Storia della Béchamel: Dalla Corte del Re Sole alle Lasagne

Béchamel: come una dama francese rivoluzionò la cucina con latte e burro
Dalla corte del Re Sole alle lasagne: le origini nobili di una salsa versatile

Nella raffinata atmosfera della corte di Luigi XIV, il Re Sole, dove l’opulenza e l’eleganza dettavano legge, nacque una delle salse più iconiche della gastronomia mondiale: la Béchamel. Sebbene il suo nome sia legato al marchese Louis de Béchameil, finanziere del re, la sua storia nasconde un affascinante intreccio di influenze e innovazioni, dove il ruolo di donne visionarie e cuochi talentuosi si fonde con il mito.

Un’eredità tra Italia e Francia

Le radici della Béchamel affondano in un dialogo culinario tra Italia e Francia. Caterina de’ Medici, sposa del futuro re Enrico II, portò con sé dalla Firenze rinascimentale chef italiani che introdussero in Francia tecniche e salse raffinate, come la salsa colla, un antenato cremoso a base di latte e farina. Questa preparazione, usata nelle lasagne dell’epoca, fu il seme di una rivoluzione. Nei secoli, i cuochi francesi, maestri nel perfezionamento, sostituirono il brodo con il burro – allora simbolo di lusso – creando una salsa vellutata e versatile.

La nascita di un mito alla corte del Re Sole

Fu François Pierre La Varenne, pioniere della cucina francese, a codificare nel 1651 la prima ricetta della Béchamel nel suo libro Le Cuisinier François. La salsa, inizialmente dedicata al marchese de Béchameil, divenne emblema della haute cuisine. Ironia della storia, Béchameil non fu un cuoco ma un nobile che probabilmente godé dei meriti del suo chef anonimo, figura spesso dimenticata nelle cronache dell’epoca. La Béchamel, con la sua semplicità – burro, farina, latte, noce moscata – incantò per l’equilibrio e l’adattabilità, diventando una delle “salse madri” della tradizione francese.

Da Versailles alle cucine italiane: l’incontro con le lasagne

Mentre in Francia la Béchamel arricchiva sughi e gratin, in Italia trovò una nuova dimora. Nelle regioni del nord, come l’Emilia-Romagna, sostituì la ricotta nelle lasagne, donando cremosità e legando strati di pasta, ragù e parmigiano. Questo matrimonio culinario, frutto di scambi culturali, trasformò un piatto popolare in un’icona della festa, simbolo di una cucina che supera confini.

Leggenda e realtà: il ruolo delle donne

Sebbene la storia celebri uomini, è plausibile che donne nobili e cuoche sconosciute abbiano contribuito all’evoluzione della Béchamel. Nelle cucine dei palazzi, spesso gestite da donne, sperimentazioni con latte e burro potrebbero aver plasmato la salsa. Caterina de’ Medici, mecenate della gastronomia, e figure come Madame de Maintenon, moglie morganatica di Luigi XIV, incarnano quel fermento femminile che, sebbene poco documentato, fu motore di innovazione.

La Béchamel oggi: un’eredità senza tempo

Oltre le lasagne, la Béchamel vive in piatti globali: dal croque-monsieur alle moussaka greche, dai soufflé ai gratin. La sua ricetta, immutata nei secoli, è testimonianza di come ingredienti umili possano diventare arte, grazie a intuizione e passione. Una dama francese, reale o metaforica, continua così a regnare in pentole e forni, ricordandoci che la cucina è sempre storia di incontri, genio e trasformazione.

La Béchamel, come molte preparazioni culinarie classiche, ha subito un’evoluzione negli usi e nelle applicazioni, e alcuni dei suoi impieghi originari sono oggi poco noti o caduti in disuso. Ecco alcuni esempi storici e ipotesi su come la salsa potesse essere utilizzata in contesti diversi da quelli attuali:

Salsa di accompagnamento per carni e pesci “nobili”

Nei ricettari del XVII-XVIII secolo, come Le Cuisinier François (1651) di La Varenne, la Béchamel era descritta come una salsa per arricchire carni bianche (come vitello o pollame) e pesci delicati, spesso serviti alla corte del Re Sole. A differenza delle salse medievali speziate e acide, la sua cremosità era ideale per esaltare ingredienti raffinati senza coprirne il sapore. Con il tempo, questo uso si è ridotto, soppiantato da salse più complesse (es. velouté o olandese) o da approcci culinari più leggeri.

Addensante per zuppe e “potage”

Nei secoli passati, la Béchamel (o la sua antenata “salsa colla”) era utilizzata per dare corpo a zuppe cremose o “potage”, un piatto simbolo della cucina aristocratica francese. Con l’avvento di tecniche moderne e brodi più concentrati, questo ruolo è stato gradualmente abbandonato.

Dolci e preparazioni “inedite”

Esistono tracce di ricette del ’700 in cui la Béchamel era mescolata a zucchero, uvetta o frutta candita per creare dessert cremosi, simili a budini. Questo uso, legato alla moda delle salse dolci-salate nel Rinascimento, è scomparso con la separazione netta tra piatti dolci e salati nella cucina moderna.

Sostituto dello spezzatino medievale

Prima della Béchamel, molte salse medievali (come la cameline, a base di cannella e aceto) accompagnavano carni stufate. La Béchamel, più neutra, potrebbe aver inizialmente sostituito queste salse in alcuni stufati, prima che il ragù e le riduzioni di vino diventassero dominanti.

Perché alcuni usi sono scomparsi?

  • Cambiamenti nei gusti: La cucina dell’800 privilegiò salse più leggere e meno farinose.
  • Innovazioni tecniche: L’uso del roux fu perfezionato, ma salse come la velouté (a base di brodo) divennero più versatili.
  • Semplicità moderna: Oggi la Béchamel è associata a piatti “comfort food” (lasagne, gratin), mentre gli usi più elaborati sono rimasti confinati nella haute cuisine storica.

Un uso moderno per le nuove esigenze:

Nella mia personale ricerca delle sostituzioni a vario titolo, anche la leggendaria Besciamella è passata attraverso i miei filtri e ne ho fatto una versione vegan e senza glutine.

Facevo bollire un litro di acqua con un etto di riso Carnaroli fino al completo assorbimento, aggiungevo un etto di lievito secco in scaglie ( per darle un pò di corpo perchè intendiamoci il riso lessato nell’acqua è letteralmente insapore) e poi frullavo tutto e diventava un gel semitrasparente a cui aggiungevo del burro di soia, (un etto, usavo “Provamel” era eccellente) , e del latte di riso o panna di soia per trovare la giusta densità. Infine regolavo di sale e noce moscata.

Quindi senza latticini né glutine e infine mettendone da parte un poco senza noce moscata diventa una crema per mantecare un risotto senza usare il burro e il formaggio.

Uno sguardo contemporaneo ci viene da chef come Julia Child, che nella sua opera “Mastering the Art of French Cooking” (1961), ha reso accessibile la cucina francese al pubblico americano. Anche lei riconosce l’importanza della béchamel come base per molte preparazioni classiche:

“Ogni aspirante cuoco francese deve imparare a preparare una buona béchamel. È una delle fondamenta della nostra cucina, un elemento essenziale per salse, gratin e molti altri piatti deliziosi.”

La Béchamel è un esempio di come una salsa possa attraversare secoli, adattandosi a mode, ingredienti e necessità. Molti dei suoi usi antichi sopravvivono solo nei libri di storia gastronomica, ma la sua essenza – latte, burro e farina – resta un pilastro della cucina, testimone di un dialogo tra innovazione e tradizione.

#cucina #hobby #realtà #ricette #sogni

Mastering the Art of French Cooking - Wikipedia

La Storia della Fumata durante il Conclave

Per la prima volta , solo dopo il film in bianco e nero di Andy Warhol sull’Empire State Building ( 8 ore di immagine statica sul grattacielo), ho assistito ad una analoga esperienza. In TV, non in una sala cinematografica e insieme a più di un miliardo di persone.

Allora una domanda da spettatore me la sono fatta:

perchè il comignolo della fumata per il nuovo Papa è così minimalista?

La tradizione della fumata, il segnale di fumo bianco o nero emesso dal comignolo della Cappella Sistina durante il Conclave per annunciare l’esito delle votazioni per l’elezione del Papa, è una pratica relativamente recente nella storia della Chiesa cattolica, ma profondamente radicata nel simbolismo e nella necessità di comunicare con il mondo esterno. Di seguito, la storia della fumata, le sue origini, la sua evoluzione e i dettagli chiave.

Origini della fumata

La fumata come segnale ufficiale durante il Conclave è documentata con certezza solo a partire dal XIX secolo, anche se pratiche simili potrebbero essere esistite in precedenza in forme meno codificate. Prima dell’Ottocento, i Conclavi si tenevano in contesti più locali, spesso senza la necessità di segnali pubblici immediati, poiché l’elezione del Papa era annunciata direttamente dai cardinali o tramite messaggeri. Tuttavia, con l’aumento dell’interesse pubblico e la centralizzazione dei Conclavi in Vaticano, emerse la necessità di un sistema visivo chiaro per comunicare con la folla riunita e con il mondo.

  • Prime tracce: Non esistono documenti precisi che attestino l’uso della fumata prima del 1800. Alcuni storici ipotizzano che segnali di fumo fossero usati in modo informale, come parte di pratiche comuni per comunicare eventi importanti (ad esempio, bruciare documenti o materiali per segnalare la fine di un processo). Tuttavia, il Conclave del 1800, che elesse Papa Pio VII, è uno dei primi in cui si fa riferimento a una forma di segnale visivo, anche se non ancora standardizzata.
  • Codificazione nel XIX secolo: La fumata divenne una prassi consolidata durante il Conclave del 1829 (elezione di Pio VIII) o del 1831 (elezione di Gregorio XVI). In quel periodo, si stabilì l’usanza di bruciare le schede delle votazioni alla fine di ogni scrutinio, producendo fumo visibile attraverso il comignolo della Cappella Sistina. Il fumo serviva a segnalare se l’elezione era avvenuta o meno:
    • Fumo nero (fumata nera): indicava che nessun candidato aveva raggiunto la maggioranza dei due terzi richiesta, e il Conclave continuava.
    • Fumo bianco (fumata bianca): annunciava l’elezione del nuovo Papa, seguita dall’annuncio ufficiale “Habemus Papam”.

Il sistema si basava su una tecnica semplice: le schede elettorali, scritte a mano dai cardinali, venivano bruciate in una stufa. Per ottenere il fumo nero, si aggiungeva paglia umida o sostanze chimiche (come pece), mentre per il fumo bianco si usava paglia secca o si lasciavano bruciare solo le schede, producendo un fumo più chiaro.

Evoluzione della fumata

La fumata, pur semplice in teoria, si rivelò spesso problematica nei primi decenni, poiché il colore del fumo poteva risultare ambiguo (grigio o indefinito), causando confusione tra la folla e i media. Questo portò a perfezionamenti tecnici e procedurali nel corso del XX e XXI secolo.

  • Primi problemi di chiarezza:
    • Durante il Conclave del 1903 (elezione di Pio X), il fumo fu spesso difficile da interpretare, con resoconti di folle incerte sul risultato.
    • Nel 1958 (elezione di Giovanni XXIII), la fumata bianca apparve inizialmente grigiastra, creando confusione. Radio Vaticana annunciò erroneamente l’elezione prima della conferma ufficiale, e la folla in Piazza San Pietro rimase disorientata fino all’Habemus Papam.
    • Anche nel 1978, durante il primo Conclave (elezione di Giovanni Paolo I), il fumo fu ambiguo, e il secondo Conclave (elezione di Giovanni Paolo II) vide ulteriori difficoltà nel distinguere chiaramente il colore.
  • Innovazioni tecnologiche:
    • Stufa in ghisa (1939): A partire dal Conclave del 1939 (elezione di Pio XII), fu introdotta una stufa in ghisa, ancora in uso, progettata specificamente per bruciare le schede in modo controllato. Questa stufa, collocata nella Cappella Sistina, divenne parte integrante del rituale.
    • Fumogeni chimici (2005): Dopo secoli di fumate ambigue, il Vaticano modernizzò il sistema per il Conclave del 2005 (elezione di Benedetto XVI). Fu aggiunta una seconda stufa ausiliaria, collegata alla stufa storica tramite un condotto in rame. Questa stufa utilizza cartucce di fumogeni chimici per garantire un colore inequivocabile:
      • Fumo nero: ottenuto con una miscela di clorato di potassio, antracene e zolfo.
      • Fumo bianco: prodotto con clorato di potassio, lattosio e colofonia (resina di pino).
    • Ventilazione e riscaldamento: Il comignolo, installato temporaneamente dai vigili del fuoco vaticani, è dotato di resistenze elettriche per riscaldare il condotto e di un ventilatore per migliorare il tiraggio, assicurando che il fumo sia visibile anche in condizioni atmosferiche avverse.
  • Campane come rinforzo:
    • A partire dal 2005, per eliminare ogni dubbio, il Vaticano decise di accompagnare la fumata bianca con il suono delle campane di San Pietro, che iniziano a suonare circa 15-20 minuti dopo la fumata per confermare l’elezione. Questo accorgimento fu introdotto dopo le difficoltà del passato e si è rivelato efficace, come visto nei Conclavi del 2005 e del 2013 (elezione di Francesco).
  • Significato simbolico

    La fumata non è solo un segnale pratico, ma ha assunto un profondo significato simbolico:

    • Fumo nero: rappresenta la continuità del discernimento, l’attesa e la preghiera dei cardinali per trovare il successore di Pietro.
    • Fumo bianco: simboleggia la gioia dell’elezione, l’unità della Chiesa e l’azione dello Spirito Santo nella scelta del nuovo Papa.
    • La semplicità del comignolo e del sistema riflette l’umiltà della Chiesa, mentre la visibilità globale del fumo sottolinea l’universalità del messaggio.

    Curiosità e aneddoti

    • Il gabbiano del 2013: Durante il Conclave del 2013, un gabbiano che si posò sul comignolo divenne virale, trasformando il semplice tubo in un’icona mediatica. L’immagine del volatile in attesa, come la folla, aggiunse un tocco di poesia al rituale.
    • Comignolo temporaneo: Il comignolo è installato solo per il Conclave e smontato subito dopo. È un tubo metallico lungo circa 2,7 metri, progettato per essere funzionale e discreto, in contrasto con la magnificenza della Cappella Sistina.
    • Ingredienti segreti: Prima del 2005, la ricetta esatta per il fumo nero e bianco era tenuta segreta, affidata al maestro delle cerimonie pontificie. Anche oggi, i dettagli tecnici sono gestiti con discrezione, ma le sostanze chimiche sono state rese note per trasparenza.
    • Fumata “grigia” famosa: Nel 1958, la fumata per Giovanni XXIII fu così ambigua che i media internazionali riportarono notizie contraddittorie. Questo episodio spinse il Vaticano a cercare soluzioni più affidabili.

    La fumata oggi

    Oggi, la fumata è uno degli eventi più seguiti al mondo, trasmesso in diretta da televisioni e piattaforme digitali. Durante il Conclave, le fumate avvengono due volte al giorno (mattina e pomeriggio), dopo ogni sessione di due scrutini, fino all’elezione del Papa. Il sistema moderno, con stufe doppie e fumogeni, ha reso il segnale molto più chiaro, anche se l’attesa e l’emozione della folla in Piazza San Pietro restano immutate.

    La fumata è diventata un simbolo universale di speranza, attesa e rinnovamento, unendo tradizione secolare e tecnologia moderna. La sua storia riflette l’adattamento della Chiesa ai cambiamenti del tempo, mantenendo però intatta la solennità e il mistero del Conclave.

    continuità e rinnovamento nella Chiesa cattolica. Dalle prime fumate ambigue, ottenute con paglia e schede bruciate, al sistema moderno con stufe in ghisa e fumogeni chimici introdotto nel 2005, la fumata nera e bianca ha accompagnato l’elezione di Papi in momenti cruciali della storia. Il comignolo minimalista della Cappella Sistina, con il suo fumo che cattura l’attenzione del mondo, rappresenta l’umiltà e l’universalità del messaggio della Chiesa, unendo tradizione, funzionalità e simbolismo. Dalle difficoltà di interpretazione del passato, come le fumate grigiastre del 1958, alle campane di San Pietro che oggi confermano la fumata bianca, questo rituale è diventato un’icona globale di attesa e speranza.

    Anche se sarà l’ultimo Papa che vedrò.

    #malattia #realtà #sogni #terapia

    Chitosano: Soluzione Naturale contro lo Spreco Alimentare

    La conservazione dei cibi lungo la catena distributiva è una delle maggiori fonti di consumo di plastica, per di più in piccoli pezzi complicati da differenziare, raccogliere e riciclare. A fronte di normative che tenderanno a ridurne l’uso attraverso l’obbligo di confezioni più grandi, imballaggi riutilizzabili, ecc. si apre un nuovo problema, quello del possibile incremento dello spreco alimentare dovuto ad acquisti sovradimensionati o a peggiore conservazione degli alimenti.

    Due studi dell’Università di Pisa si sono focalizzati sul possibile utilizzo di due tipi di chitosano per la conservazione di carne e ortaggi.

    Del tutto naturale, edibile e biodegradabile, il chitosano è un polisaccaride ottenuto a partire dall’esoscheletro dei crostacei.In un caso, i ricercatori hanno usato un chitosano commerciale addizionato di olio essenziale di pepe nero; nel secondo caso, hanno sperimentato per la prima volta un chitosano ricavato dagli insetti.

    I due studi dell’Università di Pisa sono stati pubblicati sulle riviste Foods e Scientific Reports.

    La conservazione dei prodotti alimentari per la distribuzione utilizza una grande quantità di plastica.

    Mantenere le caratteristiche organolettiche della carne

    Nel caso dello studio su Foods, “Chitosan and Essential Oils Combined for Beef Meat Protection against the Oviposition of Calliphora vomitoria, Water Loss, Lipid Peroxidation, and Colour Changes”, la sperimentazione ha riguardato dei piccoli hamburger di carne bovina che sono stati rivestiti con una soluzione di chitosano. Dopo sette giorni di conservazione, è emerso che il chitosano arricchito con olio essenziale di pepe nero (Piper nigrum) è riuscito meglio degli altri a mantenere le caratteristiche organolettiche della carne e un aspetto brillante e fresco degli hamburger.

    «L’applicazione di un polimero naturale ed edibile quale il chitosano, addizionato con olio essenziale di pepe nero, ha permesso di prolungare la durata di conservazione della carne mantenendo le sue proprietà organolettiche senza modificarne il colore, ma anzi rendendo l’alimento più attraente per i consumatori» ha detto la professoressa Annamaria Ranieri dell’Ateneo pisano.

    Insetti al posto dei crostacei

    Per lo studio su Scientific Reports, “Preliminary investigation on the effect of insect-based chitosan on preservation of coated fresh cherry tomatoes”, il team dell’Ateneo pisano ha utilizzato per la prima volta chitosano ricavato da insetti, per rivestire mediante immersione o spray dei pomodori poi conservati per trenta giorni a temperatura ambiente o a 4 °C. Il chitosano estratto dagli insetti ha dimostrato di avere le stesse prestazioni di quello commerciale ricavato dai crostacei, anzi, in alcuni casi, addirittura superiori, preservando più efficacemente i principi nutritivi dei pomodori in termini di antiossidanti come fenoli e flavonoidi.

    «L’estrazione del chitosano a partire da insetti rappresenta una promettente alternativa a quello tradizionalmente estratto dai crostacei grazie alla crescente disponibilità di biomassa proveniente dagli allevamenti di insetti che si stanno sviluppando a livello mondiale» dice la professoressa Antonella Castagna dell’Università di Pisa.

    Aspetto dei pomodori trattati con le diverse tipologie di coating applicato mediante spray, all’inizio (T0) e dopo 30 giorni di conservazione a temperature ambiente (Tf), da cui si evidenzia la capacità del chitosano di mantenere una migliore qualità dei frutti rispetto al controllo. © Università di Pisa

    L’utilizzo di scarti della produzione di mangimi

    L’allevamento di insetti in tutto il mondo è in forte crescita, soprattutto per la produzione di proteine da inserire nei mangimi. Questa nuova industria genera scarti che possono essere recuperati per la produzione sostenibile di chitina e chitosano. Dai risultati ottenuti dall’Ateneo pisano, i risultati ottenuti sono molto incoraggianti, anche se occorrono ulteriori conferme su altri prodotti freschi.

    Gli studi sono stati realizzati da un team interdisciplinare dei dipartimenti di Scienze Agrarie, Ambientali e Agro-ambientali e di Farmacia dell’Università di Pisa e di Scienze dell’Università degli studi della Basilicata.

    Parte delle ricerche sono il frutto del progetto FEDKITO “FrEsh fooD sustainable pacKaging In The circular econOmy” finanziato nell’ambito di PRIMA, un programma supportato dall’Unione Europea e dal Ministero dell’Università e della Ricerca, e coordinato dalla professoressa Barbara Conti dell’Ateneo pisano.
    riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com

    #cucina #hobby #realtà #sogni

    In spray o pellicola, le virtù del chitosano per conservare gli alimenti freschi e ridurre lo spreco alimentare

    Del tutto naturale, edibile e biodegradabile, il chitosano è al centro di due studi dell’Università di Pisa pubblicati sulle riviste Foods e Scientific Reports che indagano le potenzialità di questo biopolimero per conservare gli alimenti freschi e ridurre lo spreco alimentare.Nel caso dello studio su Foods, la sperimentazione ha riguardato dei piccoli hamburger di carne bovina che sono stati rivestiti con una soluzione di chitosano commerciale, ricavato da crostacei, alla quale sono stati aggiunti diversi oli essenziali. Dopo sette giorni di conservazione, è emerso che il chitosano arricchito con olio essenziale di pepe nero (Piper nigrum) è riuscito meglio degli altri a mantenere le caratteristiche organolettiche della carne e un aspetto brillante e fresco degli hamburger.“L’applicazione di un polimero naturale ed edibile quale il chitosano, addizionato con olio essenziale di pepe nero ha permesso di prolungare la durata di conservazione della carne mantenendo le sue proprietà organolettiche senza modificarne il colore ma anzi rendendo l’alimento più attraente per i consumatori”, ha detto la professoressa Annamaria Ranieri dell’Ateneo pisano. Per lo studio su Scientific Reports, il team dell’Ateneo pisano ha utilizzato per la prima volta chitosano ricavato da insetti, per rivestire mediante immersione o spray dei pomodori poi conservati per trenta giorni a temperatura ambiente o a 4° gradi centigradi. Il chitosano estratto dagli insetti ha dimostrato di avere le stesse prestazioni di quello commerciale ricavato dai crostacei, anzi, in alcuni casi, addirittura superiori, preservando più efficacemente i principi nutritivi dei pomodori in termini di antiossidanti come fenoli e flavonoidi.“L’estrazione del chitosano a partire da insetti rappresenta una promettente alternativa a quello tradizionalmente estratto dai crostacei grazie alla crescente disponibilità di biomassa proveniente dagli allevamenti di insetti che si stanno sviluppando a livello mondiale – dice la professoressa Antonella Castagna dell’Università di Pisa - Questo tipo di allevamento, soprattutto rivolto alla produzione di proteine per il settore mangimistico, genera scarti che possono essere recuperati per la produzione sostenibile di chitina e chitosano. Dai risultati ottenuti nel nostro lavoro, il chitosano da insetti sembrerebbe avere prestazioni persino superiori a quello commerciale. Pur trattandosi del primo studio condotto utilizzando questa fonte, i risultati ottenuti sono molto incoraggianti, anche se occorrono ulteriori conferme su altri prodotti freschi”.Gli studi su Foods e su Scientific Reports sono stati realizzati da un team interdisciplinare dei dipartimenti di Scienze Agrarie, Ambientali e Agro-ambientali e di Farmacia dell’Università di Pisa e di Scienze dell’Università degli studi della Basilicata. Parte delle ricerche sono il frutto del progetto FEDKITO “FrEsh fooD sustainable pacKaging In The circular econOmy ” finanziato nell’ambito di PRIMA (un programma supportato dall’Unione Europea e dal Ministero dell’Università e della Ricerca) e coordinato dalla professoressa Barbara Conti dell’Ateneo pisano.

    “Pesto genovese: la storia profumata del basilico ligure”

    Scopri le radici medievali del pesto, il ruolo del mortaio e come la Liguria ha dato vita a uno dei condimenti più amati al mondo.

    Un Antico “Pesto” Ante Litteram

    Dobbiamo fare un piccolo salto indietro nel tempo, prima che il basilico diventasse l’indiscusso protagonista. Nel Medioevo ligure, e più in generale nell’area mediterranea, esistevano salse tritate a base di erbe aromatiche, aglio e formaggio, spesso arricchite con frutta secca come le noci o le mandorle. Queste preparazioni, pestate rigorosamente nel mortaio, avevano lo scopo di conservare i sapori freschi delle erbe e insaporire piatti semplici a base di cereali o verdure.

    Un esempio interessante è l’agliata, una salsa a base di aglio, olio e pane ammollato, già diffusa in epoca romana e ancora presente nella nostra cucina tradizionale. Sebbene diversa dal pesto moderno, condivideva con esso la tecnica della triturazione nel mortaio e l’utilizzo di ingredienti “poveri” ma ricchi di sapore.

    A proposito di aglio amato e odiato allo stesso tempo, mi ero accorto che il rifiuto a priori era generalmente un preconcetto. Una lavorazione preliminare dell’aglio evita le controindicazioni e “ritorni” maleodoranti.

    Con la tecnica dello sbianchire” l’aglio non si sbaglia un colpo.

    Bisogna lessare l’aglio immergendolo in acqua fredda per poi portarla a bollore, almeno per sette volte di seguito e cambiando l’acqua ogni volta.

    Allunga molto i tempi di preparazione ed i puristi amano il sapore pungente dello spicchio d’aglio ma in questo modo evitate conseguenze spiacevoli.

    Per avvalorare ulteriormente la tecnica basta pensare che questi spicchi lessati assomigliano a grosse noci di Macadamia e immergerle per metà nel cioccolato fuso crea un goloso intermezzo dove l’aglio è irriconoscibile.

    Oppure cuocerlo in forno con tutto l’involucro, si ottiene una volta pulito e frullato, una salsa come si accennava all’inizio.

    Proseguiamo con l’ingrediente principale:

    il basilico. ( vi dovete mettere il cuore in pace, il profumo e il sapore del basilico cambiano in base al luogo in cui lo lavorate. Non pensate di comprare il basilico in Liguria e lavorarlo in un’altra parte dell’Italia. Non sarà mai come quello lavorato in Liguria).

    Dalle navi di Colombo alle astronavi: il pesto conquista il mondo.

    Nel XV secolo, i marinai liguri portavano barattoli di terracotta pieni di pesto nelle stive: l’olio fungeva da conservante naturale, mentre l’aglio combatteva lo scorbuto. Si dice che anche Cristoforo Colombo, genovese doc, ne avesse una scorta durante il viaggio verso le Americhe. Ma la svolta arrivò nel 1863, quando il gastronomo Giovanni Battista Ratto pubblicò la prima ricetta ufficiale nel libro “La Cuciniera Genovese”, sostituendo il formaggio locale con il Parmigiano, più accessibile. Da lì, il pesto varcò le Alpi, ispirando salse francesi e diventando, nel ‘900, simbolo della cucina italiana all’estero.

    La Liguria: Culla di un Condimento Mondiale

    È proprio in questa terra stretta tra mare e monti, ricca di profumi intensi e di una cultura culinaria semplice ma sapiente, che il pesto ha trovato la sua forma definitiva. L’abbondanza di basilico (“u baxaicò” in dialetto genovese), le olive taggiasche che regalano un olio extravergine delicato, i pinoli delle pinete costiere, l’aglio di Vessalico dal sapore inconfondibile e i pregiati formaggi pecorino sardo e parmigiano reggiano si sono incontrati nel mortaio per dare vita a una sinfonia di sapori unica.

    La prima vera codifica della ricetta del pesto genovese come la conosciamo oggi risale all’Ottocento, ma è indubbio che le sue radici affondino in preparazioni più antiche, testimoni della sapienza contadina ligure nell’utilizzare al meglio i doni della sua terra.

    Oggi, il pesto è un ambasciatore della Liguria nel mondo, un condimento amato e reinterpretato in mille modi, ma che conserva nel suo cuore l’eco dei gesti lenti e sapienti della sua preparazione tradizionale nel mortaio. Un piccolo assaggio di storia e di passione che rende ogni piatto un’esperienza unica.

    Il Medioevo in un mortaio:

    erbe, monasteri e il potere della conservazione Nel XII secolo, la Liguria era un crocevia di monaci contemplativi e marinai temerari. Nei chiostri, i religiosi coltivavano basilico – erba simbolo di amore e prosperità – insieme a salvia e rosmarino, sperimentando miscele per infusi e unguenti. Intanto, i navigatori genovesi, in cerca di cibi che resistessero ai lunghi viaggi, univano ingredienti locali come pinoli (preziosi per il loro apporto energetico) e formaggio stagionato, conservandoli sotto strati di olio d’oliva. Fu l’incontro di questi due mondi a dare vita a una primitiva forma di pesto: una crema di erbe pestate nel mortaio di marmo, arricchita con aglio e sale, che i marinai portavano nelle loro spedizioni per insaporire zuppe e gallette.

    L’arte del mortaio: perché solo il marmo (e la pazienza) fanno la differenza. La scelta del mortaio non è casuale: quello tradizionale ligure, in marmo di Carrara, mantiene una temperatura fresca che preserva gli aromi del basilico, evitando l’ossidazione. La tecnica di pestatura è un rituale codificato:

    Aglio e pinoli per primi, per creare una base cremosa.

    Foglie di basilico strappate a mano (mai tagliate con il coltello, per non ossidarle), aggiunte gradualmente.

    Formaggio Pecorino e Parmigiano, legati dall’olio extravergine ligure dal sapore fruttato.

    Un processo lento che, ancora oggi, separa il pesto autentico dalle imitazioni industriali. Curiosità: nel 2007, il pesto genovese è diventato Denominazione Comunitaria, con regole ferree: solo basilico DOP della Liguria, pinoli mediterranei e olio della Riviera.

    Pesto ieri e oggi: tra puristi e rivoluzioni Oggi il pesto divide puristi e innovatori: c’è chi usa il frullatore (peccato capitale per i tradizionalisti) e chi aggiunge spinaci o avocado. Eppure, in Liguria resistono rituali immutati:

    La Festa del Pesto a Genova, dove centinaia di partecipanti pestano a ritmo di musica.

    Il “Pesto World Championship”, competizione internazionale che celebra l’arte del mortaio.

    (anche qui un consiglio per chi utilizza il frullatore: usate foglie intere non tagliarle mai, mettete la caraffa delle lame nel freezer per mezz’ora, prima di utilizzarla e a metà “frullata” buttare una manciata di cubetti di ghiaccio nella caraffa. Evitate l’ossidazione e il pesto resterà di un bel verde brillante)

    E mentre i food blogger lo abbinano a sushi e poke bowl, i genovesi restano fedeli alle trofie, pasta arrotolata che trattiene ogni goccia di salsa.

    Perché il pesto è più di una salsa. È un codice genetico gastronomico: in ogni foglia di basilico c’è il sole della Liguria, in ogni goccia d’olio il sudore dei contadini, in ogni pestata la memoria di monaci e naviganti. Una ricetta nata per caso, diventata poesia.

    La mia spassionata opinione è che il pesto fatto in casa è assolutamente più buono del migliore pesto già confezionato. Non c’è paragone, sia che usiate aglio coltivato in Liguria o nel vostro orto. Il profumo del pesto fatto in casa è un’altra cosa.

    Dulcis in fundo, prendete una bottiglia di alcool per alimenti, immergetevi cento foglie intere di basilico. Coprite la bottiglia per non fare filtrare la luce e lasciate a macerare per un mesetto. In seguito preparate uno sciroppo con zucchero e acqua (1 terzo zucchero, 2 terzi acqua). Filtrate il macerato e buttate le foglie. Mischiate lo sciroppo e il macerato tenendo conto che più si aggiunge zucchero e più si abbassa la gradazione alcolica percepita. Conservare in frigorifero.

    Si può bere a fine pasto oppure farne un sorbetto. Ha un sapore dolce, fresco e pungente come la menta.

    “In ogni foglia di basilico, un viaggio nel tempo: il pesto genovese non si mangia, si racconta Il pesto è un ponte tra epoche: nelle sue note erbacee risuonano le preghiere dei monaci medievali, il clangore delle ancore sui velieri genovesi e il rumore dei mortai nelle cucine di oggi. Non è solo una salsa, ma un atto d’amore verso una terra stretta tra monti e mare, dove persino l’umile basilico diventa oro verde. Che lo si prepari con un frullatore o seguendo i dettami dei nonni, ogni cucchiaiata è un tributo a chi, secoli fa, capì che la grandezza nasce dall’unire semplicità e passione. Perché, come dicevano i vecchi liguri: «Quello che non fa il tempo, lo fa la pazienza». E il pesto, nella sua lentezza, è la prova che la perfezione sa aspettare. 🌿✨⚓

    #cognitiva #hobby #malattia #realtà #ricette #sogni

    Scuola di Cucina: aglio, come sfruttarlo al meglio

    Come usare al meglio l'aglio in cucina: ecco qualche consiglio dagli Chef de La Scuola de La Cucina Italiana

    La Cucina Italiana

    Cena vegana

    C’è stato un periodo significativo della mia vita in cui mi sono completamente immerso nel mondo della cucina vegana. Per quasi dieci anni, ho abbracciato questa filosofia alimentare con grande passione e dedizione, non solo nella mia vita personale, ma anche trasformando il mio locale in un punto di riferimento per la cucina vegetale.

    Il risultato fu sorprendente e gratificante. Mi dedicavo instancabilmente alla creazione di nuove ricette, sperimentando continuamente con ingredienti e tecniche innovative, alla ricerca della perfezione in ogni piatto.

    Con grande entusiasmo, ogni settimana presentavo un menù completamente rinnovato, strutturato con cura: un antipasto creativo, un primo piatto sostanzioso, un secondo ricco di proteine vegetali e un dolce delizioso, tutti rigorosamente vegani. La mia attenzione si estendeva anche alla selezione di pane, condimenti e vini, assicurandomi che fossero privi di qualsiasi derivato animale, comprese le tracce animali spesso presenti nei vini.

    Questo impegno si traduceva in quattro nuove creazioni ogni settimana, sedici piatti innovativi al mese e centonovantadue ricette originali all’anno, senza contare le proposte del menù alla carta.

    Ecco un esempio di un menù degustazione che proposi circa quindici anni fa…

    Non ricordo le ricette nel dettaglio, ognuno è libero di interpretarle come meglio crede.

    Zucchine in cialda di riso fritta, polpettina di miglio e pesto di foglie di rapanello.
    Ricordo che mi ritrovavo con grandi quantità di foglie di rapanello da buttare, allora pensai di scottarle in acqua e aceto come tutte le foglie verdi prima di usarle. Errore! Il risultato fu una crema verde amarissima! Sono da usare crude, come il basilico e si ottiene un pesto delicato e fresco, molto buono.Tortino di tofu con riso nero al pesto di pomodori secchi.

    Il tofu era tagliato a fette con l’affettatrice e avvolgeva un riso nero mantecato con pomodori secchi frullati, una bontà. Di fianco c’erano delle palline di melone con sopra come una cresta , del wasabi. Ecco questo era stata una vera e propria scoperta, la dolcezza del melone veniva poco dopo l’assaggio sostituita dalla potenza del wasabi e lasciava in bocca una freschezza pronta a ricevere la sapidità del riso nero di un nuovo boccone.

    Burger di legumi, asparagi con carote all’anice stellato.

    Un classico Burger di legumi, come fagioli, ceci e aromi, viene accompagnato da asparagi e carote saltate in olio con l’aggiunta finale di anice stellato la cui freschezza aiuta a non stancarsi della sapidità dei fagioli.

    Mousse di soia alla vaniglia, semifreddo di more, cialda di quinoa .

    Ricordo che facevo la mousse come se fosse una maionese di soia, Lecitina di soia con olio di girasole con aceto , limone e senape per la versione salata. Con zucchero e vaniglia per quella dolce.

    Poi facevo un caramello e con la quinoa lessata ricavavo dei cerchi croccanti. Infine toglievo i frutti di bosco dal freezer ci aggiungevo lo zucchero a velo e frullavo alla massima velocità. Ma lo zucchero quello in vendita nei negozi, perchè quello fatto in casa non va bene a meno che non conosciate bene le proporzioni di zucchero e amido di mais, altrimenti diventa acqua.

    A fine degustazione mettevo un foglietto sul tavolo dei clienti dove ciascuno poteva dare un voto ai piatti. Nella foto ho usato a mo’ di esempio uno dei pochi rimasti( bèh tenevo sempre quelli con i voti più alti).

    Col tempo, ho compreso che non stavo semplicemente preparando cibo, ma coltivando una comunità attorno a una tavola di valori condivisi. Oggi, guardando indietro a quel decennio di passione verdeggiante, riconosco che la vera ricetta che avevo scoperto era quella della gioia autentica che nasce quando il nutrimento del corpo diventa anche nutrimento dell’anima.

    #cognitiva #cucina #hobby #malattia #realtà #ricette #sogni

    La Ricerca della Cotoletta Perfetta #2

    Seconda tappa del viaggio nel cuore più intimo e profondo della tradizione culinaria italiana: la ricerca della cotoletta perfetta, un percorso che ci porterà a scoprire non solo un piatto iconico, ma l’essenza stessa della nostra cultura gastronomica.

    La Metodologia di Indagine

    Il nostro percorso di ricerca seguirà una valutazione accurata e quasi scientifica, articolata in quattro dimensioni fondamentali, ciascuna delle quali rappresenta un pilastro essenziale nell’esperienza gastronomica complessiva:

    • Ambiente: L’involucro architettonico e sensoriale che accoglie l’esperienza gastronomica, dall’illuminazione all’arredamento, dalla disposizione dei tavoli all’atmosfera generale del locale.
    • Materia Prima: L’essenza stessa del piatto, la sua origine e qualità, dalla scelta della carne alla sua provenienza, dalla freschezza degli ingredienti alla loro autenticità.
    • Esecuzione del Piatto: La maestria artigianale che trasforma gli ingredienti in arte, dalla preparazione alla cottura, dalla panatura alla presentazione finale.
    • Gusto Personale: L’esperienza soggettiva, unica e irripetibile del singolo commensale, che tiene conto delle preferenze individuali e delle aspettative personali.

    Ogni dimensione riceverà un punteggio da 1 a 10, la cui somma determinerà un giudizio complessivo, permettendoci di valutare in modo obiettivo e strutturato ogni esperienza.

    La Serata

    Prenotiamo una serata infrasettimanale, quando i ritmi sono più rilassati e l’atmosfera più intima. Entriamo in un locale storico, dove si respira aria antica ed elegante anche se un pò dismessa, come un nobile decaduto che fatica a restare al passo con i tempi ma conserva intatto il suo fascino d’altri tempi. Alla cassa, vicina all’ingresso, ci attende il titolare; i saluti convenevoli anticipano un guizzo negli occhi, quello sguardo di riconoscimento reciproco che solo i veri amanti della cucina sanno scambiarsi. Ci riconosciamo, non so dove, non so come ci siamo conosciuti, ma in un attimo siamo a raccontarci della nostra attività con tutte le cose belle e brutte, come vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo. Solamente l’arrivo di altre persone interrompe il nostro Amarcord, quel momento di nostalgia condivisa. Sediamo in una parte della sala, dove c’è un pò di gente ai tavoli; l’altra parte ha la luce spenta, creando un’atmosfera intima e raccolta. Leggiamo un menù che ha il sapore di antico, di storia della cucina, piatti del territorio molto interessanti, testimoni di una tradizione culinaria che resiste al passare del tempo.

    L’analisi Tecnica della Cotoletta

    La cotoletta si presenta maestosa nella sua imponenza. Nel menù, il ristorante offre due varianti dimensionali: big e small, una scelta che dimostra l’attenzione alle diverse esigenze dei commensali. Naturalmente, seguendo il nostro spirito di ricerca approfondita, optiamo per la versione big. I contorni si dividono in due proposte distinte: da un lato le classiche patate fritte, dall’altro un’insalata di pomodorini e rucola. Le patatine si rivelano croccanti e ben dorate, con quella giusta dose di friabilità che le rende piacevoli al palato, sebbene l’origine surgelata tradisca un po’ le aspettative di chi cerca l’autenticità totale. I pomodorini, scelta eccellente per bilanciare la ricchezza della carne, peccano nella temperatura di servizio, troppo fredda per accompagnare adeguatamente il piatto principale. La sezione dei contorni meriterebbe maggiore attenzione, considerando il loro ruolo fondamentale nell’esaltare le qualità della cotoletta. Sorvolo sugli spicchi di limone aggiunti sopra una foglia di lattuga: è un retaggio degli anni ottanta e l’insalata almeno metterla fresca.

    Tecnica di Cottura

    Questa interpretazione della cotoletta si distingue dalla precedente per l’assenza dell’osso, una scelta precisa che influenza l’intera esperienza gustativa. La carne viene sapientemente battuta prima della cottura fino a raggiungere uno spessore minimo, quasi impalpabile. Il risultato è straordinario: ogni singolo morso regala una croccantezza costante e appagante. La tenerezza della carne crea un contrasto perfetto con la croccantezza della panatura, in un gioco di consistenze che eleva il piatto.

    Panatura

    L’esecuzione della panatura raggiunge livelli di eccellenza tecnica. La copertura si rivela impeccabile, resistente a ogni taglio, dal più delicato al più deciso, mantenendo una perfetta aderenza alla carne. Non una briciola si stacca durante il consumo, testimonianza di una lavorazione esperta. La doratura uniforme rivela l’utilizzo professionale della friggitrice, garantendo una cottura omogenea su tutta la superficie.

    Olio di Cottura

    Qui emerge il punto critico della preparazione. La tradizione vuole la cotoletta fritta nel burro, chiarificato o naturale, poiché l’utilizzo dell’olio produce un risultato significativamente diverso. L’untuosità residua nella panatura assume con l’olio note aromatiche non sempre gradevoli, mentre il burro, anche quando raggiunge il punto di nocciola, mantiene una fragranza invitante e caratteristica. Non è casuale che nella tradizione francese, la preparazione delle crêpes prevede l’utilizzo del burro nocciola, ottenuto attraverso una cottura prolungata che ne esalta gli aromi.

    Valutazione Finale

    I miei parametri conducono a una valutazione complessiva:

    • Ambiente: 8/10
    • Materia Prima: 8/10
    • Esecuzione del Piatto: 7/10
    • Gusto Personale: 7/10

    Totale: 30/40 punti.

    Considerazioni Conclusive

    Un’esperienza culinaria che ci ricorda come la cucina sia molto più di semplice nutrimento: è un dialogo complesso e affascinante tra tradizione secolare, tecnica raffinata e sensibilità personale del cuoco. Il vino scelto era particolarmente degno di nota, un Soave “Pieropan” che si è dimostrato perfettamente all’altezza di contrastare la potenza e la ricchezza della frittura, creando un equilibrio armonioso al palato. Il conto si è rivelato più che adeguato per la qualità offerta.

    Se ci tornerò ancora? Sicuramente non lo escludo. Questo locale merita un posto nella mia agenda gastronomica.

    Continua così la nostra instancabile ricerca della perfezione gastronomica, tra tradizione e innovazione…

    #cucina #hobby #realtà #sogni

    Il Tiramisù: Storia e Tradizione Italiana

    Il mio ristorante vantava un’ampia selezione di dolci, eppure, come in un rituale collettivo, i clienti finivano invariabilmente per ordinare il tiramisù. Questa predilezione – quasi una dolce malattia – continua a dominare i cuori golosi, consacrando il tiramisù all’apice delle preferenze dolciarie italiane, particolarmente nell’esperienza conviviale del ristorante.

    Questa tradizione diventa quasi una piacevole condanna per chef e ristoratori che, per ragioni economiche e di soddisfazione della clientela, si sentono quasi obbligati a inserirlo nel menu. Allo stesso tempo, nasce l’impulso creativo di offrire una variazione distintiva: abbiamo così assistito alla nascita di tiramisù al pistacchio, alla fragola, destrutturati o costruiti su più livelli, che però hanno sempre lasciato lo stesso retrogusto nostalgico: “l’originale, in fondo, era migliore”.

    Un trionfo che travalica i confini delle nostre sale da pranzo e si propaga dal Belpaese verso ogni angolo del mondo, dove il tiramisù si erge a suprema espressione dell’italianità, ordinato e celebrato con devozione quasi religiosa. Non poteva dunque mancare una Giornata Mondiale dedicata, il 21 marzo appena trascorso, in cui tradizionalisti e innovatori possono confrontarsi non solo a tavola, ma anche attraverso i canali social, su quale sia la versione più autentica: più crema? Più caffè? Savoiardi o Pavesini? E se vi suggerissi un altro biscotto ancora, custodito nelle ricette della mia famiglia?

    Mia madre usava i biscotti secchi “Oro Saiwa”, e guai se le davi degli altri biscotti secchi! Io invece, usavo sfacciatamente i “Pavesini”.

    Tiramisù con biscotti secchiTiramisù con Pavesini

    Il tiramisù, come molte delle nostre tradizioni culinarie più amate, diventa così non solo un dolce, ma un racconto condiviso, un legame che unisce generazioni e culture in un abbraccio di mascarpone, caffè e cacao amaro.

    La storia e le origini

    Il tiramisù, dolce emblematico della nostra penisola, porta con sé non solo il profumo inconfondibile del caffè e del mascarpone, ma anche l’eco di quelle discussioni appassionate che tanto caratterizzano il nostro patrimonio culturale italiano. Come spesso accade con i tesori della nostra tradizione gastronomica, anche questa delizia si trova al centro di un affettuoso dibattito sulle sue origini – un fenomeno quasi rituale nella nostra cultura che ama narrare e rinarrare la propria storia attraverso il cibo.

    Il Veneto si erge con orgoglio quale culla di questa creazione, attribuendone la paternità alla pasticceria Le Beccherie di Treviso. Qui, negli anni Sessanta, nacque dall’estro creativo dello chef Roberto Linguanotto (venuto a mancare proprio l’anno scorso) in dolce simbiosi con la visione della proprietaria Alba Campeol. L’etimologia stessa del nome “tiramisù” ci sussurra la sua origine veneta attraverso quell’espressione dialettale tanto evocativa – “tirame su” – che racchiude non solo un invito a sollevarsi, ma anche una promessa di energia racchiusa negli ingredienti semplici eppure potenti di questa preparazione.

    È affascinante osservare come un dolce al cucchiaio possa diventare terreno di confronto identitario, specchio di quel caratteristico tratto italiano che ci porta a discutere con passione viscerale delle nostre radici culinarie. Questa tendenza, che potrebbe apparire autolesionista agli occhi di chi non comprende la profondità del nostro legame con la tradizione, è in realtà la manifestazione più autentica del nostro modo di preservare e onorare la memoria collettiva attraverso sapori che hanno nutrito generazioni.

    In fondo, non è forse vero che ogni cucchiaiata di tiramisù ci racconta non solo di ingredienti sapientemente assemblati, ma anche di quella connessione intima tra le nostre tavole e la nostra storia?

    L’altra narrativa sulle origini del tiramisù ci porta a un viaggio affascinante nel cuore del Friuli Venezia Giulia degli anni Cinquanta-Sessanta. Immaginiamo i profumi avvolgenti dell’Albergo Roma di Tolmezzo, dove le mani sapienti della pasticciera Norma Pielli avrebbero dato vita a quella che possiamo considerare l’antenata del nostro amato dolce. La Pielli, attingendo alla saggezza culinaria locale tramandata di generazione in generazione, avrebbe creato questa delizia utilizzando ingredienti semplici ma preziosi, facilmente reperibili nelle dispense di quella terra generosa.

    Non lontano da lì, nella provincia di Gorizia, un altro capitolo di questa storia si intreccia con il nome del cuoco Mario Cosolo, il cui “Vetturino” – dolce fratello del tiramisù – ricevette questo nome particolare dalle labbra di un cliente ispirato. Che meraviglia pensare a come i nomi dei nostri piatti nascano spesso da incontri fortuiti, da momenti di convivialità che si cristallizzano nel tempo!

    Il 2017 segna una tappa importante in questo racconto gastronomico: il Friuli ottiene finalmente il riconoscimento del tiramisù come prodotto agroalimentare tradizionale (Pat). Ma, come ben sappiamo, cari amici, nessun riconoscimento ufficiale può mettere a tacere il cuore pulsante della tradizione e della passione che alimenta questo dibattito, periodicamente ravvivato da nuove scoperte, come braci che non si spengono mai del tutto.

    Ciò che è certo, nella trama affascinante di questa storia, è che negli anni Ottanta il nostro tiramisù spiega metaforicamente le ali e varca l’oceano, facendosi conoscere negli Stati Uniti, per poi intraprendere un viaggio che lo porta a conquistare i palati di tutto il mondo. Oggi questo dolce rappresenta non solo una delizia culinaria ma un ponte tra culture, un ambasciatore silenzioso dell’Italia che parla il linguaggio universale della dolcezza, amato e celebrato praticamente in ogni angolo del pianeta.

    I DATI, OGGI: VIAGGIO NEL CUORE DOLCE DELL’ITALIA

    Eccoci nel 2025, e cosa ci sussurrano i dati all’orecchio, come vecchi amici che conoscono i nostri segreti più intimi? Sono le piattaforme digitali, queste nuove custodi delle nostre abitudini quotidiane, ad aver raccolto le confidenze dei nostri palati. TheFork, attraverso un’indagine meticolosa condotta da YouGov, ci conferma ciò che nel profondo già sapevamo: il tiramisù regna sovrano, amato e desiderato nei ristoranti, specialmente nel cuore dei giovani tra i 25 e 34 anni, seguito con rispettosa distanza dalla cheesecake e dai dessert che celebrano il cioccolato. La piattaforma JustEat ci svela che nel solo 2024, nelle case degli italiani sono entrati oltre 145.000 chilogrammi di dolcezza, con settemila chilogrammi dedicati esclusivamente al nostro amato tiramisù, indiscusso primo della classe.

    Ma la dolce epopea non si ferma alle tavole delle nostre case. Il tiramisù ha tessuto la trama delle fortune di numerose aziende del nostro Bel Paese, come il venerabile Forno Bonomi, primo maestro ed ambasciatore dei savoiardi nel mondo. Con orgoglio tutto italiano, ha dato vita a tre linee produttive che non conoscono riposo, vegliando giorno e notte per garantire trentotto quintali all’ora di quel biscotto che è diventato simbolo della nostra tradizione dolciaria. Nel 2024, come in una danza infinita di farina e zucchero, ha plasmato 20,3 milioni di savoiardi, portando un frammento della nostra anima gastronomica in cento nazioni diverse.

    Dal crepuscolo degli anni Sessanta e dall’alba dei Settanta, il tiramisù ci accompagna come un fedele compagno di viaggio nella storia della nostra identità culinaria, e non mostra segni di volerci abbandonare. E qui sorride con comprensione a cuochi, pasticcieri e ristoratori che, come esploratori coraggiosi, hanno tentato di proporre alternative, ma nulla sembra poter scalfire il trono di quel biscotto abbracciato dal caffè e cullato da una crema generosa. Rimane fermo nelle carte dei ristoranti, e la sua assenza rischia di lasciare un vuoto nel cuore del cliente, che malinconicamente rinuncia all’epilogo dolce del suo pasto.

    Esiste una speranza di rinnovamento, un sentiero ancora poco battuto? Forse nella tendenza emergente verso una pasticceria “del senza”: senza glutine, senza lattosio, senza zucchero. Quello che nacque come necessità per chi porta il fardello di intolleranze e allergie, sta fiorendo come un desiderio collettivo di abbracciare prodotti più gentili con il nostro corpo, meno gravati da grassi, additivi e altri elementi che non cantano in armonia con la nostra salute (oltre a sussurrare alle bilance di mostrare numeri più elevati).

    Tiramisù al pistacchioTiramisù alle fragoleTiramisù al limone

    Certamente, le varianti del tiramisù senza glutine già si affacciano come timide innovazioni, e la ricetta, nella sua sapiente malleabilità – ecco un’altra chiave del suo successo – si presta a queste metamorfosi. Ma conserverà l’essenza profonda che ci ha conquistato? Come dicevano i nostri nonni, ai posteri l’ardua sentenza, e noi attendiamo, con forchetta sospesa tra presente e futuro, pronti ad assaporare il prossimo capitolo di questa dolce storia italiana.

    #cognitiva #hobby #realtà #ricette #sogni #terapia

    Le Beccherie | Ristorante Treviso

    Le Beccherie - Ristorante Treviso

    Energia Pulita: Anche Cucinando Puoi Combattere La Povertà

    Immagina un futuro dove l’energia sostenibile non è solo una fonte di alimentazione domestica, ma diventa un potente strumento per combattere la povertà e ridurre il divario sociale tra le persone.

    Nel contesto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite, un team di ricercatori della City University di Hong Kong (CityUHK) ha evidenziato come la transizione verso combustibili puliti per la cucina possa contribuire significativamente al raggiungimento di diversi obiettivi chiave: energia pulita e accessibile (SDG 7), lotta alla povertà (SDG 1) e riduzione delle disuguaglianze (SDG 10).

    “Tradizionalmente, si pensa che la transizione energetica sia una conseguenza dello sviluppo economico. Questa ricerca, invece, dimostra che può essere un catalizzatore per ridurre le disparità e stimolare la crescita economica”, ha spiegato il professor Zhang Lin della School of Energy and Environment e del Department of Public and International Affairs della CityUHK, coordinatore dello studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.

    L’accesso ai combustibili puliti per cucinare rimane diseguale, particolarmente nelle nazioni in via di sviluppo. Esiste una forte correlazione tra povertà energetica e povertà economica, rendendo necessario un approccio integrato per affrontare entrambe le sfide.

    Analizzando i dati delle famiglie cinesi, i ricercatori hanno calcolato che un incremento del 10% nell’utilizzo di combustibili puliti per cucinare potrebbe generare un aumento del reddito familiare annuale complessivo di 37 miliardi di dollari. Questo beneficio economico risulta particolarmente significativo per le fasce di popolazione a basso reddito, contribuendo a ridurre le disparità economiche.

    “La sfida più grande della ricerca è stata comprendere come la transizione energetica influenzi la distribuzione del reddito”, ha commentato il professor Zhang. “Abbiamo scoperto che potenzia il capitale umano e ottimizza l’allocazione del tempo lavorativo”.

    I combustibili puliti per la cucina hanno un impatto significativo sulla salute, riducendo l’incidenza di patologie polmonari, malattie croniche e migliorando il benessere generale della popolazione. Un incremento del 10% nel loro utilizzo potrebbe tradursi in un risparmio annuale di 2,34 miliardi di dollari USA in spese sanitarie. Questi combustibili, inoltre, ottimizzano i tempi dedicati all’approvvigionamento e alla preparazione dei cibi, liberando circa 0,4 ore giornaliere per altre attività, con conseguente aumento della forza lavoro disponibile e del reddito familiare.

    Sebbene l’adozione di combustibili puliti per la cucina comporti costi variabili sia per i governi che per le famiglie, i vantaggi complessivi superano nettamente gli investimenti necessari. Il professor Zhang prevede che, entro il 2030, con la maggiore disponibilità di questi combustibili, si registreranno miglioramenti significativi sia nel reddito che nella riduzione delle disuguaglianze.

    “La nostra ricerca offre indicazioni fondamentali per accelerare il progresso globale verso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. I responsabili politici possono integrare soluzioni per energia, povertà e disuguaglianza in un approccio sinergico per promuovere il progresso collettivo”, ha sottolineato.

    Ulteriori informazioni: Cong Li et al, Energia-povertà-disuguaglianza SDGs: un’analisi e una previsione delle famiglie su larga scala in Cina, Proceedings of the National Academy of Sciences (2024).

    Ecco una sintesi delle soluzioni pratiche ispirate dalla ricerca della CityUHK, organizzate in punti chiave:

  • Incentivi economici e finanziari Sussidi governativi: Ridurre i costi iniziali per l’acquisto di stufe pulite o combustibili (es. programma Ujjwala in India).
  • Microcrediti: Facilitare l’accesso a prestiti a basso interesse per famiglie a basso reddito.
  • Sgravi fiscali: Per aziende che investono in tecnologie per combustibili puliti.
  • Infrastruttura e tecnologia Distribuzione decentralizzata: Reti per biogas, GPL o elettricità da rinnovabili (solare, eolica) in aree rurali.
  • Tecnologie locali: Promuovere digestori per biogas da rifiuti organici, integrati con agricoltura.
  • Manutenzione comunitaria: Creare centri di riparazione e formazione tecnica per garantire sostenibilità.
  • Educazione e sensibilizzazione Campagne sanitarie: Illustrare i rischi dei combustibili tradizionali (es. malattie respiratorie) e i benefici di quelli puliti.
  • Demo community: Progetti pilota in villaggi/quartieri per dimostrare l’impatto positivo.

    Coinvolgimento femminile: Formare donne come “ambasciatrici energetiche” per guidare il cambiamento.

    Politiche integrate Piani nazionali: Collegare transizione energetica a programmi di riduzione della povertà (es. accesso a energia pulita = requisito per sussidi economici).

    Partnership pubblico-private: Collaborazioni per finanziare infrastrutture e R&D.

    Quadri normativi: Standard obbligatori per combustibili puliti e incentivi per le aziende.

    Sviluppo economico e occupazione Creazione di posti di lavoro: Impieghi nella filiera dei combustibili puliti (produzione, distribuzione, manutenzione).Formazione professionale: Corsi per competenze tecniche o imprenditoriali legate all’energia sostenibile.

    Ottimizzazione del tempo: Canaliare il tempo risparmiato (0,4 ore/giorno) in educazione o piccoli business.

    Salute e benessere Integrazione con servizi sanitari: Screening gratuiti per malattie legate all’inquinamento indoor, abbinati alla transizione energetica.

    Fondi sanitari: Reindirizzare i risparmi dalle spese mediche ($2,34 miliardi/anno) in programmi preventivi.

    Finanziamento internazionale Aiuti e fondi climatici: Utilizzare meccanismi come il Green Climate Fund per supportare paesi in via di sviluppo.

    Carbon credits: Monetizzare la riduzione delle emissioni da combustibili puliti.

    Monitoraggio e adattamento Dati in tempo reale: Sistemi di tracciamento dell’adozione di combustibili puliti e impatto su reddito/disuguaglianze.

    Policy flessibili: Adeguare strategie in base ai feedback locali (es. preferenze culturali per tecnologie specifiche).

    La transizione verso combustibili puliti per la cucina può contribuire significativamente al raggiungimento di diversi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, inclusi energia accessibile, eliminazione della povertà e riduzione delle disuguaglianze. Un aumento del 10% nell’utilizzo di questi combustibili potrebbe incrementare il reddito familiare di 37 miliardi di dollari, beneficiando particolarmente i gruppi socioeconomici più vulnerabili. Questa trasformazione migliora il capitale umano, ottimizza la distribuzione del tempo lavorativo, riduce le spese sanitarie e aumenta la forza lavoro disponibile, superando ampiamente i costi di implementazione.

    Il risultato è come al solito un impegno che coinvolge tutti gli Stati, e il cammino è l’unione e non la separazione

    #cucina #hobby #realtà #sogni #terapia

    City University of Hong Kong

    Located in the heart of Hong Kong, City University of Hong Kong (CityUHK) has a well-earned reputation as an innovative hub for research and professional education and for addressing global issues and empowering positive change.

    City University of Hong Kong

    🧩🧩🧩
    IBRA INKROSE ©

    #life
    #vita
    #smoke
    #real
    #🚬mentoredelghetto
    #🚬menthorghetto
    #girlfriend
    #love
    #amore
    #real
    #write
    #scrittura
    #realtá
    #aforismadelgiorno

    Perché non ricordiamo di essere stati bambini?

    Premetto che mi sono sempre posto delle domande a cui questo articolo cerca di dare una risposta, ogni volta che trovavo una mia fotografia da infante e avevo come l’impressione di guardare un altro bambino.

    Sebbene impariamo così tanto durante i nostri primi anni di vita, non possiamo, da adulti, ricordare eventi specifici di quel periodo. I ricercatori hanno a lungo creduto che non ci aggrappiamo a queste esperienze perché la parte del cervello responsabile della conservazione dei ricordi, l’ippocampo, si sta ancora sviluppando fino all’adolescenza e non riesce a codificare i ricordi nei nostri primi anni. Ma una nuova ricerca di Yale trova prove che non è così.

    In uno studio, i ricercatori di Yale hanno mostrato ai neonati nuove immagini e in seguito hanno testato se le ricordavano. Quando l’ippocampo di un neonato era più attivo quando vedeva un’immagine la prima volta, era più probabile che sembrasse riconoscere quell’immagine in seguito.

    I risultati, pubblicati su Science, indicano che i ricordi possono effettivamente essere codificati nel nostro cervello nei nostri primi anni di vita. E i ricercatori stanno ora esaminando cosa accade a quei ricordi nel tempo.

    La nostra incapacità di ricordare eventi specifici dei primi anni di vita è chiamata “amnesia infantile”. Ma studiare questo fenomeno è impegnativo.

    “La caratteristica distintiva di questi tipi di ricordi, che chiamiamo ricordi episodici , è che è possibile descriverli ad altri, ma ciò è fuori questione quando si ha a che fare con neonati in età preverbale”, ha affermato Nick Turk-Browne, professore di psicologia presso la Facoltà di Arti e Scienze di Yale, direttore del Wu Tsai Institute di Yale e autore principale dello studio.

    Per lo studio, i ricercatori volevano identificare un modo robusto per testare i ricordi episodici dei neonati. Il team, guidato da Tristan Yates, all’epoca studente laureato e ora ricercatore post-dottorato alla Columbia University, ha utilizzato un approccio in cui mostravano ai neonati di età compresa tra quattro mesi e due anni l’immagine di un nuovo volto, oggetto o scena. In seguito, dopo che i neonati avevano visto diverse altre immagini, i ricercatori hanno mostrato loro un’immagine vista in precedenza accanto a una nuova.

    “Quando i bambini hanno visto qualcosa solo una volta prima, ci aspettiamo che la guardino di più quando la rivedranno”, ha detto Turk-Browne. “Quindi in questo compito, se un bambino fissa l’immagine vista in precedenza più di quella nuova accanto, questo può essere interpretato come il bambino che la riconosce come familiare”.

    Nel nuovo studio, il team di ricerca, che negli ultimi dieci anni ha sperimentato metodi pionieristici per condurre la risonanza magnetica funzionale (fMRI) su neonati svegli (operazione che storicamente è stata difficile a causa della breve capacità di attenzione dei neonati e dell’incapacità di stare fermi o di seguire le istruzioni), ha misurato l’attività nell’ippocampo dei neonati mentre osservavano le immagini.

    Nello specifico, i ricercatori hanno valutato se l’attività dell’ippocampo fosse correlata alla forza dei ricordi di un neonato. Hanno scoperto che maggiore era l’attività nell’ippocampo quando un neonato guardava una nuova immagine, più a lungo il neonato la guardava quando riappariva in seguito. E la parte posteriore dell’ippocampo (la porzione più vicina alla parte posteriore della testa) dove l’attività di codifica era più forte è la stessa area che è maggiormente associata alla memoria episodica negli adulti.

    Questi risultati erano veri per l’intero campione di 26 neonati, ma erano più forti tra quelli di età superiore ai 12 mesi (metà del gruppo campione). Questo effetto età sta portando a una teoria più completa su come l’ippocampo si sviluppa per supportare l’apprendimento e la memoria, ha affermato Turk-Browne.

    In precedenza, il team di ricerca aveva scoperto che l’ippocampo di neonati di appena tre mesi mostrava un diverso tipo di memoria, chiamato “apprendimento statistico”. Mentre la memoria episodica si occupa di eventi specifici, come, ad esempio, condividere un pasto tailandese con visitatori da fuori città la sera prima, l’apprendimento statistico riguarda l’estrazione di modelli attraverso gli eventi, come l’aspetto dei ristoranti, in quali quartieri si trovano determinati tipi di cucina o la cadenza tipica di essere seduti e serviti.

    Questi due tipi di memoria utilizzano percorsi neuronali diversi nell’ippocampo. E in precedenti studi sugli animali, i ricercatori hanno dimostrato che il percorso di apprendimento statistico, che si trova nella parte più anteriore dell’ippocampo (l’area più vicina alla parte anteriore della testa), si sviluppa prima di quello della memoria episodica.

    Pertanto, Turk-Browne sospettava che la memoria episodica potesse apparire più tardi nell’infanzia, intorno a un anno o più. Sostiene che questa progressione evolutiva ha senso quando si pensa alle esigenze dei neonati.

    “L’apprendimento statistico riguarda l’estrazione della struttura nel mondo che ci circonda”, ha affermato. “Questo è fondamentale per lo sviluppo del linguaggio, della visione, dei concetti e altro ancora. Quindi è comprensibile perché l’apprendimento statistico possa entrare in gioco prima della memoria episodica”.

    Tuttavia, l’ultimo studio del team di ricerca mostra che i ricordi episodici possono essere codificati dall’ippocampo prima di quanto si pensasse in precedenza, molto prima dei primi ricordi che possiamo riportare da adulti. Quindi, cosa succede a questi ricordi?

    Ci sono alcune possibilità, dice Turk-Browne. Una è che i ricordi potrebbero non essere convertiti in un archivio a lungo termine e quindi semplicemente non durare a lungo. Un’altra è che i ricordi siano ancora lì a lungo dopo la codifica e semplicemente non possiamo accedervi. E Turk-Browne sospetta che possa essere quest’ultima.

    Nel suo lavoro in corso, il team di Turk-Browne sta testando se neonati , bambini piccoli e bambini riescano a ricordare video casalinghi ripresi dal loro punto di vista quando erano (piccoli) neonati, con risultati pilota provvisori che mostrano che questi ricordi potrebbero persistere fino all’età prescolare prima di svanire.

    Le nuove scoperte, guidate da Yates, forniscono un collegamento importante.

    “Il lavoro di Tristan sugli esseri umani è notevolmente compatibile con le recenti prove sugli animali che dimostrano che l’amnesia infantile è un problema di recupero”, ha affermato Turk-Browne. “Stiamo lavorando per tracciare la durata dei ricordi dell’ippocampo durante l’infanzia e stiamo persino iniziando a considerare la possibilità radicale, quasi fantascientifica, che possano durare in qualche forma fino all’età adulta, nonostante siano inaccessibili”.

    Pertanto possiamo dire che:

    I neonati possono codificare i ricordi nei loro primi anni di vita, sfidando la convinzione che l’ippocampo sia troppo poco sviluppato per la formazione della memoria. Lo studio ha scoperto che una maggiore attività dell’ippocampo nei neonati è correlata al riconoscimento della memoria. Mentre la memoria episodica appare intorno a un anno, l’apprendimento statistico avviene prima. L’amnesia infantile può derivare da problemi di recupero piuttosto che da perdita di memoria, con alcuni ricordi che potenzialmente persistono fino all’età adulta.

    Ulteriori informazioni: Tristan S. Yates et al, Codifica ippocampale dei ricordi nei neonati umani, Science (2025). www.science.org/doi/10.1126/science.adt7570

    #cognitiva #hobby #realtà #sogni

    Cosa è il ippocampo?

    L'ippocampo è una preziosa struttura cerebrale, che contribuisce alla memoria a breve e a lungo termine, alla memoria spaziale e all'orientamento. Morfologicamente

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    La Ricerca della Cotoletta Perfetta #2

    Seconda tappa del viaggio nel cuore più intimo e profondo della tradizione culinaria italiana: la ricerca della cotoletta perfetta, un percorso che ci porterà a scoprire non solo un piatto iconico, ma l’essenza stessa della nostra cultura gastronomica.

    La Metodologia di Indagine

    Il nostro percorso di ricerca seguirà una valutazione accurata e quasi scientifica, articolata in quattro dimensioni fondamentali, ciascuna delle quali rappresenta un pilastro essenziale nell’esperienza gastronomica complessiva:

    • Ambiente: L’involucro architettonico e sensoriale che accoglie l’esperienza gastronomica, dall’illuminazione all’arredamento, dalla disposizione dei tavoli all’atmosfera generale del locale.
    • Materia Prima: L’essenza stessa del piatto, la sua origine e qualità, dalla scelta della carne alla sua provenienza, dalla freschezza degli ingredienti alla loro autenticità.
    • Esecuzione del Piatto: La maestria artigianale che trasforma gli ingredienti in arte, dalla preparazione alla cottura, dalla panatura alla presentazione finale.
    • Gusto Personale: L’esperienza soggettiva, unica e irripetibile del singolo commensale, che tiene conto delle preferenze individuali e delle aspettative personali.

    Ogni dimensione riceverà un punteggio da 1 a 10, la cui somma determinerà un giudizio complessivo, permettendoci di valutare in modo obiettivo e strutturato ogni esperienza.

    La Serata

    Prenotiamo una serata infrasettimanale, quando i ritmi sono più rilassati e l’atmosfera più intima. Entriamo in un locale storico, dove si respira aria antica ed elegante anche se un pò dismessa, come un nobile decaduto che fatica a restare al passo con i tempi ma conserva intatto il suo fascino d’altri tempi. Alla cassa, vicina all’ingresso, ci attende il titolare; i saluti convenevoli anticipano un guizzo negli occhi, quello sguardo di riconoscimento reciproco che solo i veri amanti della cucina sanno scambiarsi. Ci riconosciamo, non so dove, non so come ci siamo conosciuti, ma in un attimo siamo a raccontarci della nostra attività con tutte le cose belle e brutte, come vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo. Solamente l’arrivo di altre persone interrompe il nostro Amarcord, quel momento di nostalgia condivisa. Sediamo in una parte della sala, dove c’è un pò di gente ai tavoli; l’altra parte ha la luce spenta, creando un’atmosfera intima e raccolta. Leggiamo un menù che ha il sapore di antico, di storia della cucina, piatti del territorio molto interessanti, testimoni di una tradizione culinaria che resiste al passare del tempo.

    L’analisi Tecnica della Cotoletta

    La cotoletta si presenta maestosa nella sua imponenza. Nel menù, il ristorante offre due varianti dimensionali: big e small, una scelta che dimostra l’attenzione alle diverse esigenze dei commensali. Naturalmente, seguendo il nostro spirito di ricerca approfondita, optiamo per la versione big. I contorni si dividono in due proposte distinte: da un lato le classiche patate fritte, dall’altro un’insalata di pomodorini e rucola. Le patatine si rivelano croccanti e ben dorate, con quella giusta dose di friabilità che le rende piacevoli al palato, sebbene l’origine surgelata tradisca un po’ le aspettative di chi cerca l’autenticità totale. I pomodorini, scelta eccellente per bilanciare la ricchezza della carne, peccano nella temperatura di servizio, troppo fredda per accompagnare adeguatamente il piatto principale. La sezione dei contorni meriterebbe maggiore attenzione, considerando il loro ruolo fondamentale nell’esaltare le qualità della cotoletta. Sorvolo sugli spicchi di limone aggiunti sopra una foglia di lattuga: è un retaggio degli anni ottanta e l’insalata almeno metterla fresca.

    Tecnica di Cottura

    Questa interpretazione della cotoletta si distingue dalla precedente per l’assenza dell’osso, una scelta precisa che influenza l’intera esperienza gustativa. La carne viene sapientemente battuta prima della cottura fino a raggiungere uno spessore minimo, quasi impalpabile. Il risultato è straordinario: ogni singolo morso regala una croccantezza costante e appagante. La tenerezza della carne crea un contrasto perfetto con la croccantezza della panatura, in un gioco di consistenze che eleva il piatto.

    Panatura

    L’esecuzione della panatura raggiunge livelli di eccellenza tecnica. La copertura si rivela impeccabile, resistente a ogni taglio, dal più delicato al più deciso, mantenendo una perfetta aderenza alla carne. Non una briciola si stacca durante il consumo, testimonianza di una lavorazione esperta. La doratura uniforme rivela l’utilizzo professionale della friggitrice, garantendo una cottura omogenea su tutta la superficie.

    Olio di Cottura

    Qui emerge il punto critico della preparazione. La tradizione vuole la cotoletta fritta nel burro, chiarificato o naturale, poiché l’utilizzo dell’olio produce un risultato significativamente diverso. L’untuosità residua nella panatura assume con l’olio note aromatiche non sempre gradevoli, mentre il burro, anche quando raggiunge il punto di nocciola, mantiene una fragranza invitante e caratteristica. Non è casuale che nella tradizione francese, la preparazione delle crêpes prevede l’utilizzo del burro nocciola, ottenuto attraverso una cottura prolungata che ne esalta gli aromi.

    Valutazione Finale

    I miei parametri conducono a una valutazione complessiva:

    • Ambiente: 8/10
    • Materia Prima: 8/10
    • Esecuzione del Piatto: 7/10
    • Gusto Personale: 7/10

    Totale: 30/40 punti.

    Considerazioni Conclusive

    Un’esperienza culinaria che ci ricorda come la cucina sia molto più di semplice nutrimento: è un dialogo complesso e affascinante tra tradizione secolare, tecnica raffinata e sensibilità personale del cuoco. Il vino scelto era particolarmente degno di nota, un Soave “Pieropan” che si è dimostrato perfettamente all’altezza di contrastare la potenza e la ricchezza della frittura, creando un equilibrio armonioso al palato. Il conto si è rivelato più che adeguato per la qualità offerta.

    Se ci tornerò ancora? Sicuramente non lo escludo. Questo locale merita un posto nella mia agenda gastronomica.

    Continua così la nostra instancabile ricerca della perfezione gastronomica, tra tradizione e innovazione…

    #cucina #hobby #realtà #sogni