalla stampa, che presentano le loro liste e, grazie ai risultati elettorali, consentono di identificare con una certa precisione le tendenze ideologiche ed il rispettivo peso, fra i magistrati italiani. Si delineano tre grandi schieramenti: uno di maggioranza raccolto intorno alla rivista “Terzo potere”, che darà il nome alla corrente, dotato di un programma definito da alcuni “corporativo” e certamente molto attento alle problematiche più tipicamente sindacali; al tempo stesso la corrente stava dando un grande contributo all’innovazione dell’ordinamento e disponeva di un leader come Salvatore Giallombardo, un punto di riferimento di molti giudici italiani e futuro animatore del congresso dell’Anm di Gardone l’anno successivo. Alla destra dello schieramento vi è Magistratura indipendente <31, che mette al centro del proprio programma il principio dell’apoliticità del giudice, la riforma delle carriere in materia di retribuzione e l’autogoverno della magistratura anche sotto il profilo economico. La base culturale di Magistratura indipendente appare molto simile a quella tradizionalista dell’Unione magistrati italiani ed in effetti ciò che realmente distanzia le due associazioni è la rappresentanza dei magistrati di tribunale e di appello, a cui la seconda non provvede. Gli aderenti a “Mi” dimostrano una scarsa propensione alla partecipazione ed una notevole riluttanza a rilasciare deleghe in occasione delle votazioni <32. Infine vi è Magistratura democratica, fondata a Bologna nel mese di luglio. Nella corrente convivono, almeno fino alla scissione del 1969, elementi ricollegabili alla tradizione liberale, a quella cattolica (ne fa parte, ad esempio, Carlo Moro, fratello del Presidente del consiglio) a quella radicale e a quella marxista; i suoi aderenti mettono al centro la questione del rinnovamento di quella parte dell’ordinamento di origine liberale o fascista e la necessità che il giudice eserciti la giurisdizione utilizzando un’interpretazione della legge ispirata ai principi della Costituzione. Fondamentale nel bagaglio culturale di Magistratura democratica nella fase iniziale anche il controllo della giurisdizione da parte dell’opinione pubblica e, in generale, l’abbandono di quella “separatezza” tra giudice e società che, in qualche modo, costituisce un retaggio culturale ancora assai vivo nella categoria <33. Per molti militanti di Magistratura democratica, in particolare nel periodo compreso tra il 1964 ed il 1977, l’adeguamento del giudice alla società moderna si spinge ben oltre il mero superamento del positivismo giuridico, fino a teorizzare la “giurisprudenza alternativa”, che avrebbe dovuto essere, in primo luogo, uno strumento per affermare scelte che sottolineassero la prevalenza degli interessi delle classi subalterne e per la transizione al socialismo, sfruttando tutte le possibilità offerte dall’ordinamento <34.
Secondo Giorgio Freddi è in questo periodo che, in generale, si sovrappongono alle tradizionali istanze tipicamente corporative della magistratura, anche «controvalori universalistici, i quali si pongono in alternativa ai valori tradizionali. Avviene che emerge una nuova leadership associativa, la quale, diversamente dalla precedente è consapevole da un canto che se si vogliono portare avanti con successo le istanze sindacali occorre uscire dal chiuso dell’ordine giudiziario e articolare quelle istanze in modo da renderle comprensibili e politicamente rilevanti…» <35. La competizione fra le correnti diviene immediatamente molto accesa <36; nel corso delle elezioni per il Comitato Direttivo Centrale dell’Anm del dicembre 1964 appare un libello dal titolo “Compagno giudice”, attribuito ad aderenti a Magistratura indipendente, che attacca, da destra, con espressioni anche pesanti, le altre due correnti, ritenute eccessivamente “rivoluzionarie”. In quella circostanza “Terzo potere” si afferma come gruppo associativo maggioritario con il 41 per cento dei consensi, seguito da Magistratura Indipendente, con il 33 per cento e da Magistratura Democratica con il 19 (altre liste minori conseguono l’8 per cento in totale) <37.
[NOTE]
27 Secondo la legge del 1958, dei 14 membri “togati” (7 erano invece quelli eletti dal Parlamento secondo il dettato costituzionale) 6 dovevano essere di cassazione, 4 di appello e 4 di tribunale. A questi si devono aggiungere 2 membri di diritto, anch’essi magistrati di Cassazione.
28 G. Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Vallecchi, Firenze, 1968. Pag. 458
29 Vedi R. Canosa e P. Federico, La magistratura in Italia. Cit, Pag. 235. Secondo gli autori ciò segna l’inizio di uno stretto collateralismo tra settori della Dc e gli alti gradi della magistratura poi rappresentati dall’Umi.
30 Ibid. Pag 273
31 Non tutti coloro che aderiscono a questa corrente però accettano completamente questa collocazione: «Dire come fa Romano Canosa che Magistratura indipendente è la corrente di destra, è una verità parziale. E’ vero se la si distingue da Magistratura democratica (sinistra) e da Unità per la costituzione (centro-sinistra). Non è vero se la qualificazione è intesa in senso assoluto. In magistratura esiste una sinistra giudiziaria. Non esiste una destra giudiziaria. La ragione fondamentale di quest’assenza sta nel fatto che, nella visione dello stato di un uomo di destra (non del centro-destra liberal) la giurisdizione è funzione neutrale, con la conseguenza che i magistrati orientati a destra rifiutano di collocarsi in una delle classificazioni politiche usuali» in R. Ricciotti, Sotto quelle toghe. Le radici delle correnti nella magistratura, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme, 2007. Pag. 44
32 Vedi R. Canosa e P. Federico, La magistratura in Italia. Cit, Pag.279
33 Vedere L. Ferrajoli, “Per una storia delle idee di Magistratura Democratica”, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia: la magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Franco Angeli, Milano, 1994.
34 V. Zagrebelsky, “La magistratura ordinaria dalla costituzione ad oggi”. Cit. Pag. 773
35 Giorgio Freddi, “La magistratura come organizzazione burocratica”, in Politica del diritto, del 1972.
36 Per rendere l’idea di quanto le proposte dei settori progressisti, in particolare di Magistratura democratica, fossero considerate eversive si consideri il seguente passaggio scritto da un giudice moderato che, dopo aver ricordato le dottrine nazionalsocialista e sovietica del diritto, afferma che «Il terzo momento di crisi del diritto in Europa ha origine nel 1964 con la pubblicazione del programma di Magistratura democratica. Un gruppo di magistrati culturalmente dotati e politicamente determinati si fece sostenitore della giurisdizione come funzione di indirizzo politico», R. Ricciotti, Sotto quelle toghe. Le radici delle correnti nella magistratura, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme, 2007. Pag. 50.
37 Le cifre sono tratte da C. Guarnieri, Magistratura e politica in Italia. Pesi senza contrappesi, Il Mulino, Bologna, 1992. Pag. 101.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013

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Nel marzo del 1974 la Franklin dà le prime avvisaglie di crisi

Nella primavera del 1975 però è la procura di Milano che comincia a lavorare sugli appoggi politici a Sindona, in particolare su un finanziamento di due miliardi fatto alla Dc (secondo alcuni in cambio della nomina di Mario Barone a consigliere di amministrazione del Banco di Roma, circostanza confermata anche da Aldo Moro nel “memoriale” scritto durante il sequestro operato dalle Br nel 1978), su cui i magistrati intendono sentire l’On. Micheli, responsabile amministrativo del partito, che però si dice disponibile solo dopo le elezioni amministrative di giugno. Successivamente però Micheli non chiarirà l’origine dei due miliardi che la Dc non può negare di aver ricevuto, mentre i magistrati milanesi inviano una comunicazione giudiziaria anche a Carli, governatore della Banca d’Italia, per l’autorizzazione data al salvataggio (rivelatosi poi inutile) della Banca Privata.
La procura di Milano fin dal gennaio 1975 aveva inviato la richiesta di estradizione di Sindona al ministero di Grazia e giustizia per l’inoltro negli Usa (dove il bancarottiere era stato intanto tratto in arresto per il fallimento della banca USA Frankin, acquistata da Sindona pochi anni prima) ma, nel meccanismi della burocrazia qualcosa si era inceppato e la domanda non aveva ottenuto esiti. Secondo la denuncia dei comunisti si era trattato di una mossa deliberata per aiutare Sindona; inoltre si era prospettata anche la possibilità che emissari della Dc avessero contattato il finanziere per indurlo a dichiarare di aver ricevuto la restituzione dei due miliardi <211. In seguito, nel febbraio 1976, Giovanni Guidi, amministratore del Banco di Roma, affermerà ai magistrati di Milano che erano stati Fanfani e Andreotti a propiziare il finanziamento di 100 milioni di dollari da parte del Banco di Roma a Sindona <212, imponendo Mario Barone come consigliere e amministratore delegato della banca. Guidi spiegherà anche che il prestito era stato deciso in autonomia dalla banca e che Carli era stato informato solo dopo, a luglio.
Nel seguire tutte le vicende l’Avanti non usa particolari cautele nei confronti dell’alleato di governo. Già nell’ottobre del 1974 aveva parlato, sebbene in termini generali, “delle compiacenze di cui ha goduto” Sindona <213; ma fra maggio e giugno del 75, con l’avvicinarsi delle amministrative, e quando il ruolo di esponenti della Dc appare pienamente documentato, un paio di articoli di Ugo Intini segnano un affondo del Psi <214. Afferma Intini che «La particolare caratteristica del crimine nel nostro Paese trova le sue radici […] nella corruzione del potere», inoltre il giornale attacca la politica di law & order promossa da Fanfani e dalla Dc, affermando che in realtà il pericolo per la legalità viene dal legame tra criminali e potere e cita ad esempio il caso Sindona. La Dc sui propri giornali quasi non si occupa della questione, in alcune delle poche circostanze in cui lo fa sostiene che l’operazione del Banco di Roma, tutto sommato è stata vantaggiosa e comunque era stata autorizzata dalla Banca d’Italia <215; molto simili nei loro contenuti le dichiarazioni del ministro del Tesoro Colombo su La Discussione <216.
[NOTE]
211 “Sindona doveva asserire che la Dc gli aveva restituito i due miliardi” Unità del 13 settembre 1975
212 “Il banchiere Guidi chiama in causa la Dc e Fanfani per il crack Sindona”, Unità del 20 febbraio 1976.
213 “Nel sistema le radici del caso Sindona”, Avanti del 10 ottobre 1974.
214 “Crimine, mafia, banche e politica”, Avanti del 09 maggio 1975, e “Il volto inquietante del potere” Avanti del 12 giugno 1975.
215 “Piena luce sul caso Sindona”, Il Popolo del 12 ottobre 1974.
216 “Colombo sul caso Sindona”, La Discussione N. 1044 del 11 novembre 1974.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013

Nel marzo del 1974 la Franklin dà le prime avvisaglie di crisi. Il banchiere corre ai ripari chiedendo al Tesoro un altro aumento di capitale questa volta per la Banca unione che vuole fondere con la Banca privata. La partita sembra volgersi a suo favore con la nomina di Barone (vicino alla corrente di Giulio Andreotti) ad amministratore delegato del Banco di Roma. Sindona chiede al Banco la concessione di un prestito di 100 milioni di dollari per la Generale Banking Corporation, garantendolo con il 51% delle azioni della Banca unione e da titoli della Generale immobiliare <387. L’operazione va in porto, Sindona convince i vertici del Banco, Ventriglia e Guidi, che il 20 giugno autorizzano il versamento della una prima tranche (rivelatasi illegittima per mancanza di autorizzazione e perché transitata attraverso il Banco di Roma Nassau). Voci sempre più insistenti denunciano perdite ingenti nelle società di Sindona a causa di irregolarità nelle procedure contabili, il Banco di Roma concede la seconda tranche del prestito, si scatena un dibattito politico che vede un’interrogazione parlamentare (D’Alema-Peggio, 5 luglio).
L’unica alternativa al fallimento secondo il governatore sarebbe un’acquisizione da parte del Banco di Roma d’altra parte già impegnato con il prestito. Nel luglio dello stesso anno uno stuolo di dirigenti del Banco di Roma si insediano nella Banca unione ma la Banca privata resta in mano a Sindona che ne ha fatto la parte operativa del suo sistema <388. L’intervento dei funzionari del Banco di Roma non consente di appurare con tempestività la situazione che viene documentata dai rapporti degli ispettori di Bankitalia. Quando i vertici del Banco di Roma comunicano a Carli la gravità della situazione e l’irreversibilità del danno chiedono nel contempo un indennizzo di 35-40 miliardi per il servizio reso alla stabilità del sistema. A seguito dell’autorizzazione ministeriale, la Banca d’Italia concede la fusione di Banca unione e di Banca privata che confluiscono nella Banca privata
italiana389. Sul finire di agosto le comunicazioni tra il Banco di Roma e il governatore si fanno più pressanti perché emerge in tutta la sua gravità la situazione in cui versa l’istituto. Il 28 agosto il Banco di Roma comunica che la Banca privata italiana ha debiti per 98 milioni di dollari, di cui 37 in depositi fiduciari di circa cinquecento intestatari i cui nomi sono registrati nel misterioso “tabulato dei 500”. Il governatore dispone che tali depositi siano restituiti per salvare la credibilità del sistema su cui incombe lo scandalo delle banche tedesche Herstt e Wolff di Sindona chiuse il 26 agosto per insolvenza. Il 3 settembre Ventriglia comunica a Carli che il disavanzo dell’istituto di Sindona ammonta a 168,4 miliardi di lire. I vertici di Bankitalia propongono a Sindona di vendere la Banca privata italiana al prezzo simbolico di una lira ottenendone un secco rifiuto. Carli progetta allora la creazione di un consorzio delle banche di interesse nazionale <390 che coinvolgerebbe il Banco di Roma, la Banca commerciale, il Credito italiano e l’Istituto mobiliare italiano per dare vita alla Banca d’Oltremare. Il progetto naufraga per l’opposizione del presidente dell’IRI Petrilli <391 che non vi intravede carattere di utilità in nome del paese. Continuano i prelievi massicci agli sportelli. Alla fine di settembre si rende necessaria la dichiarazione di fallimento dell’Istituto.
Il finanziere ripara all’estero per sfuggire al mandato di cattura per bancarotta fraudolenta e da lì inizia una campagna che vede schierati quanti in Italia hanno fruito illegalmente delle prebende del finanziere. Dagli Stati Uniti Sindona lancia minacce contro Ambrosoli e Cuccia che si concludono con l’assassinio di matrice mafiosa del commissario liquidatore Ambrosoli.
[NOTE]
387 Il prestito del Banco di Roma equivale ad un salvataggio della banca di Sindona che ha prodotto secondo le stime del commissario uno sbilancio tra attivo e passivo di 168 miliardi (che rivalutati superano ampiamente il miliardo di euro). Solo la procedura di liquidazione permette di contenere i costi. La gestione ordinaria si sarebbe trovata esposta a passività per 472 miliardi e mezzo con uno sbilancio di più di 191 miliardi. Alla stima di 168 miliardi Ambrosoli aggiunge il rischio di forti multe valutarie ma anche la presenza di ingenti masse di capitali depositati in banche estere che applicano tassi di interesse pari o superiori a quelli interbancari. Cfr. Relazione di minoranza, ibidem.
388 Relazione di minoranza, cit., p. 73.
389 Relazione di minoranza, cit. p., 34.
390 Le banche di interesse nazionale sono legate alla creazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) nel ’33 come risposta alla grave crisi economica dei primi anni Trenta in Italia. Le banche di interesse nazionale erano i tre maggiori istituti di credito in Italia: Banca commerciale italiana (conosciuta come Comit), il Credito italiano e il Banco di Roma. I tre istituti avevano finanziato gli investimenti delle principali imprese coinvolte nello sforzo bellico, costruendo inoltre delle holdings finanziarie e acquistando le loro stesse azioni in borsa. Si veniva a creare – secondo la nota formula di Raffaele Mattioli – una «mostruosa fratellanza siamese», la cui debolezza sarebbe
emersa con la politica monetaria di Mussolini e la conseguente crisi di borsa del ’29. Avendo perdonato l’atteggiamento politico precedente di Beneduce, Mussolini gli affida la soluzione del problema che si era creato attorno al rapporto tra imprese e banche, risolto con la creazione dell’Iri. L’istituto ottenne dalla Banca d’Italia i capitali necessari all’acquisto dei tre istituti (che da questo momento vengono definiti «banche di interesse nazionale»), controllando nel contempo le imprese possedute da queste banche.
391 cfr., infra.
Ottavio D’Addea, Michele Sindona e l’economia italiana, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2016

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