Angleton si fece consegnare dai partigiani che l’avevano catturato il comandante della X MAS Junio Valerio Borghese

Mi sono soffermato molto sull’aspetto internazionale e sul legame con gli ambienti della NATO che ha avuto la strategia della tensione; adesso voglio invece approfondire il fronte interno, parlando delle responsabilità degli attori dello stato e ripercorrendo brevemente la storia post-bellica dei servizi segreti, per analizzare il ruolo che hanno avuto nella strategia della tensione. Nel primo capitolo ci sono molti riferimenti a ciò che è stato il depistaggio praticato dai servizi segreti italiani, benché spesso manipolati da quelli anglo-americani. L’azione di depistaggio ha avuto la finalità di distogliere l’attenzione dalle forze eversive di destra (quelle effettivamente colpevoli degli attentati), cercando di far ricadere la colpa delle stragi sui gruppi extraparlamentari di sinistra. L’atto di nascondere le trame eversive rappresenta di per sé un reato e una colpa molto gravi, ancor più grave è coadiuvare la strategia e operare per il proseguo di essa. Ciò nonostante essa, non ha preso forma in seno a gruppi eversivi nascosti e segreti, ma questi sono stati un mezzo con il quale attori di tutt’altro contesto hanno ricercato un fine. Un fine che riguardava la stabilità di una forma di governo, la quale garantisse ai partiti di centro (la Dc su tutti) la continuità sulla determinazione dell’indirizzo politico dell’Italia.
L’implicazione delle istituzioni dello Stato rimanda a un argomento molto importante e delicato che ho già accennato nel primo capitolo: la continuità tra Stato fascista e Repubblica democratica. D’altronde, ciò ha significato l’assegnazione di esecutori materiali del regime a posizioni di vertice nel nuovo Stato. Pochissimi vennero condannati a morte; le detenzioni, anche di chi si era macchiato di crimini contro il popolo italiano stesso, furono molto brevi. Cito nuovamente il libro dello storico Davide Conti, Gli uomini di Mussolini (2017), che fa una panoramica precisa della situazione: «”Se c’era un’istituzione che l’8 settembre si era dissolta in modo sfacciato e insieme tragico di fronte agli occhi di tutti gli italiani, questa era l’esercito”. La rotta del regio esercito e lo sbando totale delle truppe in Africa, nei Balcani, in Russia fino all’abbandono simbolico della capitale, lasciata in balia dei tedeschi dopo la fuga del re e dei massimi vertici militari, avrebbero dovuto costituire la premessa storica, politica e istituzionale per una cesura irriducibile tra l’eredità dello Stato sabaudo e la nascita della Repubblica democratica. Al contrario, proprio in questa leva nevralgica della ricostruzione istituzionale si verificò un visibile fenomeno di convergenza: degli apparati del regno del Sud a conduzione monarchica; delle gerarchie militari che avevano guidato tutte le guerre fasciste del Ventennio; di elementi dell’esercito della Repubblica sociale. La composizione, dapprima relativa e poi progressivamente sempre più organica, di questo blocco continuista determinò un assetto interno alle istituzioni in grado di indirizzare scelte, linee politiche, procedure legislative e amministrative ostili all’avvio di un processo di sostanziale rinnovamento dello Stato» <101. Effettivamente un auspicabile rinnovamento non c’è stato. Nonostante il notevole ampliamento della libertà, come sottolinea l’articolo 13 della Costituzione italiana, e altri vari elementi di discontinuità, il fatto di essere governato da una classe dirigente organica rispetto al Ventennio ha in parte reciso questa libertà del popolo italiano. Come la libertà di quelle persone di andare in una banca, prendere un treno, o trovarsi in piazza per una manifestazione senza rischiare la propria vita.
Manlio Milani, sopravvissuto alla strage di piazza della Loggia, nella quale perse la moglie, scrive nella sua testimonianza che la condanna all’ergastolo di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, gli ordinovisti veneti autori della strage, ha in qualche modo riconciliato i familiari delle vittime con le regole democratiche. La volontà e l’obiettivo di chi studia e chi scrive a riguardo del periodo stragista è una riconciliazione dell’intero paese. «Ma è doveroso domandarsi: a quali condizioni e con quali modalità l’attuale frattura tra verità giudiziaria, verità storica e coscienza collettiva può essere ricomposta? Non di certo attraverso le annuali “commemorazioni” di rito delle tragedie del terrorismo. In realtà una “memoria” degna di questo nome, fondativa di un’autentica operazione di giustizia verso le vittime, i loro familiari e il Paese intero, non può andare disgiunta dal sommo valore della verità, o almeno, più umilmente, da quei frammenti di verità che la ricostruzione storica elaborata dai saggi ospitati in questo volume ci pare sia in grado di offrire oggi alla consapevolezza e alla sensibilità degli studiosi, dei rappresentanti delle istituzioni e della collettività. La ricordata sentenza di condanna di Maggi e Tramonte è per molti versi un documento di eccezionale valore, su cui è necessario meditare perché stabilisce con esemplare chiarezza che “lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze […] individuabili ormai con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere, che hanno, prima, incoraggiato e supportato lo sviluppo di progetti eversivi della destra estrema, ed hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche» <102.
Del ruolo dei servizi segreti italiani ho parlato spesso, l’implicazione è evidente; si può dire che non depone a loro vantaggio il fatto che gli archivi dei centri territoriali del SID, in particolare di quello di Padova, una città chiave per le ragioni che conosciamo, siano stati distrutti a metà degli anni Ottanta. Stando a quanto ha dichiarato il maggiore Giuseppe Bottallo, ciò è dipeso da un ordine dell’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del SISMI (ex SID) <103. Questo tipo di decisione alimenta la tesi del totale coinvolgimento nelle trame dei decenni precedenti, inoltre lascia spazio a supposizioni di vario genere. Per esempio, che cosa si sarebbe ulteriormente scoperto se gli archivi del SID fossero rimasti intatti? E ancora, c’è chi a livello politico ha fatto pressioni affinché gli archivi venissero distrutti? Sicuramente le informazioni contenute negli archivi avrebbero danneggiato ulteriormente l’immagine di determinati personaggi; forse sarebbero uscite nuove verità. Quello che sappiamo però è già parecchio e ci permette di tracciare un breve quadro storico dei Servizi segreti, ma occorre procedere passo per passo.
Per ripercorrere le tappe del Servizio segreto italiano, occorre tornare ai primi anni successivi alla caduta del fascismo. Ho parlato in precedenza di James Angleton, membro della CIA, il quale trascorse molti anni a Roma. Un’operazione effettuata da James Angleton fu, come vedremo, il recupero del poderoso archivio della polizia segreta fascista grazie all’aiuto del commissario di polizia Federico Umberto D’Amato. Ma tra le prime vi fu, molto importante da sottolineare, l’operazione effettuata il 30 aprile 1945 a Milano, dove Angleton si fece consegnare dai partigiani che l’avevano catturato il comandante della X MAS Junio Valerio Borghese. Poi lo accompagnò a Roma sotto la sua personale protezione, assicurandogli un destino sicuramente più benevolo di quello che gli sarebbe stato riservato a Milano dal Comitato di Liberazione Nazionale e anche un futuro di avventure reazionarie. A fargli da assistente fu proprio D’Amato, il quale venne da subito ben visto da Angleton che lo giudicava un volenteroso apprendista. L’agente CIA chiarì, in parole semplici, che dopo la sconfitta del fascismo il nuovo nemico era il comunismo. Per combatterlo è sicuramente utile allearsi con i fascisti, il nemico di prima, che non chiede altro <104. Angleton e i suoi agenti, fecero un colpo sensazionale visti gli effetti che esso provocò nei decenni successivi nel nostro paese: «tra la fine del 1944 e l’inizio del 1946, riciclarono nei propri apparati la rete dell’OVRA fascista <105, impossessandosi del poderoso archivio allestito durante il Ventennio». Questo avrebbe portato a un lungo gioco di ricatti e intossicazione della vita pubblica, rivelandosi decisivo per le vicende interne del nostro paese. «Insieme a spezzoni del vecchio Battaglione 808 dei carabinieri, infatti, quel colpo avrebbe anche partorito una sorta di cabina di regìa della strategia della tensione, tra la fine degli anni Sessanta e buona parte dei Settanta del Novecento; il famigerato Ufficio affari riservati del ministero degli Interni, diretto per lungo tempo da Federico Umberto D’Amato. E fu proprio lui, D’Amato, all’epoca già alle dirette dipendenze di James Jesus, a condurre in porto quella che passò agli annali come l’”Operazione Leto”, Guido Leto, il potentissimo capo dell’OVRA» <106. D’Amato ebbe il compito, affidatogli da Angleton, di prendere contatti con alcuni elementi della polizia politica della Repubblica sociale italiana. Tra questi c’era Guido Leto, che dopo gli incontri segreti con D’Amato, si consegnò al CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia). Leto entrò successivamente in contatto con alcuni rappresentanti del Governo Militare Alleato (GMA) al Nord, ovvero due militari dei servizi britannici, il maggiore Harris e il capitano Baker, indicando loro l’ubicazione degli archivi dell’OVRA. «Mentre tutti credevano che i capi della polizia fascista fossero agli arresti e in attesa di un processo, a sorpresa i due ufficiali inglesi decisero di collocare Leto in “libertà condizionata”, affidandogli “per conto del GMA” addirittura la “custodia degli archivi integrali”, con tutti i documenti raccolti durante il Ventennio e nel breve periodo della Rsi» <107. Quando da Roma ci si accorse che qualcosa non andava, venne emesso un mandato di cattura nei confronti di Leto da parte di Pietro Nenni, vicepresidente del Consiglio e nuovo alto commissario per le sanzioni contro il fascismo. Questa decisione provocò forti malumori nell’intelligence americana, la consegna del capo dell’OVRA alle autorità italiane portò a reazioni molto dure da parte della sede romana dell’OSS. «E non è azzardato ipotizzare che dietro ci fosse proprio lo zampino di Angleton. Il Servizio segreto Usa temeva un eventuale processo ai vertici della polizia fascista. […] l’OSS temeva che da un eventuale processo pubblico emergessero i legami che americani e inglesi avevano coltivato durante il Ventennio con gerarchi fascisti e l’alta burocrazia dello Stato; e che fossero scoperte le reti spionistiche angloamericane all’interno del regime» <108. Questo passaggio riassume bene due aspetti fondamentali legati alla strategia della tensione: l’ingerenza dei Servizi segreti americani e britannici, già ben nota e approfondita; e la responsabilità dello Stato italiano in quanto non riuscì a prendere una netta distanza dal periodo fascista, anzi ne incarnò vari aspetti.
[NOTE]
101 D. Conti, Gli uomini di Mussolini, op cit., p. 189.
102 C. Fumian, A. Ventrone (a cura di), Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa, op cit., p. 9.
103 A. Ventrone, La strategia della paura, op cit., p. 253.
104 Gianni Flamini, Il libro che i servizi segreti italiani non ti farebbero mai leggere, Roma, Newton Compton editori s.r.l., 2012
105 Polizia segreta dell’Italia fascista. Compito dell’OVRA era la vigilanza e la repressione di organizzazioni sovversive, che tramassero contro lo Stato.
106 M. J. Cereghino, G. Fasanella, Le menti del doppio stato, op cit., pp. 57-58.
107 Ivi, p. 59
108 Ivi, p. 59-60.
Pietro Menichetti, L’Italia del terrore: stragi, colpi di Stato ed eversione di destra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, Anno Accademico 2019-2020

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C’era poi una terza corrente che faceva riferimento al pensatore Julius Evola

Non è possibile utilizzare la categoria di destra nell’Italia del secondo dopoguerra senza fare i conti con «“l’invasione” del concetto di destra da parte del fascismo» <1. È quella che è stata più volte rilevata come l’anomalia della destra italiana: antiliberale, antisistema e antimoderna, tanto che essa stessa è arrivata a rifiutare l’etichetta di destra, che dall’evento fondativo della modernità – la rivoluzione francese – aveva tratto origine <2. L’accostamento di destra e (neo) fascismo ha avuto l’effetto di rimuovere la destra dal circuito della legittimità politica. Una riprova in questo senso è la mancata separazione di destra ed estrema destra <3. Condannati nel ghetto dell’illegittimità, missini e monarchici stentavano a sopravvivere agli albori dell’Italia repubblicana e antifascista. La condanna, però, lungi dall’essere meramente imposta dal sistema, era paradossalmente cercata. Il rapporto tra identità e legittimità costituisce un’utile cartina di tornasole per comprendere le ragioni degli esclusi. È stata la stessa identità a generare illegittimità, che a sua volta li ha relegati ai margini della competizione politica. Tale marginalità ha rilanciato l’orgoglio della diversità e ha alimentato la spirale dell’identità illegittima <4.
Nel 1948 le urne non avevano dato grandi soddisfazioni ai partiti di destra, se si esclude l’effimero successo dell’Uomo Qualunque <5. Tuttavia, alla trascurabile rappresentanza parlamentare non corrispondeva la medesima diffusione nella società. Solo in parte, infatti, la presenza della destra in parlamento rendeva ragione dell’ampiezza della destra nella società e nel mondo imprenditoriale e culturale in senso lato.
Alla luce di queste considerazioni, la riduzione della categoria di destra a neofascismo non è esaustiva. Sia perché il neofascismo aveva ancoraggi culturali e ideologici anche a sinistra e sia, soprattutto, perché non permette di capire l’Italia degli anni Cinquanta, periodo privilegiato per indagare la consistenza e il seguito della destra – sia in Parlamento che nella società – nel nostro Paese.
È necessario, a questo proposito, non cedere alla tentazione di identificare la destra con il fascismo né con il neofascismo. E allargare l’orizzonte a quella che è stata felicemente definita destra “impolitica” o “carsica”. Una destra, cioè, che non solo non si identificava coi due terminali partitici all’estremità dello schieramento politico – Pnm e Msi – ma era anzi assai critica nei loro confronti. Distanziandosi dalla “iper-politicità” delle due formazioni, presentava non di rado spiccate venature di antipolitica e di scetticismo nei confronti del sistema parlamentare in quanto tale. Ciò premesso, il riferimento al fascismo di questa seconda declinazione della destra si presentava piuttosto sfumato. La nostalgia dei “bei tempi andati”, siano essi identificati col Duce o con la Corona, rimaneva nell’alveo di un generico conservatorismo, piuttosto distante da Salò e da contenuti programmatici aggressivi. Era un fronte sociale eterogeneo «sempre pronto a palpitare per generiche cause nobili ma restio a mobilitarsi davvero nell’agone politico» <6. Alla critica per certi versi acuta e formidabile nei confronti del sistema politico non seguiva mai un programma organico e credibile. Tanto era profonda la distanza dai missini, quanto era generica l’attesa delle “forze sane” che avrebbero dovuto soppiantare il tanto vituperato “ciellenismo”. Si trattava di un’attesa che univa industriali di vari settori a intellettuali come Indro Montanelli. Accomunati dal rifiuto del nascente sistema partitocratrico, avevano individuato distorsioni che si sarebbero approfondite nel tempo. Con ogni probabilità, le più preoccupanti erano l’eccessivo potere dei partiti e lo sconvolgimento di credenze consolidate. Ma erano uniti più contro qualcosa che per un progetto comune, eccezion fatta per l’esperienza di Edgardo Sogno. In altri termini, il collante delle varie famiglie e personalità della destra nell’Italia degli anni Cinquanta era l’avversione al comunismo <7. Oltre a dover sopportare, a volte giustamente e altre meno, il fardello del fascismo, l’altro dato strutturale delle destre era, appunto, l’anticomunismo.
È utile passare in rassegna più nel dettaglio le destre in Italia all’indomani del conflitto mondiale, tenendo ben presente anche il contesto internazionale. Fin dalla fondazione, nel dicembre ’46, vari furono i problemi che dovette affrontare il Movimento sociale italiano. Il partito riunì numerosi gruppi e associazioni che erano sorti spontaneamente dopo la guerra. Già durante il conflitto, stando all’attento lavoro di Parlato, si erano poste le basi, con la collaborazione dell’Oss (Office of strategic services) e di alcuni settori del Vaticano <8, per la nascita di un soggetto politico del genere. Dopo la guerra, e in particolare in occasione del referendum del ’46, anche Pci e Dc, con interessi e finalità diverse, si impegnarono a trattare col neofascismo <9. Inoltre, i missini cavalcarono le proteste sorte in seguito alle condizioni di pace e si presentarono come gli unici veri interpreti della nazione italiana <10.
Risolto il problema della sopravvivenza, anche grazie all’amnistia <11, l’altra battaglia era quella della scelta legalitaria rispetto alla clandestinità. Tale scelta, tutt’altro che unanime, suscitò i malumori dei giovani e dei reduci che avevano attivamente partecipato alla Rsi. Era, in termini più generali, la spia della presenza di due anime: una di “sinistra”, repubblicana, antioccidentale e terzaforzista che intendeva combattere il regime ciellenista traditore dello spirito di Salò, e l’altra, più pragmatica, nazional-conservatrice in campo sociale e religioso, filomonarchica e filoatlantica, che voleva inserirsi nel sistema politico parlamentare <12. Principali interpreti della tendenza legalitaria erano Romualdi e Michelini. Per estendere l’area di influenza del partito e far fronte alla sfida comunista, puntavano a trasformare il neofascismo «da fenomeno di conventicole perdenti in forza politica in grado di parlare a molti, se non a tutti» <13. Tuttavia, la strategia del “Senato” missino era destinata a rimanere sulla carta e ad essere soppiantata dall’attivismo di Almirante. Da gennaio ’47 alla vigilia delle elezioni politiche del ’48, la struttura del Msi venne modificata sia a causa di una serie di eventi – arresti, uccisioni e allontanamenti – che misero fuori gioco esponenti del “partito di Romualdi”, sia per la strategia almirantiana. L’approccio di Almirante comportava un radicamento sul territorio prima sconosciuto. Dai comizi nelle piazze al “giornale parlato”, il Msi acquisiva un metodo e una visibilità completamente nuovi <14.
Alla decisiva scadenza elettorale del 18 aprile 1948 il partito si presentava con un programma comprendente la critica serrata alla Costituzione, il rilancio di alcuni nodi irrisolti della politica estera, la socializzazione del lavoro e la valorizzazione della necessaria opposizione nazionale al governo e ai socialcomunisti <15. Il Msi, sulla base di un programma decisamente “sociale”, raccolse però voti soprattutto tra i notabili e i grandi proprietari terrieri del Sud. Eleggendo sei deputati e un senatore, tutti nelle circoscrizioni meridionali, il partito della Fiamma concludeva la fase della clandestinità ma non poteva evitare di fare i conti con l’inattesa geografia dei consensi e con la difformità tra elettori potenziali ed effettivi. Si trattava della forbice tra dirigenti e militanti da una parte ed elettori dall’altra. Una forbice la cui presenza era fisiologica in ogni partito, ma che nel Msi assurgeva a vero e proprio carattere distintivo a causa della grande distanza – nello stesso tempo geografica, storica e ideale – tra attivisti ed elettori. Tale aspetto, ampiamente rilevato dalla storiografia, ha obbligato i dirigenti a retrocedere dalle «originarie velleità barricadiere e ribellistiche» <16, pena la scomparsa del partito stesso. Come ha efficacemente sottolineato Tarchi, «per il Mezzogiorno il fascismo aveva rappresentato un fenomeno di promozione e di accelerazione della mobilità sociale verso l’alto, che non aveva avuto riscontro nella parte più sviluppata del Paese» <17.
Non era certo sufficiente la rappresentanza parlamentare a garantire il crisma della legittimità. Da parte sua, il Msi continuava ad agire in maniera quasi schizofrenica: da un lato riaffermava la propria identità di partito di nicchia, dall’altro si poneva come partito-nazione e «accreditandosi come titolare di una investitura quasi sacrale» <18 si contrapponeva agli altri partiti. In cima all’agenda politica dei missini c’erano battaglie <19. Dal punto di vista interno costituivano una priorità la collocazione del partito nello spazio politico e la conseguente strategia di alleanze, la battaglia contro l’epurazione, i diritti dei combattenti della Rsi e la politica sociale. Da quello internazionale l’adesione al Patto Atlantico, il ruolo dell’Italia come potenza coloniale e la questione di Trieste erano gli argomenti principali.
Questi temi furono oggetto di discussione al secondo congresso, che ebbe luogo a Roma nel 1949 e vide consolidarsi la presenza delle due anime antitetiche su pressoché tutte le questioni sollevate. C’era poi una terza corrente, più culturale e meno politica, che faceva riferimento al pensatore Julius Evola, tradizionalista, antililiberale, antimoderno, anticristiano e fautore di un “razzismo spirituale”. <20 Tale confronto, con diverse sfumature, incontri e scontri più o meno decisivi, ha scandito tutte le fasi della storia del Movimento sociale italiano. <21
[NOTE]
1 G. Parlato, La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo (1946-1954), in G. Petracchi (a cura di), Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, Gaspari editore, Udine, 2005, p. 134. Si vedano anche: E. Galli della Loggia, Intervista sulla destra, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 134-135; R. Chiarini, La destra italiana. Il paradosso di una identità illegittima, «Italia contemporanea», n. 185, dicembre 1991, p. 585.
2 M. Revelli, La destra nazionale. Un manuale per capire, un saggio per riflettere, Il Saggiatore, Milano, 1996, p. 63.
3 A titolo di esempio, Ginsborg ha scritto che «le perdite democristiane del 1953 erano andate a vantaggio dell’estrema destra», P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 2006, p. 192. Tra gli altri autori che associano la destra all’estremismo si segnalano F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 13 e P. Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centrosinistra 1953-1960, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 55 n. Anche Bobbio ha espresso le sue perplessità su una distinzione semantica che non è secondaria. Distinguendo «una destra eversiva da una destra moderata, cui dall’altra parte corrisponderebbero una sinistra moderata e una eversiva, si otterrebbe il duplice vantaggio di non forzare il linguaggio e di non usare un criterio di distinzione sbilanciato», N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma, 1994, p. 63.
4 R. Chiarini, Destra italiana. Dall’Unità d’Italia a Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia, 1995, p. 12.
5 Sull’Uomo Qualunque si vedano: S. Setta, L’Uomo Qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari, 1975; S. Setta, La Destra nell’Italia del dopoguerra, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 13-18; G. Parlato, La nazione qualunque. Riformismo amministrativo ed europeismo in Guglielmo Giannini, «Storia contemporanea», a. XXV, n. 6, dicembre 1994.
6 R. Chiarini, Destra italiana, cit., pp. 64-65 e 76-77.
7 Si veda soprattutto D. Cofrancesco, Destra e sinistra. Per un uso critico di due termini chiave, Bertani, Verona, 1984, p. 47.
8 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2006. Il ruolo della Chiesa cattolica non va però esagerato. Parlato ritiene infatti (p. 304) «sbrigativa – e, soprattutto, indimostrata – l’affermazione di Murgia secondo la quale “il Movimento Sociale Italiano nasce con la benedizione del Vaticano”», si veda P.G. Murgia, Il vento del Nord, Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza (1945-1950), Sugarco, Milano, 1975, p. 295.
9 Si vedano P. Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953, Mondadori, Milano, 2007; P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Il Mulino, Bologna, 1989,
p. 24.
10 Utile in proposito la riflessione di Neglie: «La Nazione diventò così il terreno eletto per giocare la partita della propria sopravvivenza politica, in un paese ancora preda di fremiti rivoluzionari, di desideri di vendetta, bisognoso di chiarezza e unità di intenti», P. Neglie, Il Movimento Sociale Italiano tra terzaforzismo e atlantismo, «Storia contemporanea», a. XXV, n. 6, dicembre 1994, p. 1170. Si vedano anche M. Revelli, La destra nazionale, cit., pp. 70-71; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo. Da Salò ad Almirante. Storia del Msi, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 39.
11 Si veda M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.
12 Si vedano S. Finotti, Difesa occidentale e Patto Atlantico: la scelta internazionale del Msi (1948-1952), «Storia delle relazioni internazionali», a. VI, n. 1, 1988, p. 88; M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 32; P.G. Murgia, Ritorneremo! Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza (1950-1953), Sugarco, Milano, 1976, p. 98. Per una dettagliata analisi dei vari movimenti, tra cui i Far, e personaggi che rifiutarono l’opzione moderata si veda G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 255-269.
13 G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., p. 250.
14 Sulla nuova strategia missina si veda G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 269-280; P.G. Murgia, Ritorneremo!, cit., p. 88-92.
15 Sul programma del ’48 si vedano M. Revelli, La destra nazionale, cit., p. 23; G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia 1946-1979, Gallina, Napoli, 1988, p. 40. Ignazi lo ha definito un «programma orientato a sinistra», P. Ignazi, Il polo escluso, cit., p. 46.
16 M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 32. Si veda anche P. Neglie, Il Movimento Sociale Italiano tra terzaforzismo e atlantismo, cit., p. 1174.
17 M. Tarchi, ibidem, p. 33.
18 R. Chiarini, «Sacro egoismo» e «missione civilizzatrice». La politica estera del Msi dalla fondazione alla metà degli anni Cinquanta, «Storia contemporanea», a. XXI, n. 3, giugno 1990, p. 457.
19 Per un’analisi delle sfide che deve fronteggiare il Msi dal 1949 si veda P. Ignazi, Il polo escluso, cit., pp. 54-59; M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 48-50; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo, cit., p. 197. Sulla situazione dei giovani missini si veda A. Carioti, Gli orfani di Salò. Il “sessantotto nero” dei giovani neofascisti nel dopoguerra 1945-1951, Mursia, Milano, 2008, cap. 4, pp. 118-150.
20 M. Revelli, La destra nazionale, cit., p. 20. Si veda anche D. Lembo, Fascisti dopo la liberazione. Storia del fascismo e dei fascisti nel dopoguerra, dalla Repubblica Sociale al Movimento Sociale Italiano 1945-1956, MA.RO. Editrice,
Copiano (Pv), 2007, pp. 113-116, e A. Jellamo, J. Evola, il pensatore della tradizione, in F. Ferraresi, (a cura di), La destra radicale, cit., pp. 215-252.
21 Si veda P. Ignazi, Il polo escluso, cit., p. 59.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010

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Il sovranismo spiegato con l'umidità.
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Individuo, società e svolte autoritarie.

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Pubblicato in origine su Altraparola il 6 Giugno 2025.

di A. Marin

Esistono condizioni psicologiche, familiari, sociali e tecnologiche favorevoli all’instaurarsi di una forma politica autoritaria e di quella più estrema totalitaria? Esiste un potenziale fascista in ognuno di noi oppure il “fascismo potenziale” si dà solo in presenza di una determinata struttura di personalità, quella autoritaria studiata dalla scuola di Francoforte nella prima metà del secolo scorso? Un tipo di personalità, quest’ultima, caratterizzata da un insieme di atteggiamenti, credenze e comportamenti che riflettono una forte inclinazione verso l’autorità, la disciplina e il conformismo, insieme a una tendenza a disprezzare o discriminare chi viene percepito come diverso o inferiore. E in società ipermoderne, globalizzate e digitalizzate come le nostre, non più disciplinari ma del controllo ubiquitario algoritmico, società che oggi potremmo definire con Bernard Stiegler automatiche è ancora rinvenibile quel modello di personalità?

Se sì, con quali invarianti e differenze all’interno di habitat sociali modellati dalla tendenziale concentrazione degli esseri umani in centri urbani in sempre più veloce espansione, la diffusione planetaria di artefatti digitali e l’innervazione globale della superficie terrestre e dello spazio di infrastrutture tecnologiche? Più in generale come si sta oggi riconfigurando il soggetto individuale, ridotto a terminale di comunicazione, nodo funzionalmente integrato di una struttura reticolare che lo ridefinisce continuamente attraverso flussi di sollecitazioni infoneurali ai quali reagisce secondo modalità pavloviane? E quello collettivo, sempre più sostituito da aggregazioni volatili e temporanee come quelle di uno sciame? Qual è la temperie psicosociale che in una fase di crisi sistemica del capitalismo, favorisce un ulteriore allentamento delle regole democratiche nella direzione di torsioni autoritarie diffuse, che hanno lo scopo di creare un ambiente adeguato all’ennesima ripartenza del capitalismo stesso?

Negli anni Venti e Trenta del ‘900 alcuni studiosi neomarxisti tedeschi si erano interrogati sulle ragioni per cui la società borghese tedesca era sopravvissuta alla crisi rivoluzionaria del 1914-19 e su quelle del fallimento di quest’ultima. Dopo la salita al potere di Hitler nel 1933 a questa domanda se ne era associata un’altra: perché i lavoratori tedeschi non si erano opposti duramente al fascismo quando invece nelle urne lo avevano bocciato, essendo consapevoli che non avrebbe fatto i loro interessi materiali? Una spiegazione in termini di sola “egemonia culturale” non risultava sufficiente a dar conto di come la coercizione potesse venire interiorizzata dalla psiche dei singoli e l’introiezione dell’autorità rendere accettabile all’uomo comune «l’idea del necessario dominio di alcuni sui più influenzando non soltanto la mente, le idee, i concetti e i giudizi fondamentali, ma anche la vita interiore, le preferenze e i desideri» (Horkheimer 1974 in Lasch p. 87). Questa corrente di pensiero riteneva che ogni società riproduca i modelli caratteriali più adatti al suo funzionamento non solo attraverso direttive e norme esplicite, ma anche con il condizionamento psichico dei singoli nella sfera del desiderio e del pensiero inconscio. Tra gli agenti di questa riproduzione, oltre la scuola e le altre agenzie formative, c’era la famiglia quale nucleo dentro cui i fantasmi inconsci dei genitori si trasmettevano ai figli. La famiglia reprimendo o indirizzando verso mete socialmente accettabili le pulsioni del bambino, segnatamente quelle sessuali, ne modellava allo stesso tempo l’Io e il Super-Io.

Secondo Erich Fromm nella società patriarcale degli anni Venti e Trenta del ‘900 la famiglia fungeva da crogiolo di un tipo di individuo, quello “patricentrico” o “autoritario”, caratterizzato da un «Super-Io rigido, sentimenti di colpa, amore docile per l’autorità paterna, desiderio e piacere nel dominare persone più deboli, accettazione della sofferenza come punizione per la propria colpa e una capacità compromessa di raggiungere la felicità» (Fromm 1979, p. 112). Se la famiglia patriarcale fosse stata la culla del “carattere autoritario”, i risultati di uno studio sul campo condotto presso la classe operaia tedesca avrebbero dimostrato che solo circa il 10% possedeva un profilo caratteriale di tipo autoritario, il 15% democratico o rivoluzionario e il restante una combinazione dei due. Secondo Fromm la storia politica successiva avrebbe confermato l’ipotesi che gli individui con il primo profilo sarebbero diventati ferventi nazisti, quelli con il secondo antinazisti e quelli con il terzo non avrebbero assunto alcuna posizione precisa. Se da questo studio emergeva che la maggioranza degli operai tedeschi più che una struttura caratteriale autoritaria, sembravano averne una mista, caratterizzata da un atteggiamento indifferente, Christopher Lasch si chiede come mai ci sia stata un’adesione generale così facile al fascismo. A Lasch si potrebbe rispondere che oltre certi limiti silenzio e indifferenza risultano essere i sintomi più classici della «banalità del male» ed equivalgono a complicità nei crimini.

A sua volta la ricerca di Adorno e colleghi, La personalità autoritaria (1950), condotta negli anni Quaranta negli USA, sulla scorta delle precedenti elaborazioni teoriche di Reich e Fromm, era uno studio empirico che intendeva indagare quali fattori psicologici e sociali fossero all’origine dell’anti-semitismo e più in generale dell’autoritarismo, segnatamente quello fascista. I risultati dell’indagine quantitativa e qualitativa su di un campione di circa 2000 americani di estrazione sociale e professionale diverse, si condensarono in alcuni tratti di quella che era stata concettualizzata come personalità autoritaria. Adorno e il suo team identificarono alcune caratteristiche della famiglia che tendevano a promuovere la formazione di personalità autoritarie nei figli: tra queste una struttura gerarchica rigida e repressiva nella quale obbedienza e sottomissione erano valori primari; l’educazione spesso impartita attraverso punizioni anche severe che tendeva a inculcare nei figli un senso di paura e sottomissione verso l’autorità, ma allo stesso tempo generava un risentimento represso; la distanza e l’anaffettività dei genitori che poteva portare i figli a interiorizzare sentimenti di insicurezza e a sviluppare un’identificazione e una dipendenza dall’autorità come fonte di protezione e guida. Gli effetti sulla personalità dei figli erano di un rispetto totale nei confronti delle autorità tradizionali e una passivizzazione e un conformismo nell’adesione a norme e regole emanate da queste. Una tendenza a voler dominare e punire chi si dimostrava meno forte, quale frutto di un risentimento nei confronti dei genitori, che non potendo essere espresso direttamente, veniva proiettato su gruppi esterni, e una insofferenza profonda nei confronti di chi non rispettava le regole. A questi si aggiungeva un’incapacità di sostenere l’ambivalenza emotiva e comportamentale umana e le stesse sfumature della vita, per far fronte alle quali si assumeva una rigida visione dicotomica della realtà in termini valoriali di bene/male, coraggio/viltà, forza/debolezza ecc. Inoltre, un pensiero stereotipato, intollerante e aggressivo declinato in una logica amico/nemico tendeva a discriminare ogni differenza e minoranza culturale, religiosa ed etnica e in generale chiunque non si conformasse ai valori dominanti.

Se i risultati di questi studi intendevano dimostrare come strutture familiari autoritarie generassero personalità autoritarie, si dava però il fatto che le società nelle quali erano stati condotti stessero in realtà allontanandosi da sistemi familiari autoritari. Per questo la risposta alla domanda sulle ragioni di una così facile ascesa del fascismo in Europa sembrava avere a che fare più con la decadenza dell’autorità patriarcale che con la sua forza: «la graduale erosione dell’autoritarismo e della famiglia autoritaria, proseguita per tutta la fase liberale della società borghese, ha avuto un risultato inatteso: la rinascita del dispotismo politico in una forma fondata non sulla famiglia ma sulla sua dissoluzione. Anziché liberare l’individuo dalla coercizione esterna, la decadenza della vita familiare lo assoggetta a nuove forme di dominio minandone contemporaneamente la capacità di opporvisi» (Lasch 1995, pp. 89, 91). La struttura caratteriale autoritaria si rivela essere il risultato di rapporti familiari segnati da una mancanza di legami affettivi e da una sottomissione filiale legata perlopiù a paura e interesse piuttosto che ad amore. Una struttura segnata quindi non tanto da una famiglia solida e forte quanto da una famiglia assente. Jacques Lacan nel 1938 confermava che i dittatori rappresentavano una reazione al crollo del sistema familiare tradizionale. Attraverso la loro autorità rigida e inflessibile, essi ristabilivano temporaneamente un senso di ordine e sicurezza sia per la borghesia sia per le masse, spaventate dalla perdita di stabilità. Queste ultime proiettavano nel despota il bisogno di una figura paterna che sembrava ormai svanita e della quale reclamavano il ritorno.

La temperie psichica, sociale e culturale europea tra fine ‘800 e inizi ‘900 risultava segnata da un «progressivo allentamento dei vincoli tradizionali, familiari e sociali […] in cui l’io appare labile e la civiltà esposta al rischio della decomposizione e tanto più imperioso diventa il bisogno di ancorarsi a saldi punti di riferimento, esterni alla coscienza di individui ormai infinitamente rassegnati a restare nel disorientamento e nell’impotenza». Quando la debolezza dell’Io diventa di massa e la sua disgregazione non è più riassorbile intimamente attraverso l’avvicendamento con un nuovo “Io egemone”1, quest’ultimo «viene gerarchicamente subordinato a un suo omologo esterno: il capo politico, che, giunto al potere, sostituisce l’“Io egemone” di individui ormai stremati – e, proprio per questo, dotati di fortissima “volontà di credere” – con un io egemone esterno» (Bodei 2002, p. 221). Nella massa che viene così a crearsi si ha una omogeneizzazione delle coscienze lungo una direttrice verticale di autorità che obliterandone la ragione, le trasforma in quella che Gustave Le Bon, verso la fine del XIX secolo, aveva chiamato «coalizione di sentimenti». Lo stato dell’individuo nella massa veniva così da lui sintetizzato: «annullamento della personalità cosciente, predominio della personalità incosciente, orientamento per via della suggestione e di contagio dei sentimenti e delle idee in un medesimo senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite: tali sono i principali caratteri dell’individuo in una massa. Egli non é più sé stesso, ma un automa diventato impotente a guidare la propria volontà» (Le Bon 2020, p. 13).

A partire da fine ‘800 e sempre più nei primi decenni del Novecento, il processo politico tenderà a identificarsi con la figura di un capo, nella direzione di progetti politici che coinvolgeranno le masse, allo scopo di scongiurare il collasso di una civiltà. Se le folle in Le Bon erano in qualche modo ancora fluttuanti, l’esperienza bellica della Grande Guerra, segnata da organizzazione e disciplina, sarà lo spartiacque che inaugurerà la vera e propria età delle masse. L’individuo come soldato viene accolto nell’esercito, «un immenso collettivo, una numerosa famiglia autoritaria e anonima, che tempra la sua individualità attraverso ordini e divieti proprio mentre ne dissolve l’autonomia». Secondo Bodei la desertificazione psichica e l’aggravamento della crisi economica e sociale post-belliche, produrranno in molti una forma mentis che sarà terreno fertile per l’ascesa dei totalitarismi: «le virtù della vita militare vengono così velocemente trapiantate nella vita civile: disciplina, abnegazione, esecuzione pronta e automatica degli ordini, disponibilità al sacrificio di sé» (Bodei 2002, pp. 222-224). L’intera società sembra assumere la configurazione di un esercito all’interno del quale la debolezza dell’Ego viene sostenuta dal Noi della massa organizzata. In quest’ultima il singolo non vale tanto per le sue qualità individuali, quanto per quelle virtù gregarie che si declinano in onore, fedeltà e spirito di sacrificio. La produzione antropologica di questo tipo umano serializzato non sarà però un’esclusiva dei regimi totalitari in quanto caratterizzerà, con modalità meno coercitive e violente, anche la fabbrica taylorista-fordista dei paesi liberali e democratici, nel suo disciplinamento spazio-temporale della forza lavoro.

Le società della prima metà del ‘900 sono ancora società disciplinari, nel senso attribuito da Michel Foucault a questo modello di organizzazione sociale. Società caratterizzate da meccanismi di controllo e normalizzazione che plasmano i corpi e i comportamenti degli individui. Istituzioni come scuole, prigioni, fabbriche e ospedali impongono regole rigide e una sorveglianza costante, ispirata al modello del Panopticon, portando gli individui ad auto-disciplinarsi. Il potere disciplinare non si limita a reprimere, ma produce soggettività, definendo ciò che è normale o deviante. Le fonti dell’autorità rimanevano in parte quelle tradizionali della famiglia, sebbene quest’ultima fosse in via di disfacimento, delle istituzioni considerate in generale legittime e di una religione sempre più secolarizzata. Le modalità organizzative si declinavano in termini di ordine, disciplina e gerarchia, mentre le vaste aggregazioni sociali delle metropoli in crescita, continuavano ad avere la consistenza della massa, la quale tendeva ad assumere sempre più il profilo di una folla solitaria2.

La stessa comparsa dei media audiovisivi analogici nel XX secolo, a partire dagli anni ‘20, aveva reso disponibili strumenti decisivi per la ripetizione incessante del pensiero rigido e stereotipato della propaganda fascista e nazista, la quale adunava folle oceaniche nelle piazze delle rispettive capitali. La loro diffusione creava nuove “masse artificiali”, coagulatesi a partire dal dettato ipnotico radiofonico dei regimi.

Queste masse diventeranno in seguito la configurazione sociale ordinaria e permanente delle democrazie industriali le quali, attraverso le industrie di programmi audiovisuali, diventeranno ben presto delle vere e proprie telecrazie (Stiegler 2019, p. 92). Le società disciplinari andranno irreversibilmente scomparendo nella seconda metà del XX secolo a mano a mano che le norme disciplinari perderanno efficacia e verranno sostituite da un soft power, il cui cavallo di troia sarà proprio il mezzo audiovisivo.

Questa transizione dalle società disciplinari a quelle del controllo3 porterà con sé forme più sottili di esercizio del potere e una sorveglianza più fluida e tecnologica.

Se la progressiva erosione delle strutture tradizionali dell’autorità era avvenuta a seguito di mutamenti nella sfera economica, politica e sociale, la diffusione di radio, cinema e poi della televisione, diventati strumenti in mano all’industria culturale, trasformeranno progressivamente le condizioni stesse della riproduzione psichica individuale e collettiva. Sincronizzando i tempi di coscienza individuale, la captazione dell’attenzione degli spettatori dei media audio-visuali di massa, condurrà a una standardizzazione diffusa della sensibilità. L’industria culturale e il marketing commerciale tenderanno a «deviare verso la televisione il processo d’identificazione primaria4 attraverso il quale i bambini ereditano dai loro genitori le capacità di diventare ciò che sono, ossia di regolare le loro identificazioni secondarie tramite cui sono in grado di trasformarsi adottando nuovi modi di vita […] Questo condurrà verso la «DESUBLIMAZIONE, che tenderà a liquidare la psiche stessa» (Stiegler, 2012, p. 99).

I media di massa, in particolare la televisione, favoriranno la creazione di una relazione diretta tra leader e pubblico, bypassando le strutture tradizionali di intermediazione sociale. I leader carismatici, in grado di “parlare” direttamente agli elettori, indeboliranno ulteriormente le istituzioni tradizionali, spostando l’attenzione dalla legittimità istituzionale alla loro immagine personale, nella direzione di una personalizzazione del potere.

Nel perimetro della famiglia, se il declino dell’autorità genitoriale portava con sé quello della sua funzione di modello ideale e normativo del bambino, allo stesso tempo però «le nuove condizioni della vita famigliare non inducono tanto un declino del Super-io quanto piuttosto una modificazione del suo contenuto. L’inadeguatezza dei genitori a fungere da modelli di autocontrollo […] non si traduce automaticamente in un’assenza di Super-io nel bambino che diventa adulto. Favorisce, al contrario, lo sviluppo di un Super-io rigido e punitivo basato in larga misura su raffigurazioni arcaiche dei genitori, amalgamate con grandiose rappresentazioni di sé. In queste condizioni, il Super-io consiste in immagini introiettate dei genitori piuttosto che in modelli di identificazione. Esso indica all’Io standard elevati di fama e successo e lo punisce con selvaggia ferocia quando si rivela inferiore agli standard proposti» (Lasch 1995, p. 200). L’Ego si coagula attorno alla propria immagine, cercando di corrispondere a un Io Ideale che in quanto irraggiungibile, genera quella frustrazione che alimenta un’aggressività rivolta in maniera oscillante dentro e fuori di sé. Depressione ed euforia si alternano, andando a configurare un profilo psicologico dai forti tratti narcisistici.

Nelle società contemporanee alla definitiva estinzione della famiglia patriarcale è seguito il disfacimento dello stesso principio paterno quello che, con l’imprinting della Legge di interdizione del desiderio incestuoso dell’Edipo, costituiva il modello di ogni autorità interna ed esterna, fungendo allo stesso tempo da Ideale di identificazione dell’Ego. Privo di un principio ordinatore interno e di stabili riferimenti ideali, il soggetto post-edipico non crede più a nulla e la sua adesione a norme e regole rimane solo un atto distaccato e passivo. Senza alcuna bussola che aiuti la navigazione nella vita molti brancolano nel web delegando il loro saper-vivere all’influencer di turno e altrettanti il loro saper-decidere a nuove figure di leader populisti che promettono di farlo al loro posto e per il loro bene.

Il progressivo impoverimento di ampie fasce della popolazione, la crisi generale delle agenzie di socializzazione, il disorientamento psichico e valoriale, una sfiducia diffusa nelle istituzioni unita a una disaffezione politica crescente, la monocultura del denaro, la sussunzione crescente della vita offline in quella online, il crollo di ogni idealità e la paura e l’insicurezza diffuse, derivanti da crisi economiche, pandemia, migrazioni e cambiamenti climatici e accresciute da una specifica forma imprenditoriale, stanno mutando le democrazie occidentali, da tempo ridotte a simulacri post-democratici, in forme autoritarie di governo guidate da leader che tendono ad assumere su di sé ogni processo decisionale. In mancanza di punti di riferimento attorno ai quali costruire il senso della propria vita, la libertà arriva a generare nell’individuo angoscia o a venir fraintesa con il lasciar libero sfogo alle proprie pulsioni. La tendenziale estinzione della cultura e della famiglia patriarcale, seguite dallo sgretolamento dello stesso principio paterno, portano con sé una serie di rigurgiti a livello individuale di cui la crescita del numero di femminicidi costituisce l’espressione più eclatante.

In questo quadro psicosociale emergono diffusi tratti di personalità che potrebbero andare a configurare, mutatis mutandis, una nuova versione di personalità autoritaria. Tratti di una personalità che tende a sostenere leader populisti e movimenti illiberali, come sta accadendo oggi al di qua e al di là dell’Atlantico, e che risulta tollerante verso il controllo autoritario e la repressione delle minoranze. Caratteristiche caratteriali favorite dalla crescente erosione dei residuali valori democratici e dal declino della fiducia nelle istituzioni, i quali si associano a una percezione di corruzione e inefficienza, il tutto alimentando il ricorso a soluzioni semplicistiche ammannite da un leaderismo autoritario.

Se nella versione classica di questa personalità tratti caratteriali quali il conformismo e il gregarismo venivano polarizzati da un capo, altrettanto avviene con la diffusione dei social media, i quali alimentano comportamenti mimetici virali, che tendono a coagularsi attorno a figure di leaderismo digitale. Gli individui psichici vengono attratti dentro quell’«effetto di rete, che diviene con il social networking un effetto automaticamente gregario, cioè altamente mimetico. Si costituisce così una nuova forma di massa convenzionale» (Stiegler 2019, p. 91). Le connessioni all’interno di quest’ultima sono però talmente volatili da farla assomigliare più a uno sciame che a una massa: «la nuova folla si chiama sciame digitale e ha caratteristiche che la differenziano radicalmente dal classico schieramento dei molti, vale a dire dalla folla». La folla, ovvero la massa, non è infatti un semplice aggregato, una somma di individui isolati, ma una neoformazione omogenea che va a modificare la coscienza dei singoli, i quali trovano nel capo politico cui si sottomettono, lo specchio in grado di rimandare loro i riflessi del loro Io ideale e colui che sembra corrispondere ai loro sogni. L’aggregazione casuale di uno sciame, viceversa, non possiede quello spirito unico che anima la folla con la voce di un solo Noi. Lo sciame digitale «non si esprime come una sola voce», ma come una cacofonia di voci giustapposte, quali quelle di una shitstorm (Han 2015, pp. 22, 23). In questa società che Stiegler chiama “società automatica”, le espressioni comportamentali tendono a diventare sempre più compulsive, mimetiche, gregarie e automatizzate, nella direzione di una società falsamente individualista, perché in realtà società-gregge, società-formicaio (Stiegler 2019). Ed è proprio la volatilità dello sciame digitale, a non rendere possibile il cristallizzarsi di alcuna forma di aggregazione politica ma solo spostamenti ondivaghi polarizzati da significanti guida intercambiabili, veicolati da circuiti informazionali che viaggiano alla velocità della luce.

Secondo Stiegler oggi ci troviamo di fronte a una «totalizzazione permanente e planetaria costitutiva essa stessa di un totalitarismo soft, che sfrutta industrialmente e matematicamente le pulsioni e gli arcaismi mimetici che li sottendono, in una tecnosfera diventata esosferica e costituente una macchina dal calcolo in real time di scala cosmica, e che Peter Thiel teorizza annunciando la liquidazione algoritmica del politico stesso» (Stiegler 2019, pp. 159-160).

La fuoriuscita dal politico teorizzata dal cofondatore di PayPal annuncia quella società tecno-oligarchica che il duo Trump e Musk, assieme a gran parte del gotha digitale, sembrano intenzionati a portare a compimento. Una società nella quale il monopolio privato di big data e infrastrutture informazionali in grado di drenarli, trasformarli e inocularli nella rete, modellando i profili digitali nei quali sempre più ciascuno si rispecchia, prefigura una sua rifeudalizzazione ad opera di un tecno-totalitarismo plutocratico.

Attualmente la circolazione infosferica accelerata di flussi ininterrotti di informazioni, delle quali risulta spesso difficile stabilirne la veridicità, la trasformazione della stessa configurazione psichico cognitiva dell’individuo ad opera di un’eccitazione infoneurale continua e la manipolazione degli orientamenti di voto attraverso una profilazione digitale personalizzata, conducono verso forme di populismo digitale che condizionano i comportamenti degli individui nella società reale.

L’automatizzazione della facoltà analitica dell’intelletto umano, a mezzo del lavoro accelerato degli algoritmi, spinge a un’accelerazione la stessa ragione la quale, presa in velocità, come facoltà sintetica ed ermeneutica, strumento di riflessione critica, ne risulta cortocircuitata.

L’eccitazione attenzionale ininterrotta operata da flussi velocissimi di stimoli altamente volatili, non lascia tempo alle tracce ritenzionali digitali di depositarsi in modo permanente nella memoria degli individui, compromettendone la sedimentazione. La velocità degli automatismi e la variabilità degli stimoli che attenzionano la coscienza è tale da non consentire quell’intermittenza necessaria alla costruzione di un deposito mnestico e quindi di un soggetto della memoria. La capacità di conservazione di quest’ultima si indebolisce e luoghi, persone e fatti, per essere richiamati alla coscienza, necessitano dell’accesso ad un cloud collocato fisicamente su di un server. L’atrofizzazione delle ritenzioni mnestiche colpisce in particolare la memoria dichiarativa, la quale viene progressivamente sostituita da quella procedurale5. Secondo Stiegler l’entropia informazionale conduce alla scomparsa dello spirito critico e alla cancellazione delle capacità curative e trasformative del pensiero, aprendo la strada alla post-verità, alla stupidità funzionale e alla post-democrazia.

Questo habitat tecno-psico-sociale risulta favorevole all’emergere di una nuova personalità autoritaria. Gli “sciami digitali” vengono polarizzati da flussi di stimoli infoneurali che catturano anticipatamente le protensioni individuali, ovvero le aspettative di futuro, secondo uno schema di stimolo-risposta che va a configurare un gemello digitale profilato dal neuromarketing psicopolitico. La ripetuta trasmissione e ritrasmissione di segnali informativi tende a coagularsi in ambiti omogenei e chiusi, in cui visioni e interpretazioni divergenti finiscono per non trovare più considerazione e scompaiono dibattito e contraddittorio. Vengono a crearsi echo-chambers nelle quali la nuova personalità autoritaria tende a conformarsi rigidamente ai valori del proprio gruppo di appartenenza, sia esso un movimento estremista online o una comunità ideologica chiusa, sviluppando tratti paranoico-fascisti e complottisti. Ad esempio Qanon, un gruppo politico di estrema destra, sostiene una teoria del complotto secondo la quale esisterebbe un complesso piano segreto orchestrato da un presunto Deep State, ovvero i poteri occulti, con l’intento di ostacolare il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e i suoi sostenitori. Questi ultimi, al contrario, sarebbero riusciti a prendere il potere con lo scopo di smantellare un presunto Nuovo Ordine Mondiale, ritenuto colluso con reti globali di pedofilia, pratiche esoteriche legate all’ebraismo, società segrete e, più in generale, orientato al controllo globale.

Rieccheggiano le massime di 1984, «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza», declinate all’interno di un regime di post-verità che si diffonde nel web e che è sintetizzato dall’ossimorico nome del social network creato da Trump, Truth. All’interno di quest’ultimo, come in quello di Elon Musk, X, e in generale nei social media ormai non più sottoposti al fact checking, si moltiplicano contenuti manipolati (fake news) che creano una realtà alternativa, che rafforza le credenze autoritarie. Algoritmi e intelligenza artificiale diventano gli strumenti con i quali creare un mondo alla Truman Show del quale ognuno di noi ne è inconsapevole protagonista.

Arroccamenti etnocentrici, nazionalisti e identitari si diffondono su entrambe le sponde dell’Atlantico, alimentando una visione del mondo in termini di gruppi contrapposti, come “noi contro loro”, i quali vanno a generare una polarizzazione che crea divisioni e conflitti crescenti, in termini politici, etnici e financo religiosi. A ciò si aggiunga una crescente sfiducia nelle istituzioni tradizionali (governi, media tradizionali, scienza ufficiale), alla quale corrisponde una fedeltà verso fonti alternative, spesso marginali o cospirazioniste. Queste tendenze diventano il terreno più adatto ad alimentare forme di autoritarismo politico e culturale. A sua volta, il malessere diffuso in molti cittadini si esprime in un risentimento, che nell’epoca della post-verità, viene agevolmente indirizzato verso un caprio espiatorio dal pifferaio digitale di turno. La sofferenza cerca un sollievo attraverso quello “spirito di vendetta” che vuole che anche gli altri abbiano ugualmente a soffrire: «Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto; e dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione» (Nietzsche 1988, p. 171).

Se la governance algoritmica capitalista sembra portare con sé la fine dei tempi politici, allo stesso tempo il «totalitarismo soft di questo capitalismo smart genera delle regressioni autoritarie che portano verso la ripetizione delle forme più hard di repressione e di sottomissione – e c’è da temere che le imprese computazionali vi si accomoderanno perfettamente», com’è puntualmente accaduto con i GAFAM dopo l’elezione di Donald Trump in America (Stiegler 2024, pp. 159, 160, 184).

Le politiche economiche di stampo neoliberista che hanno dominato dopo “i gloriosi trenta” e che hanno spinto verso delocalizzazione e globalizzazione, stanno provocando riterritorializzazioni di stampo nazionalista, che iniziano a contemplare modalità di esercizio del potere nuovamente coercitive. Con il neopresidente americano e i suoi numerosi correligionari europei ritorna una forte enfasi sulla difesa dell’identità culturale, religiosa ed etnica, in opposizione a fenomeni come l’immigrazione e la globalizzazione. Torna anche l’esibizione muscolare del potere e della forza del capo nella quale individui impoveriti, impauriti e disorientati si identificano, trovando risarcimento al vuoto di senso delle loro vite, alla loro fragilità e progressiva perdita di autonomia. Riemergono figure di padre-padrone non più a livello familiare ma politico le quali esercitano il potere in una maniera feroce, che genera ulteriore violenza. Se nella terribile stagione del totalitarismo del Novecento il padre-Duce, il padre-Fuhrer rassicurava le folle negando loro la libertà, oggi lo fa lasciando sfogare sfrenatamente le pulsioni più antisociali e distruttive, come sta avvenendo nella nuova guerra civile e sociale americana. Dopo la morte del padre edipico, Trump incarna un padre perverso e strupratore che lascia libero sfogo alle pulsioni dei figli della sua Nazione, ai quali non impone più il dovere ma il godere, incitandoli con slogan come “MAGA” e “America first” e con affermazioni anti-establishment tipicamente populiste.

Oggi sembra si stia costituendo un’Internazionale Nera6 animata da nazionalismi etno-identitari in Europa e suprematismo bianco in America, accomunati dal disprezzo per l’altro, con tentativi da parte dei suoi membri di esautorare i rispettivi parlamenti, accentrando i poteri in una sola persona, con spregio per la loro divisione, come per la stampa e per ogni forma di dissenso e con l’assunzione di toni messianici, complottisti e populisti. I diritti fondamentali, civili e sociali, vengono progressivamente erosi, mentre la propaganda mediatica trasforma la realtà a immagine di una falsa ed esorbitante narrazione, che per molti è diventata verità.

La depoliticizzazione sta in realtà mutando in «una politicizzazione nel senso più arcaico e tribale di “politica”, intesa come sfera delle relazioni amico-nemico e continuazione della guerra con altri mezzi. Un’evoluzione dell’autoritarismo, più ferino e insieme indissociabile dalla tecnologia, e soprattutto radicato ormai nel potere aziendale e digitale, un completo rovesciamento del Leviatano o “stato etico” fascista, un nazismo a guida privata. Dove l’abolizione della differenza fra il vero e il falso avviene in nome della libertà di opinione e di espressione, e con la forza degli algoritmi che governano i social, per cui poi l’attacco allo straccio di stampa che resta sembra ancora quasi onesto: ti bastono perché non mi piace ciò che dici, all’antica» (De Monticelli 2025).

L’autoritarismo crescente e il suo allargamento su scala internazionale possono essere favoriti da ogni individuo portatore della nuova personalità autoritaria, se non addirittura da elementi potenzialmente presenti in ciascuno di noi come pensavano Deleuze e Guattari, per i quali le masse non erano state ingannate ma avevano veramente desiderato il fascismo e l’oppressione, animate dalla perversione del desiderio gregario.

Prima che la montante marea nera si abbatta sulle nostre società, riducendole a democrature quali stadi embrionali di vere e proprie dittature, risulta centrale che chi si batte ancora per l’autonomia degli individui esiga un’attenzione particolare verso la disautomatizzazione delle tecnologie digitali, l’educazione volta al pensiero critico e il consolidamento delle strutture democratiche.

Note

1 La teoria della confederazione di anime dei medici filosofi Ribot, Janet e Binet, sostiene il carattere illusorio dell’unicità monolitica dell’Io. La personalità viene pensata come una pluralità di Io che si pone sotto il controllo di un Io egemone che li coordina. La nostra identità è solo il risultato instabile del controllo esercitato da questo Io egemone sulle altre anime, controllo che richiede un grande impiego di energia. Per i médecins philosophes, scrive Bodei, «l’io degli individui psicologicamente ritenuti normali è soltanto il più forte, non l’unico. La sua egemonia si basa su un sistema di alleanze e di equilibri psichici costruiti, non naturali, che richiedono un continuo dispendio di energia» (Bodei 2002, p. 57).

2 Il concetto di folla solitaria (The Lonely Crowd) è stato sviluppato dal sociologo David Riesman nel 1950. Descrive una società in cui gli individui, pur vivendo in ambienti affollati e interconnessi, si sentono isolati e privi di legami autentici. Riesman distingue tre tipi di orientamento sociale: quello che segue le norme ereditate dal passato, quello guidato da valori interiorizzati e quello influenzato principalmente dall’opinione degli altri e dai media. La folla solitaria rappresenta quest’ultima condizione: individui che si conformano alle aspettative sociali senza una vera autonomia, portando a un senso di alienazione e superficialità nei rapporti umani.

3 Come scriveva Gilles Deleuze nel 1990, nel suo Poscritto sulle società di controllo, la società di controllo sostituisce all’uomo rinchiuso l’uomo indebitato, all’individuo il «dividuo» rivale di sé stesso e degli altri che cerca di emulare, alla massa i campioni statistici, alla fabbrica l’impresa, che si pone come modello di società e la cui anima è la sua divisione commerciale. Il controllo sociale assume una forma non rigida, coercitiva e discontinua come quella degli ambienti chiusi (scuola, ospedale, fabbrica, carcere) delle società disciplinari ma aperta, continua e infinitamente modulabile come quella dell’impresa capitalistica. Tramite il mezzo televisivo, la pubblicità e il marketing, il controllo si fa invisibile e affabile e il soggetto viene controllato senza neanche sapere di esserlo, anzi credendosi libero autore delle proprie scelte. La società di controllo opera anche attraverso tecnologie quali i computer e i dispositivi informatici, che permettono di individuare «la posizione di ciascuno, lecita o illecita e di operare una modulazione universale […] non c’è bisogno di ricorrere alla fantascienza per concepire un meccanismo di controllo che ad ogni istante dia la posizione di un elemento in ambiente aperto, animale in una riserva, uomo in un’impresa (collare elettronico)» (Deleuze 2019, p. 205).

4 Per Freud l’identificazione primaria consiste nell’adozione da parte del bambino del modello genitoriale, mentre le identificazioni secondarie riguardano la strutturazione della personalità adulta, attraverso l’adozione di oggetti affettivi, legami e forme di sublimazione.

5 Aggiungiamo che dal punto di vista cognitivo, l’essere umano dispone di facoltà intuitive e di facoltà razionali. Le prime corrispondono a frame mentali, già depositati nella nostra memoria procedurale, con i quali interpretiamo una situazione in maniera automatica. Agiamo in modo intuitivo quando ci riferiamo a procedure acquisite nel passato. Un problema che non possiamo riportare intuitivamente a schemi mentali precedenti, dobbiamo affrontarlo con le nostre facoltà razionali. Queste ultime afferiscono alla memoria dichiarativa e implicano una riflessione che si articola in alcune fasi diverse, che richiedono un diverso impegno cognitivo e una durata maggiore. Tramite l’intuizione sappiamo come agire, mentre con il ragionamento sappiamo perché. Ad esempio, leggendo un manuale, posso spiegare in teoria come si guida una macchina, senza saperla guidare in pratica. Viceversa, posso saper suonare uno strumento musicale, senza aver alcuna conoscenza di teoria e solfeggio. Usare in continuazione un mezzo digitale, attraverso interfacce web, permette di apprendere procedure e dopo un po’ di eseguirle in modo automatico, senza alcun bisogno di pensare e senza sapere nulla con quali criteri e valori sono state costruite. Data la grande plasticità dell’organo cerebrale e il suo veloce modificarsi tramite l’apprendimento di procedure, soprattutto se dotate di interfacce user friendly e gamificate, il rischio paventato di un’esposizione sempre più massiva ai device digitali, soprattutto dei più giovani, è quello di una atrofizzazione della memoria dichiarativa a favore di quella procedurale, laddove risultano entrambe indispensabili nell’interazione con il mondo reale.

6 «Non mi sento solo, perché nuovi alleati hanno abbracciato le idee di libertà in ogni angolo del mondo, dall’incredibile Musk alla mia cara Giorgia Meloni fino al presidente israeliano Netanyahu e al presidente Usa Donald Trump». Il presidente argentino Javier Milei ha espresso queste dichiarazioni durante il suo discorso al Forum di Davos. Nel suo intervento non è mancata una critica abituale al cosiddetto “wokismo”, termine generico impiegato da coloro che mirano a delegittimare le classi sociali più deboli e discriminate. Quest’alleanza globale di forze reazionarie, suprematiste e promotrici di un nazionalismo economico aggressivo si percepisce oggi in una posizione di forza.

 

Bibliografia

T. Adorno E. Frenkel-Brunswik D. Levinson N. Sanford, La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, 1973.
R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, 2002.
G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo in Pourparler, Quodlibet, 2019.
G. Deleuze F. Guattari, Millepiani, Castelvecchi, 2010.
R. De Monticelli, Alla ricerca del perduto Oriente, il manifesto 15/02/2025.
E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, Mondadori, 1979.
B. C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, nottetempo, 2015.
B. C. Han, Perchè oggi non è possibile una rivoluzione, nottetempo, 2022.
M. Horkheimer, Teoria critica, Einaudi, 1974.
C. Lasch, Rifugio in un mondo senza cuore. La famiglia in stato d’assedio, Bompiani, 1995.
C. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, 1995.
G. Le Bon, Psicologia delle folle, Edizione digitale: KKIEN 2020.
B. Stiegler [Ars Industrialis], Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Napoli 2012
B. Stiegler, La società automatica 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi, Milano 2019
B. Stiegler, Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità, Meltemi, Milano 2024

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Individuo, società e svolte autoritarie.

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Esistono condizioni psicologiche, familiari, sociali e tecnologiche favorevoli all’instaurarsi di una forma politica autoritaria e totalitaria? Esiste un potenziale fascista in ognuno di noi oppure il “fascismo potenziale” si dà solo in presenza di

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La qualità delle relazioni costituisce da sempre un elemento determinante per l’attività criminale

Le organizzazioni criminali a scopo economico e/o ideologico costituiscono da sempre un sottogruppo delle organizzazioni segrete. In quanto tali, esse pervengono agli studiosi come entità di difficile comprensione e studio per via dell’interazione fra la caratteristica del segreto e quella dell’illegalità <327.
La gestione congiunta di questa miscellanea di elementi ripercuote i propri effetti sulla natura organizzativa dei soggetti attivi imponendo agli stessi dinamiche mutagene e la proliferazione di trade-offs fra risorse in campo. Così, un problema comune alle due esperienze qui in oggetto investe, de facto, la configurazione organizzativa delle stesse e quel ventaglio di cointeressenze e legami instauratisi al loro interno. Gli interrogativi che si offrono al cospetto di uno studio dilettato dalle meccaniche che possono aver abitato simili processi interrelazioni rimangono molteplici. Come si organizzano i gruppi clandestini dell’Italia del tempo? Esistono somiglianze fra l’assetto mafioso e quello terroristico? La rete dell’una o dell’altra evolve e si ibrida a seguito di processi alterativi propri o risente di dinamiche esogene? Per ovviare a questi interrogativi la teoria dell’organizzazione nel corso degli anni ha dato grande rilevanza ad un’indagine sulle prospettive recondite delle reti (legami) e sugli schemi comparativi delle costruzioni strategiche in cui essi operano (strutture). Sulla falsa riga di ciò può, pertanto, rivelarsi complementare al dialogo fra scienza storica, sociologia e diritto la riflessione avviata dal sociologo Mark Granovetter sul delicato tema delle risorse sociali e del capitale sociale. Nell’opera “La forza dei legami deboli e altri saggi” <328 il padre della nuova sociologia economica intuì la possibilità di collegare il job matching analizzato nei suoi studi sulla disoccupazione -e gli andamenti di mercato- alle problematiche inficianti l’analisi dei networks. La tesi muoveva dall’idea secondo cui la scomposizione dei processi intercorrenti nei reticoli di relazioni interpersonali potesse fornire un fruttuoso ponte di collegamento fra il livello micro e quello macro-sociologico, mostrando l’esistenza di un diretta proporzionalità tra l’interazione su scala ridotta e le conseguenze su un piano sociale più esteso. La riproposizione del modello granvettiano al crime network nexus impone prioritariamente un ragionamento in termini di legami e non di scelte. Tale lettura non implica la predominanza di un’interpretazione (sui motivi dell’avvicinamento fra crimine e terrorismi) dettata dalla sola interscambiabilità di legami e relazioni bensì ci spinge, alla luce degli antecedenti cronistorici fino ad ora accennati, a diversificare il pulviscolo di rapporti oscillando da una prospettiva individuale ad una di comunità. Il punto diventa ancora più complesso se rapportato anche alle diversità congenite espresse dalle due generazioni del neofascismo eversivo e dagli stessi approcci metodologici posti in campo. Tenuto conto di tutte le criticità del caso diviene allora indispensabile procedere nella dissertazione con sistematicità e affrontare la dicotomia “legame-struttura” di cui si è accennato in apertura.
I Legami
La qualità delle relazioni costituisce da sempre un elemento determinante per l’attività criminale <329. Nell’ultimo ventennio gli studi sulla criminalità organizzata hanno catalizzato molte risorse nell’approccio alla materia (Patacchini-Zenou, Sciarrone, Storti) oltre ad aver dimostrato l’incisività di certi tipi di legame nell’incremento della produttività illecita. La distinzione fra legami forti e deboli, elaborata nel 1973 dal sociologo Granovetter <330, diviene la cartina di tornasole entro cui valutare la transitorietà dei flussi informativi e relazionali del network. I legami forti si contraddistinguono per intensità ed elevata frequenza nelle interazioni pur essendo, nella maggior parte dei casi, portatori sani di una ridondanza informativa o strategica provocata dall’elevata interdipendenza fra attori. Viceversa, essendo i weak ties rivelatori di una trascurabile intensità essi appaiono idonei a fornire nuovi canali, garantendo alla rete maggiore resilienza e connettività fra attori distanti, oltre ad un accesso alle risorse informative rimaste intrappolate fra i soli legami forti. Inevitabile segnalare come la mancanza di ridondanza favorisca il successo criminale del network tutto <331, in linea con la trasversalità di un’adiacenza tra mafie e terrorismo imperniata sulla tutela degli standard di segretezza e sulla proliferazione di legami ponte. Poiché per queste organizzazioni la gestione del segreto implica innanzitutto coordinare le informazioni, sia contenendo la diffusione di quanto si sa, sia nella ricerca di nuove informazioni (spionaggio), il trading richiederà una ragnatela di legami laschi, durevoli anche nell’extrema ratio della rimozione di uno di essi. Ove non esita una triade di rapporti fra soggetto A, B e C, nessuno strong tie potrà mai costituire un ponte, salvo gli sporadici casi in cui nessuna delle parti in causa abbia altri legami forti <332. Deduttivamente, allora, è intuibile la corrispondenza di ruolo fra ponte e legame lasco, ambedue impiegati per creare collegamenti più celeri all’interno delle reti e, in virtù di ciò, assunti ad unica alternativa praticabile per gli individui. Sicché, i soggetti meglio posizionati in una rete sono potenzialmente coloro i quali abusano di legami deboli e costituiscono ponti (c.d. trait d’union), l’analisi granovettiana troverebbe terreno fertile nel ricostruire, in una dimensione micro-individuale, la facilità celata dietro i cambi di casacca di numerosi interpreti della prima stagione eversiva dopo i decreti di scioglimento di ON e AN (Bellini, Dominici, Rampulla). E ancora: esegesi storica e indagine sulla forza dei legami trovano un’ulteriore punto di convergenza laddove la rimozione di un legame mediamente debole arrechi danni maggiori alle probabilità di trasmissione rispetto ad un vincolo forte. Il caso trova una sua simmetria storica all’indomani della diaspora dei militanti delle sigle sciolte (con decreto ministeriale) per tentata ricostruzione del dissolto partito fascista. La recisione di un vincolo forte per ordinovisti e avanguardisti non sortì gli effetti sperati dalle autorità inquirenti, le quali restarono focalizzate unicamente sull’abbattimento del contenitore associativo senza realizzare un inasprimento delle pene edittali per i singoli imputati. L’errore, comune nelle inchieste sul terrorismo, se da un lato esemplifica il grado di resilienza dei legami ponte celati dietro alle figure apicali della galassia eversiva, parimenti racconta la nascita di un’aura di eterna impunità che, nel corso del trentennio successivo, parificherà grandi boss della malavita organizzata e precursori del terrorismo stragista <333. Entrambe le figure resteranno accomunate da uno spiccato senso di adattamento al mutamento sociale, acuito da una gestione del patrimonio informativo correlata al bagaglio di legami laschi in loro possesso <334.
Esistono poi ripercussioni che i reticoli sociali possono ingenerare sui comportamenti dei singoli consociati. Il differente grado di densità assunta in zone del perimetro <335 circoscrive due porzioni di network: una dominata da rapporti amicali diretti e rinominata “a maglia chiusa”; ed un’altra estesa lungo tratti conoscitivi ignoti e battezzata “a maglia aperta”. In questa seconda circoscrizione Granovetter identifica l’esistenza di legami elastici propensi non solo a condizionare la possibilità dell’individuo di manipolare il reticolo ma, addirittura, idonei a veicolare idee, influenze o informazioni socialmente distanti dal baricentro del singolo attore. In un’impostazione all’interno della quale la centralità del legame debole impersonifica il ruolo di risorsa per la mobilità volontaria e di catalizzatore di coesione sociale <336, non meraviglia il fatto che militanti neofascisti, transitati fra le fila delle consorterie mafiose, abbiano potuto spostare non soltanto il reticolo di legami da un campo all’altro, bensì istituire un vero punto di snodo <337.
Infine, l’esame del fascio di relazioni rasenti una comunità può disvelare i motivi per cui certe strutture, in vista di obiettivi comuni, riescano ad organizzarsi celermente senza incappare in avversità logistiche. Una prima risposta andrebbe ricercata nella vocazione interclassista del terrorismo eversivo italiano. Mentre Granovetter per comprovare la relazione intercorrente fra una collettività molto attiva nel tessuto sociale e la densità di legami ponte utilizzò, quale canone di paragone, il confronto fra la reazione della comunità di Charlestown e quella di Boston ad una proposta di rinnovamento urbano, nel nostro studio è possibile sviluppare un ragionamento affine. Il network nero attinse, sin dalla sua nascita, potenzialità da mondi e sottosistemi sociali diversi <338, costruendo le condizioni esistenziali affinché potessero fiorire connessioni ponte. Mentre fino al biennio ’75-77 la galassia fascista ha esteso il suo ventaglio di relazioni coltivando rapporti trasversali con apparati dell’intelligence interno (SID e UAAR), mondo dell’imprenditoria, l’internazionale nera, il mondo istituzionale (MSI), fino ai grandi movimenti generazionali del ’68, nella sua seconda vita essa ha valorizzato in misura ridotta la genuinità dei suoi “bridge ties”, assumendo una posizione spontaneista che ne ha inevitabilmente modificato anche gli assetti strutturali. E così, applicando al nostro caso di studio lo schema teorico di comunità avanzato dal sociologo statunitense, pare calzante la lettura in base alla quale quanti più ponti locali esitano in una comunità, e quanto maggior sia il loro grado, tanto più la comunità sarà coesa e in grado di agire in modo concertato e impermeabile <339.
[NOTE]
327 M. CATINO, L’organizzazione del segreto nelle associazioni mafiose, Rassegna italiana di sociologia, gennaio 2014, pag. 262.
328 M. GRANOVETTER, La forza dei legami deboli ed altri saggi, Editore Liguori, Napoli, 1998.
329 F. CALDERONI, Le reti delle mafie, Vita e pensiero, Milano 2018, pag.62.
330 M. GRANOVETTER, The Strenght of Weak Ties, American Journal of Sociology, 78 n.6, pp. 1360.1380.
331 C. MORSELLI, P. TREMBLEY, Criminal Achievment, Offender Networks and the Benefits of low self-control, Criminology, 42, n.3, pag.782.
332 M. GRANOVETTER, La forza dei legami deboli ed altri saggi, Editore Liguori, Napoli, 1998, pp.123-124.
333 Si pensi alla figura di Massimo Carminati, leader di una delle due associazioni a delinquere coinvolte nell’inchiesta Mafia Capitale e uomo accreditatosi ai cartelli criminali per via del suo curriculum penale da eterno impunito. Il punto è trattato in: Tribunale di Roma, Ufficio VI, ordinanza n. 30546/10 R.G. Mod. 21, Gip Flavia Costantini, Roma, 28 novembre 2014, pag.42.
334 Per Granovetter “i soggetti meglio piazzati per diffondere innovazioni difficili nella rete, sono quelli che hanno molti legami deboli, in quanto alcuni di questi legami costituiscono dei ponti locali. Un’innovazione inizialmente impopolare, diffusa da soggetti con pochi legami deboli, avrà più probabilità di restare confinata in pochi circoli ristretti, quindi di morire sul nascere…”. M. GRANOVETTER, La forza dei legami deboli ed altri saggi, Editore Liguori, Napoli, 1998, p.127.
335 Definito da Granovetter quale “reticolato egocentrico”.
336 M. GRANOVETTER, La forza dei legami deboli ed altri saggi, Editore Liguori, Napoli, 1998, pp. 135-137.
337 Ivi cit., p.137.
338 Il punto sarà trattato nel sottoparagrafo successivo.
340 M. CATINO, Mafia organizations. The visible hand of criminal enterprise, Cambridge University Press, Cambridge 2019, pag.152.
Giuliano Benincasa, Criminalità Organizzata. Sviluppo, metamorfosi e contaminazione dei rapporti fra criminalità organizzata ed eversione neofascista: ibridazione del metodo del metodo mafioso o semplice convergenza oggettiva?, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2020-2021

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Strage di Bologna: quel tragico desiderio di indifferenza della destra italiana

Di fronte a una commemorazione come quella della strage di Bologna bisogna essere precisi e chiamare le cose con il loro nome

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Una costante rappresentata sia dai numerosi depistaggi, sia dagli apparati statali che obbedivano a logiche diverse rispetto a quelle democratiche

Come si è detto, molti (intellettuali, politici, giudici ecc.) hanno dato ai fatti accaduti in quegli anni un’interpretazione unitaria del fenomeno terrorista di matrice neofascista come di una gigantesco sistema di protezione del potere ordito dalla classe dirigente del Paese. Una classe dirigente senza scrupoli avrebbe guidato le operazioni terroristiche (e golpiste) allo scopo di trarre vantaggi politici (rafforzare deboli coalizioni governative, ottenere il voto degli elettori) e per eliminare il pericolo del sorpasso delle forze di sinistra. Il terrorismo nero non sarebbe stato altro che un componente di un piano molto più ambizioso: “la strategia della tensione”.
Questa posizione può essere riassunta nel famoso articolo di Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974 e dal titolo “Cos’è questo golpe? Io so”. <54 Una visione degli anni di piombo che godette di grandissima popolarità e conta ancora oggi un gran numero di sostenitori. <55
Tuttavia, un’immagine così unitaria dell’eversione neofascista non pare sufficiente a spiegare il fenomeno. Leggendo l’opera di Satta, centrando l’attenzione sull’attività degli apparati dello Stato coinvolti nella lotta antiterrorista ed esaminando i fatti, ci si rende conto che questi presentano una realtà contraddittoria e spesso rendono impossibile usare un’unica chiave interpretativa.
Analizzando cronologicamente l’attività terrorista di matrice fascista, ad esempio, si osserva che le date degli attentati non coinciderebbero con nessun concreto successo del PCI. <56 Non sarebbe dunque possibile giungere all’unica conclusione che questa non possa che essere considerata come una risposta anticomunista, dovuta al pericolo rappresentato dai crescenti successi del PCI in ambito politico. Invece, lo stragismo sarebbe stato, secondo Satta, la manifestazione di una strategia antisistema, antidemocratica e anticapitalista. Lo dimostrerebbero ad esempio le parole di Franco Freda, <57 nonché il fatto che una volta fallito l’obiettivo di destabilizzazione dell’ordine democratico, gli stessi terroristi avrebbero fatto un passo indietro. <58
D’altra parte, non si possono dimenticare le irregolarità commesse durante i processi, le collusioni dimostrate tra servizi segreti e ambienti neofascisti, le responsabilità dei dirigenti politici, degli organi di stampa, il coinvolgimento di istanze straniere, aspetti negativi solo parzialmente compensati dall’operato e dagli esiti in parte positivi di indagini e processi che avevano finito per individuare almeno la matrice degli attentati e messo in luce le irregolarità e collusioni di cui sopra.
Mirco Dondi giunge ad inserire il terrorismo degli anni di piombo all’interno della costruzione di uno “Stato intersecato”, nel quale diverse strutture si sovrapponevano facendo sì che uomini dei servizi segreti fossero allo stesso tempo parte delle organizzazioni eversive. <59 Le conseguenze sulla vita democratica di tale struttura sarebbero state devastanti: non solo attentati terroristici, ma la possibilità di influire sulle nomine delle forze armate e degli apparati di sicurezza, e condizionando la giustizia.
Invece, parlare di un vero e proprio “terrorismo o stragismo di Stato”, parrebbe improprio, essenzialmente perché “Stato” è un concetto complesso, in cui intervengono soggetti assai diversi tra loro. Durante “gli anni di piombo” le istituzioni dello Stato e della società civile (apparati di polizia, della magistratura, rappresentanti politici, i sindacati) hanno lavorato duramente e in una situazione sommamente difficile per sconfiggere il terrorismo. Mentre non esisterebbero prove che «un ceto dirigente di governo o una sua parte significativa abbiano pianificato stragi e assassinii». <60
Secondo Satta, questo uso improprio del concetto di strage, che si è propagato a macchia d’olio fra i giovani di sinistra e questa visione dello Stato italiano come di un assassino che addirittura pianifica gli attentati, si sommava, o ne era la conseguenza, ad un antistatalismo già diffuso nel Paese. <61 All’epoca ebbe senz’altro delle conseguenze importantissime e gravi, contribuendo a creare un ambiente propizio alla legittimazione di una risposta terroristica e violenta.
Tornando a Pasolini, si deve ricordare che il suo punto di vista non era né quello dello storico, né del giurista, ma di un intellettuale, un poeta, la cui missione, potremmo dire, è quella di illuminare i comuni mortali su una verità che va oltre i dati di fatto. Il contributo di Pasolini rimane estremamente prezioso in un’epoca nella quale la prassi comune nella società italiana, dalle istituzioni statali alla familia, era comunque quella di mettere a tacere tutto quello che poteva risultare scomodo. Era la voce di chi, dotato di una particolare sensibilità, avvertiva gli scompensi del sistema e voleva muovere le nuove generazioni a prendere in mano le redini della propia vita e a ricercare la verità attivamente, anche oltre le apparenze. Si trattava inoltre di una critica necessaria che avrebbe propiziato il dibattito fra le forze politiche e le diverse istanze della società e attraverso il quale si potè avanzare nel chiarire e organizzare un’efficace risposta al terrorismo, una risposta che, per vincere, doveva provenire dall’insieme della società italiana.
[NOTE]
54 Pier Paolo Pasolini, “Cos’è questo golpe? Io so”, in Corriere della Sera, 14 novembre 1974, in http://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html, consultato il 02/08/18.; Mirco Dondi, L’eco del boato…, cit., p. 395. Dondi precisa che l’articolo di Pasolini uscì pochi giorni dopo l’arresto del generale Vito Miceli che era stato capo del Sid, accusato di cospirazione contro lo Stato.
55 Tra questi c’è ad esempio Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 525. Il titolo dell’articolo di Pasolini è stato poi più volte ripreso, riutilizzato e adattato da molti anche in tempi recentissimi (come ricorda Guido Vitiello nel suo articolo “Più Sciascia e meno Pasolini”, in La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della Sera, 19 dicembre 2012, in http://lettura.corriere.it/piu-sciascia-meno-pasolini/, consultato il 28/08/18), come nel caso del magistrato Antonio Ingroia, autore insieme a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza del libro Io so, Chiarelettere, 2012, che cerca di ricostruire la verità dei rapporti fra mafia e Stato.
56 Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica…, cit., p. 428.
57 Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica…, cit., p. 263 e ss.
58 Secondo Satta, il terrorismo di matrice fascista si fu progressivamente debilitando, non tanto per i meriti delle forze di polizia o dei servizi segreti, ma più probabilmente perché vide poco a poco sfumare i suoi obiettivi politici. Vladimiro Satta, “La risposta dello Stato al terrorismo: gli apparati e la legislazione”, in Vene aperte del delitto Moro: terrorismo, PCI, trame e servizi segreti. – (Radici del presente), Firenze, Mauro Pagliai, 2009, p. 241.
59 Mirco Dondi, L’eco del boato…, cit., p. 400 e ss. L’autore individua tre livelli: i Nuclei di difesa dello Stato, di emanazione statale; la Rosa dei Venti e la Loggia P2 con importanti rappresentanti delle istituzioni; ON, AN, Fronte nazionale, Mar e Ordine nero, “cinque organizzazioni i cui atti criminosi sono coperti dalle istituzioni”. Le prime tre avrebbero avuto funzioni superiori rispetto alle altre.
60 Sono queste le parole dello storico Giovanni Sabbatucci nell’intervista rilasciata a Gian Guido Vecchi e pubblicata con il titolo “Lo stragismo di Stato? Categoria che non esiste”, in Corriere della Sera, 15 settembre 2008, in https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20080915/281805689734907, consultato il 10/07/17. Secondo Sabbatucci: «Terrorismo di Stato è il nazismo, naturalmente. Sono Stalin, il regime militare argentino, i colonnelli greci […] Ma deve avere una regia politica, istituzionale. […] E invece in Italia la formula si è ripetuta con disinvoltura».
61 Alessandro Naccarato, Difendere la democrazia…, cit., p. 26.
Lilia Zanelli, Gli anni di piombo nella letteratura e nell’arte degli anni Duemila, Tesi di dottorato, Università di Salamanca, 2018

In questo contesto, il 17 maggio 1973, davanti alla Questura di Milano, durante una cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi, lo scoppio di un ordigno provocò la morte di quattro persone. Subito arrestato, l’attentatore Gianfranco Bertoli si professò anarchico: una versione smentita successivamente dalle indagini della magistratura, da cui emersero contatti di rilievo con i servizi segreti italiani e, indirettamente, con quelli statunitensi <952. Anzitutto, si appurò che il Bertoli fosse un uomo della destra eversiva, vicino alla cellula veneta di On e a Carlo Maria Maggi. Bertoli inoltre era stata una fonte informativa del Sifar e poi del Sid, con tanto di retribuzione, e proprio da parte degli organismi di intelligence era scattata, subito dopo l’azione, la protezione e la copertura finalizzata a coprire l’identità politica dell’attentato. L’obiettivo della strage era quello di attentare alla vita di Rumor, presente alla commemorazione, colpevole di non aver proclamato lo stato di emergenza subito dopo la strage di Piazza Fontana e di aver promosso lo scioglimento di On nel febbraio 1972. In linea più generale, tuttavia, la strage si proponeva di determinare uno stato di caos e di tensione tale da rendere necessaria una svolta autoritaria. La matrice anarchica dell’attentato serviva solamente a mimetizzare i veri mandanti e responsabili dell’attentato, esattamente secondo le linee indicate nel Field Manual 30-31 e nel piano Chaos, volto a introdurre in gruppi di estrema sinistra elementi mimetizzati appartenenti a servizi di sicurezza o comunque legati agli ambienti estremisti, convincendo la popolazione che i colpevoli della strage fossero da individuare a sinistra. Per queste ragioni, e per tutti gli elementi emersi dalle inchieste giudiziarie che collegano Bertoli ad ambienti della destra e dell’intelligence, l’attentato alla Questura di Milano non può ritenersi un gesto isolato, ma va inserito all’interno della strategia della tensione e di un quadro costituito oltreoceano e già entrato in attività nei precedenti attentati che, attraverso una sofisticata opera di mimetizzazione, ha posto in essere l’operazione di occultamento della vera identità di Bertoli.
[…] I riflessi della svolta del 1974 si ebbero anche in Italia. Gli eventi susseguitisi durante tutto l’arco dell’anno fanno infatti pensare “a un mutamento parziale di strategia della Cia all’interno del blocco occidentale e dunque anche in Italia” <959. La portata di questo cambiamento si coglie nelle parole di Giovanni Pellegrino: “L’obiettivo strategico non mutò: restò ferma cioè la direzione di contrasto all’espansionismo comunista; a mutare furono i mezzi, meno rozzi e più sofisticati, cui fu affidato il perseguimento dell’obiettivo. Le tensioni sociali non sarebbero state più artificiosamente acuite nella prospettiva di creare le precondizioni di un golpe o comunque di una involuzione autoritaria delle istituzioni democratiche. Nel permanere e nel consolidarsi di queste, le tensioni sociali sarebbero state soltanto, in qualche modo ed entro certi militi, “tollerate” al fine di utilizzarne l’impatto su settori dell’opinione pubblica favorevoli al consolidamento elettorale di soluzioni politiche non eccessivamente sbilanciate a sinistra e sostanzialmente moderate” <960. Secondo questa ipotesi, pur continuando ad essere importante l’obiettivo di stabilizzare il quadro italiano, del quale preoccupavano soprattutto l’apertura a sinistra e le tensioni sociali, la strategia aggressiva che aveva caratterizzato l’operato degli Usa in Italia subì una battuta di arresto <961.
Gli aiuti finanziari occulti iniziarono ad essere distribuiti in maniera più cauta, evitando di destinarli ad esponenti dell’estrema destra e ai singoli candidati, e preferendo invece programmi elettorali circoscritti e ben definiti <962. Le forze che in Italia avevano tentato di sovvertire l’ordine democratico, si ritrovarono improvvisamente senza appoggio. In questo contesto appare comprensibile anche la decisione del governo italiano di colpire i vertici dello stato e gli esponenti delle organizzazioni più compromessi con l’eversione di destra <963.
[NOTE]
952 Il processo nei confronti di Bertoli, colto in flagranza, si concluse rapidamente con una condanna all’ergastolo emessa dalla Corte d’assise di Milano il 1° marzo 1975, confermata sia in appello che in cassazione e divenuta definitiva l’anno dopo. Più lungo fu invece l’iter del processo cui furono sottoposti Carlo Maria Maggi, Francesco Neami, Giorgio Boffelli, Amos Spiazzi e Carlo Digilio, accusati di essere stati i mandanti della strage e rinviati a giudizio il 18 luglio 1998 dal giudice istruttore di Milano Antonio Lombardi. A giudizio fu rinviato anche il generale Gian Adelio Maletti, capo del Reparto D del Sid, accusato di omissione di atti d’ufficio nonché di sottrazione e soppressione di atti e documenti riguardanti la sicurezza dello Stato. Le vicende giudiziarie e i fatti del 17 maggio sono ricostruiti da: P. Calogero, Questura di Milano, via Fatebenefratelli (17 maggio 1973), in A. Ventrone (a cura di), L’Italia delle stragi, cit. pp. 69-77.
959 N. Tranfaglia, La strategia della tensione e i due terrorismi, in C. Venturoli (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 42-43.
960 G. Pellegrino, Proposta di relazione, in Commissione stragi, cit. p. 116.
961 P. Pellizzari, La strage di piazza Loggia e l’occhio statunitense, in “Storia e Futuro. Rivista di storia e storiografia”, 20, giugno 2009, disponibile al link: http://storiaefuturo.eu/strage-piazza-loggia-locchio-statunitense/.
962 Gli aiuti poi saranno interrotti nel mese di dicembre 1974, per opposizione del Congresso allo stanziamento di 6 milioni di dollari da parte di Ford. C. Gatti, Rimanga tra noi, cit. pp. 144-145.
963 L. Cominelli, L’Italia sotto tutela, cit. p. 167.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

Dunque, dobbiamo sempre tenere conto di due elementi di fondo che per l’intelligence statunitense erano imprescindibili: una totale fedeltà atlantica (sancita pubblicamente con la firma del patto NATO) da una parte e un intransigente anticomunismo dall’altra. Gli americani, per assicurarsi che le nuove strutture italiane corrispondessero ad almeno uno di questi due principi, adottarono due linee diverse per l’uno e per l’altro servizio: – Per riformare il servizio militare si appoggiarono all’ambiente dell’antifascismo bianco e del lealismo monarchico, coi quali avevano già collaborato durante la guerra dopo l’otto settembre, e dei quali poterono assicurarsi la totale fedeltà soltanto dopo la firma del patto Nato, a cui seguirono altri protocolli di collaborazione molto stringenti; – Per il servizio informazione della polizia (ed in sostanza per tutta la pubblica sicurezza), la linea che si seguì fu quella del reintegro dei quadri dirigenti delle disciolte polizie d’epoca fascista (in particolare Ovra e Pai), il fervente anticomunismo dei quali non era messo in dubbio.
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020-2021

Il colpo di Stato organizzato da Edgardo Sogno mostra una natura molto diversa da quella del golpe Borghese: non è un colpo di Stato neofascista, poiché a suo dire Sogno odiava molto il fascismo, anche se l’odio verso di esso veniva di gran lunga superato dall’odio verso il comunismo, molto più viscerale. Questo è uno dei motivi per i quali inizialmente il progetto trovò approvazione sia in ambienti politici sia in ambienti militari, anche se venne successivamente accantonato perché secondo la valutazione dell’intelligence Usa e della Nato, avrebbe causato più problemi di quelli che voleva risolvere.
Pietro Menichetti, L’Italia del terrore: stragi, colpi di Stato ed eversione di destra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, Anno Accademico 2019-2020

Nel valutare i fattori che hanno contribuito a fare del 1974 un anno di svolta per la strategia della tensione, va riconosciuta anche “la sincera adesione ai valori di una democrazia parlamentare da parte delle maggiori forze politiche presenti in Parlamento. I pericoli che la democrazia correva nel difficilissimo periodo furono adeguatamente percepiti; le spinte anche internazionali verso una involuzione autoritaria furono certamente intuite, probabilmente conosciute, ma non assecondate” <968. Inoltre, le maggiori eredità del movimento del 1968 avevano favorito la creazione di un contesto sociale “contrario alle ricorrenti tentazioni di pronunciamenti militari e di involuzione autoritaria delle istituzioni, che nella seconda metà del decennio vennero quindi in gran parte abbandonate” <969.
[NOTE]
968 G. Pellegrino, Proposta di relazione, in Commissione stragi, cit. p. 118.
969 Ibidem.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

Una terza costante è rappresentata sia dai numerosi depistaggi, sia dagli apparati statali che obbedivano a logiche diverse rispetto a quelle democratiche <165. La difficoltà maggiore, nella stesura dell’elaborato, è dovuta proprio al fatto che su molte delle vicende trattate non sia stata fatta sufficiente chiarezza. Non sono state chiarite (se vi sono state) le responsabilità internazionali, non è stata fatta luce sul ruolo dei servizi segreti e sui loro rapporti con la P2. Queste informazioni sarebbero state fondamentali, poiché appare piuttosto inverosimile che dei movimenti extraparlamentari abbiano potuto agire da soli. Senza delle risposte certe, la politica nostrana si è divisa in quattro direzioni interpretative <166: la prima, riconducibile al PCI, al PSI e alla sinistra della DC, vedeva l’emergere di un nuovo fascismo sostenuto da alcune frange delle forze dell’ordine, dei servizi segreti, dell’esercito e dalla NATO. Questi ultimi utilizzavano l’estrema destra per indurre la sinistra a rinunciare a qualsiasi tipo di aspirazione <167. La seconda ipotesi, riconducibile alla destra della DC, interpretava il fenomeno come manifestazione della teoria degli opposti estremismi, secondo la quale erano in atto dei disegni eversivi provenienti sia da destra che da sinistra <168. La terza ipotesi, riconducibile all’estrema sinistra, interpretava il fenomeno come volto alla costituzione di uno Stato apertamente fascista <169. La quarta ed ultima, riconducibile all’MSI, vedeva nel terrorismo la longa manus dell’URSS <170. Quel che è certo è che il caso italiano non può essere spiegato senza fare un chiaro riferimento alla Guerra fredda. USA e URSS utilizzavano delle «strategie indirette» per inserire i paesi nel loro raggio di controllo, i primi sovvenzionando colpi di Stato, i secondi appoggiando i gruppi che portavano avanti la guerriglia rivoluzionaria. Fu in questo frangente che la NATO adottò la strategia della guerra psicologica in tutti quei paesi europei “a rischio”. Il caso italiano risultò particolarmente difficile poiché ospitava il partito comunista più grande d’Europa. Il declino della strategia della tensione fu dovuto alle dimissioni di Nixon e alla debolezza del successore Ford. La lotta armata, invece, deriva da una sfiducia della sinistra extraparlamentare nei confronti di tutti i partiti, accusati di far parte del Sim; paradossalmente i comunisti, che volevano fermare la violenza attraverso il compromesso storico, crearono per essa un terreno ancor più fertile. Se in un primo momento il problema era il terrorismo di destra fomentato sia da gruppi facinorosi che da vertici dello Stato, ora la questione del terrorismo riguardava anche la sinistra.
[NOTE]
165 A. Speranzoni, F. Magnoni, Le stragi: i processi e la storia. Ipotesi per un’interpretazione unitaria della “strategia della tensione” 1969-1974, Grafiche Biesse Editrice, Martellago-Venezia, 1999.
166 A. Giannulli, La strategia della tensione. Servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio complessivo, Ponte alle Grazie, Milano, 2018.
167 A. Giannulli, La strategia della tensione. Servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica
internazionale: un bilancio complessivo, Ponte alle Grazie, Milano, 2018.
168 Ibidem
169 Ibidem
170 Ibidem
Ida Maria Galeone, Democrazia in bilico: gli anni di piombo e la strategia della tensione in Italia, Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2021-2022

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