Poesie surrazionali di Roberto Bertoldo – Il surrazionalismo “tonosimbolico e intrasemico” come espressione del volto codificato del dolore, come traslazione surrazionale di un trauma storico reale
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.(Roberto Bertoldo con Alfredo De Palchi, 2016)
Caro Giorgio,
in risposta al tuo interessante quesito [Che cos’è il surrazionale in poesia? n.d.r.], confermo che surrazionale è il procedimento, non l’esito. Credo che in genere molti poeti siano surrazionali nel procedimento, con esiti però diversissimi. Lo erano senz’altro i surrealisti, ma il surrealismo privilegiava inconscio, sogno, automatismi psichici che scivolano in forme espressive che respingono forzatamente ogni archetipo razionale, che invero ci appartiene. Lo erano i simbolisti, ma in qualche modo erano ancora scolastici, a parte forse Rimbaud, che però tende più ad esiti surreali. E lo erano gli ermetici. Ma io mi riferisco a qualcosa d’altro ancora, perché i procedimenti surrazionali possono anche sfociare in un simbolismo ancora più complesso.
Per ciò che concerne la mia poesia io giudicai l’esito, a posteriori, “tonosimbolico e intrasemico”. Per esempio, scrivendo la poesia “Forse non è il lago” datata 11 settembre 2001 e presente in L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006, io, nell’emozione della distruzione delle Twin Towers, mi sentii proiettato in riva ad un lago di sera e vergai questi versi:
Forse non è il lago che fuma.
È la sera che, scendendo, spezza i rami
dell’acqua morta. Poi volano anche le anatre,
allungate come serve. Anche i pesci evadono
e hanno un occhio sconfitto, sanno
il nostro odore di uomini, quella puzza
di cadaveri trascendentali.
Oggi non è più il lago che fuma,
è l’eccetera della coscienza.
Ecco, le immagini vanno oltre la ragione che però non è del tutto assente nella logica compositiva. Esse non sono astratte ma correlate alla situazione reale e vanno oltre il fumo delle torri gemelle, giungono fino alla condanna.
Scrissi diffusamente di “tonosimbolismo” in Nullismo e letteratura, in particolare nella seconda edizione del 2011, nei capitoli “L’interpretazione simbolica e il tonosimbolismo” e “Creatività e complementarità del tonosimbolismo”. Dunque, il tonosimbolismo è la procedura automatica che trascina con sé le nostre abitudini espressive e competenze, ad avere tutt’al più un carattere surrazionale. Gli esiti di una poesia surrazionale potrebbero essere il tonosimbolismo, i rimandi intersemici, i correlativi oggettivi e i correlativi tonali.
In Maria Rosaria Madonna non vedo elementi che possano farmi parlare di procedimento surrazionale.
Qui due citazioni da miei saggi:
«Quando parlai per la prima volta di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intenzioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena post-simbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi. C’è un momento della creatività, che molti scrittori conoscono, in cui il proprio pensiero e il proprio stato d’animo che il pensiero cerca in qualche modo di rilevare raggiungono una condizione di estrema profondità nella quale i mondi creativi convergono e danno il senso, per noi, di ciò che proviamo. Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio: dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva» (Roberto Bertoldo, Nullismo e letteratura. Nuova edizione, Mimesis, Milano 2011, p. 250)
«Surrazionale è quel testo letterario in cui l’immaginazione è, pur soggetta alle emozioni e alle inevitabili induzioni, creativamente libera e la ragione attua su di essa solo un controllo più o meno lieve, a seconda del livello dislogico, solo nella fase della rappresentazione» (Roberto Bertoldo, La profondità della letteratura, Mimesis, Milano 2016, p. 329)
(Roberto Bertoldo)
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Da Il calvario delle gru, Bordighera Press 2000
La baita
Non ci sono cavalle, qui, con zoccoli di stagno
nessun rigagnolo di marmi o venature d’orina,
qui c’è un coltello di piogge e di vento
che taglia la campagna, una caverna di sospiri
che abbraccia le secchiate dei fulmini.
E dentro, alla brina e al fuoco, una vena d’aria
traccia gomene di silenzi, gallerie disfatte
dove i corvi rivestono le spighe. Un altro passo
se n’è andato, un’altra larva del dolore.
Da L’archivio delle bestemmie, Mimesis 2006
Ad una nuvola
Ho una lama che si chiama cuore,
le sue carezze sono sentenze,
se palpita non è che la melodia dell’acciaio.
E tu vuoi che la mia mano canti
il riflesso attinto dai candelabri
quando i cespugli sbriciolavano
le ali dei passeri in fuga?
C’è stato un vento e c’è stato un autunno,
ora sotto le piogge gli uccelli volano piangendo
tra le nervature delle foglie.
Tutte le nuvole che ho amato
hanno versato lacrime che mi diffamano.
Da Pergamena dei ribelli, Joker 2011
Butterete ostie…
Butterete ostie sui carri allegorici
e le mani dei vecchi si perderanno
dove il buio è fugace, rosa nera,
in camice di nuvole, falsate dal vento.
Il polline della vergogna si posa
sulle pietre e i quadrifogli,
la luna, stipata, cancella la corteccia
degli amori infilzati dalle parole.
Voglio portare altri felici al regno del mondo,
gesù cristo era un bambino down
e sorprendeva i raggi del sole
con il suo sorriso d’ocra.
Disprezzerete anche questa pergamena
che snocciolo con la protervia
delle mie mani piantate sui muri
con contorni di sangue sanscrita.
Da Il popolo che sono, Mimesis, 2016.
Corpo di popolo
Questi uomini poveri che accostano
barche e ventri spiazzati e hanno varcato il sale
per la pietà, come pellegrini che ignorano
l’occhio spurio della fede,
abbracciano la sporcizia degli evasi,
il loro dovere malsano – ci sono corpi di popolo
sotto le vicissitudini, insieme saremo
labari e deserto per i nostri padroni.
Io sono il popolo e navigo negli interstizi,
il mare che si spezza agevola i ricordi
da una riva all’altra.
Sulle banchine sono il perdente
tra lo sbatacchiare dei pipistrelli
e ricordo gli anfratti del tempo
che ingigantiscono la vita
e forse il mio onore di servo.
Conosco così le sere, come i gelsomini cionchi
che sproloquiano dalle terrazze.
Il surrazionalismo come espressione del volto codificato del dolore, come traslazione surrazionale di un trauma storico reale
Il cosiddetto “surrazionalismo” di Roberto Bertoldo non designa una poetica dell’esito, né una scuola riconoscibile per tratti stilistici immediatamente classificabili, quanto piuttosto una modalità generativa del testo, un procedimento conoscitivo ed espressivo che si colloca deliberatamente in una zona di attrito fra immaginazione e ragione e post-sperimentalismo. È lo stesso Bertoldo a precisare che “surrazionale è il procedimento, non l’esito”, e questa distinzione è decisiva: ciò che viene oltrepassato non è la razionalità del discorso poetico indirizzato verso la comunicazione in quanto tale, bensì una sua funzione denominativa e prescrittiva sull’immaginazione. Le singole immagini nascono già con le stimmate delle cicatrici del dolore della storia, poiché il dolore, come insegna Adorno, è la marca delle cicatrici della storia («l’espressione è il volto codificato del dolore», Teoria estetica, Adorno). La poesia bertoldiana nasce in una condizione di sommergibilismo dei suoi antenati storici (Mallarmé, Blok, Vjaceslav Ivanov, e qui da noi un minore, Onofri), in cui emozione e il linguaggio di quell’emozione convergono nel volto codificato del dolore senza che l’una annulli l’altro, e in cui la ragione non abdica, ma arretra a una funzione di controllo compositivo, lieve, magari differito, di seconda istanza, ma pur sempre entro l’orbita espressivo-semantica della rappresentazione simbolica. In quest’ottica si avvertono nei testi bertoldiani dei distopismi che però restano nel campo dell’espressività semantica, ecco degli esempi: “i gelsomini cionchi / che sproloquiano dalle terrazze”; “Butterete ostie sui carri allegorici / e le mani dei vecchi si perderanno / dove il buio è fugace, rosa nera, / in camice di nuvole, falsate dal vento”.
In questa ottica, il surrazionalismo bertoldiano è un unicum nella poesia italiana delle ultime decadi, essendo esso pur sempre una rappresentazione del mondo, si differenzia nettamente dal surrealismo storico, che privilegiava l’automatismo psichico, il sogno e l’inconscio come dispositivi di liberazione da ogni vincolo logico-razionale. In Bertoldo non vi è mai deragliamento del senso incontrollato: le immagini, pur sorgendo da un processo che precede la razionalizzazione discorsiva, sono correlate a un nucleo esperienziale e storico preciso. Emblematico è il caso di “Forse non è il lago”, poesia scritta l’11 settembre 2001, dove la visione di un lago serale che “fuma” non è evasione simbolica, ma traslazione surrazionale di un trauma storico reale. Versi come “sanno / il nostro odore di uomini, quella puzza / di cadaveri trascendentali” non eludono la realtà delle Twin Towers, ma la portano a un livello di condanna universale, in cui l’immagine supera la cronaca senza mai reciderne il legame. Il celebre verso finale, “oggi non è più il lago che fuma, / è l’eccetera della coscienza”, chiarisce bene come l’operazione poetica consista in un ampliamento semantico, non in una fuga dall’intelligibile.
Questo modo di procedere colloca Bertoldo in una linea post-simbolista che attraversa tanto la tradizione italiana quanto quella europea. Come nel simbolismo maturo, l’immagine non è decorativa né arbitraria, ma portatrice di una tensione conoscitiva; tuttavia, rispetto ai simbolisti storici, Bertoldo rinuncia a ogni residuo di sistematicità scolastica del simbolo. L’immagine non rimanda a un significato stabilizzato, bensì a un campo tonale e intrasemico, secondo quella che egli stesso ha definito, a posteriori, una poetica “tonosimbolica”. In testi come “La baita”, dove “un coltello di piogge e di vento / taglia la campagna” e “una vena d’aria / traccia gomene di silenzi”. La forza del verso non risiede nella decifrabilità allegorica, ma nella coerenza tonale che lega elementi naturali, corporei e affettivi in un’unica espressione semanticamente orchestrata.
I punti di contatto con la tradizione italiana sono evidenti se si pensa all’ermetismo, soprattutto nella sua fase meno programmatica; anche lì il senso nasceva da una concentrazione estrema dell’immagine e da una logica interna non parafrasabile. Ma è bene anche dire che il surrazionalismo nulla ha in comune con le poetiche neo-orfiche del secondo novecento italiano. Tuttavia, mentre l’ermetismo tendeva spesso a una rarefazione astratta, il surrazionalismo bertoldiano mantiene una forte densità materica e storica. In “Ad una nuvola”, la metafora del cuore come lama (“Ho una lama che si chiama cuore”) non si chiude in un lirismo autoreferenziale, ma si apre alla memoria della ferita del mondo, in cui vento, autunno e pioggia diventano vettori di una colpa e di una diffamazione che investe il soggetto, l’espressione poetica e il reale insieme.
Il dialogo con la poesia europea va individuato soprattutto con quella linea che va da Rimbaud e Mallarmé al post-simbolismo novecentesco, più che con le avanguardie storiche. Come in Rimbaud, vi è in Bertoldo una “sregolatezza” che è metodo, non caos, una veggenza che nasce da un’intensificazione del reale. Ma, diversamente da molte esperienze novecentesche di dissoluzione del soggetto, come ad esempio la poesia distopica, la sua poesia conserva una forte istanza etica e civile. In “Corpo di popolo”, l’io lirico si identifica apertamente con una collettività ferita da una colpa metafisica: “Io sono il popolo e navigo negli interstizi”, afferma il poeta piemontese, mostrando come il procedimento surrazionale possa farsi strumento di rappresentazione politica, capace di tenere insieme visione e responsabilità civica.
Il surrazionalismo di Bertoldo, dunque, appartiene interamente alla metafisica del novecento, non è una negazione della tradizione, ma una sua rielaborazione e attualizzazione storico-critica. Esso assume dal simbolismo e dall’ermetismo l’idea che il senso poetico non sia riducibile alla logica discorsiva della forma-poesia, ma rifiuta tanto l’automatismo surrealista quanto l’autonomia estetizzante dell’immagine. La poesia diventa così il luogo di un equilibrio instabile ma produttivo di ecceità in cui l’immaginazione è “creativamente libera” e la ragione esercita un controllo non repressivo, non regressivo ma neanche distopico, garantendo una coerenza tonale e semantica al testo che consente di dire il mondo andando oltre la superficie della sua immagine allo specchio, (procedimento tipico della poesia incentrata sull’io plenipotenziario della poesia italiana di questi ultimi decenni), ma senza neanche perderlo del tutto di vista.
(Giorgio Linguaglossa)
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