Libri / Restituire un nome, ricostruire una storia: Galassi e Varotto raccontano l’antropologia forense

Elena Percivaldi

L’antropologia forense è una disciplina che si fonda su un delicato equilibrio tra passato e presente. Studia i resti umani, ma lo fa con lo sguardo rivolto al futuro, con lo scopo di restituire identità ai morti, dare risposte alla giustizia, preservare la memoria collettiva. È questo il filo conduttore del volume Breve storia dell’antropologia forense (Bookstones Edizioni, 2024), firmato da Francesco Maria Galassi ed Elena Varotto: un testo che può interessare tanto lo specialista quanto l’appassionato di storia, criminologia e medicina legale, tanto più che di recente la disciplina sembra aver riscosso una fortuna che va oltre l’ambito degli addetti ai lavori.

I fatti di cronaca, dalla riapertura del caso Garlasco al duplice infanticidio di Traversetolo, dai delitti passionali con sparizioni annesse agli efferati femminicidi che ormai sono quasi all’ordine del giorno, hanno infatti acceso i riflettori sul mondo degli antropologi forensi, spesso chiamati a collaborare come esperti durante le indagini. Complici anche le serie tv, gli antropologi sono visti a livello popolare come un misto tra Sherlock Holmes, Indiana Jones e la Temperance Brennan, detta “Bones”, della nota serie tv statunitense, come il suo corrispettivo francese Balthazar impegnata a risolvere casi intricatissimi grazie a una ferrea preparazione scientifica illuminata da intuizioni geniali. Un successo, quello del genere scientifico-noir, testimoniato anche dal recente esperimento nostrano della serie “Costanza”,  andata in onda su Rai 1 dal 30 marzo al 13 aprile 2025 con buona accoglienza (qui parliamo per la verità di paleopatologia, ma poco cambia).

Gli autori del volume, entrambi acclarati specialisti, hanno l’indubbio merito di presentare un quadro completo della materia, mai appesantito da tecnicismi. Ne risulta un volume che all’elevata qualità scientifica assomma il pregio di una narrazione chiara e scorrevole, che accompagna il lettore in un percorso appassionante, intrigante e accessibile.

Le prime forme di identificazione

Il libro inizia mostrando come la curiosità dell’uomo verso l’identificazione dei corpi non sia affatto un fenomeno recente. Risalendo indietro nel tempo, si scopre che già in epoca antica esistevano pratiche che, seppur lontane dall’attuale metodo scientifico, mostrano un deciso interesse al tema.

Gli autori citano diversi episodi degni di nota, tra cui quello di Mitridate VI re del Ponto, grande nemico di Roma. Il suo corpo senza vita – siamo nel 63 a.C. e la voce narrante è quella di Plutarco – venne portato al cospetto di Pompeo, ma aveva il volto irriconoscibile perché gli imbalsamatori non avevano eliminato – come da prassi – il cervello, sicché il cadavere aveva iniziato a corrompersi.

Tetradramma d’argento raffigurante il profilo di Mitridate VI
Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76318046

A permettere di riconoscere in quel corpo quello di Mitridate sarebbero state le sue cicatrici, perfezionando quello che secondo gli autori sarebbe “il primo caso storicamente registrato di identificazione personale a partire dai resti cadaverici, utilizzando una tecnica razionale e basata sull’anatomia umana”.

Il “morso” di Guglielmo il Conquistatore

Dopo aver passato in rassegna altri casi dell’antichità, si arriva al Medioevo con il curioso episodio legato a Guglielmo il Conquistatore, il vincitore di Hastings (1066). Di lui si dice che fosse solito “firmare” i propri documenti mordicchiandone sigilli di cera, un’abitudine che per la verità – ci dicono sempre gli autori – aveva adottato anche l’indiano Aśoka, sovrano dell’impero Maurya nel III secolo a.C.

L’aneddoto dimostra un fatto importante: già molti secoli fa si era notato che la conformazione della dentatura variava da persona a persona e che il “morso” era dunque un segno distintivo e caratterizzante che permetteva di individuare chi lo aveva lasciato, un po’ come le impronte digitali. Non a caso, questa “prova” fu utilizzata anche per “incastrare” il predicatore puritano George Burroughs, condannato alla pena capitale nel 1692 perché accusato (ingiustamente) di aver morso alcune delle ragazze coinvolte nel celebre caso delle streghe di Salem. E ciò nonostante avesse un alibi di ferro: all’epoca dei presunti attacchi era… in carcere.

Non mancano ovviamente, nell’opera, riferimenti ai grandi medici dell’antichità, da Ippocrate a Galeno, che con i loro studi posero le basi dell’osteologia. Se in quei secoli non esisteva ancora un’antropologia “forense” come la intendiamo oggi, i semi di questa disciplina erano già presenti e avrebbero germogliato presto.

Il caso Parkman e la nascita della scienza forense moderna

Il salto decisivo avvenne tra XIX e XX secolo, quando l’antropologia cominciò a rapportarsi e a dialogare in modo sempre più serrato con il sistema giudiziario. Uno dei casi più celebri è, da questo punto di vista, l’omicidio di George Parkman, medico di Boston assassinato brutalmente il 23 novembre 1849. Il suo corpo, smembrato e bruciato, fu identificato grazie al lavoro di Jeffries Wyman, anatomista di Harvard. Le prove raccolte consentirono di inchiodare il colpevole, John White Webster, docente al Harvard Medical College a Cambridge (Massachusetts), il quale fu processato e condannato all’impiccagione. L’episodio segnò una svolta, mostrando come l’analisi dei resti potesse indirizzare il corso della giustizia in maniera decisiva.

L’uccisione di Parker in un disegno dell’epoca (Public Domain, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=11575479)

Maria Antonietta e l’odontoiatria forense

L’attenzione ai casi concreti è, senza dubbio, uno degli aspetti più riusciti del libro. Citiamo ad esempio quello della regina di Francia Maria Antonietta, ghigliottinata il 16 ottobre 1793 e seppellita insieme al marito Luigi XVI, il quale già a gennaio l’aveva preceduta sul patibolo, nel cimitero del al Madeleine. I corpi dei due sovrani furono riesumati nel 1815 durante la Restaurazione, e sul posto fu eretta la Chapelle Expiatoire in memoria delle vittime della Rivoluzione. Le ossa furono trasferite nella necropoli reale di Saint-Denis, dove riposano tuttora.

Élisabeth Vigée Le Brun, Ritratto di Maria Antonietta con la rosa, olio su tela, 1783, Reggia di Versailles (Wikimedia Commons)

Al disseppellimento era presente, tra gli altri, il celebre scrittore François-René de Chateaubriand, il quale – come avrebbe raccontato egli stesso in una memoria – riconobbe la testa della regina per il sorriso che una volta gli aveva rivolto a Versailles: un sorriso “particolare” , dovuto agli interventi del dentista Pierre Laveran, il quale le aveva corretto alcune malformazioni dentarie, conferendole quell’aspetto inconfondibile che molti a Parigi, evidentemente, ancora ricordavano bene.

La strage del Bazar de la Charité

Riconoscendo in questo modo la regina, ricordano gli autori del libro, Chateaubriand anticipò di oltre 80 anni le identificazioni odontologiche basate sul raffronto tra morfologia dentaria e cartelle cliniche. Una prassi che si sarebbe rivelata particolarmente preziosa nel 1897 quando, dopo un disastroso incendio scoppiato a Parigi, sarebbe stato necessario basarsi proprio sulle dentature per dare un nome alle vittime – tra cui numerose nobildonne – rimaste intrappolate nel rogo del capannone ligneo che ospitava il Bazar de la Charité.

Wikimedia Commons

Le fiamme, raccontano le cronache, scoppiarono quando le attrezzature del proiezionista, che stava mostrando alcune immagini messe a punto con la recente tecnica dei fratelli Lumière, presero fuoco. L’identificazione dei 112 corpi carbonizzati, che fu ottenuta mediante il raffronto dentale, costituisce una pietra miliare nella storia dell’odontoiatria forense.

I denti di Hitler

Passando al Novecento, gli autori tra i tanti casi possibili scelgono di trattare la controversa vicenda dell’identificazione del dittatore nazista Adolf Hitler, che secondo testimoni oculari si sarebbe tolto la vita il 30 aprile del 1945 nel bunker di Berlino ingerendo una capsula di cianuro e sparandosi, simultaneamente, un colpo di pistola alla tempia destra. Il suo corpo, così come quello di Eva Braun – anche lei suicidatasi con il cianuro – sarebbe stato quindi portato per sua stessa disposizione nel giardino della Cancelleria del Reich e bruciato per evitare che cadesse nelle mani dei sovietici e fosse sottoposto a dileggio.

I resti furono individuati e recuperati dall’Armata Rossa e portati in gran segreto a Magdeburgo, dando origine a una serie di voci (mai provate, ma ugualmente care ai complottisti) secondo le quali il Führer sarebbe uscito da Berlino vivo e vegeto e avrebbe trovato rifugio in Sud America.

Perché quei resti fossero analizzati si dovette attendere il 1973 e l’opera di due ricercatori, il medico forense Reidar F. Soggnaes e l’odontologo svedese Ferdinand Strøm, i quali identificarono Hitler grazie al confronto tra le protesi dentarie trovate e le radiografie del cranio che erano state effettuate nel 1944-45, dopo che il leader di un gruppo anti-nazista aveva cercato di ucciderlo.

Il confronto confermò l’esatta corrispondenza tra lastre e protesi, fugando ogni dubbio. In seguito, l’identificazione fu confermata da altri studi indipendenti.

Radiografia del cranio di Hitler (1944)

La vicenda si chiuse, come si sa, nel 1970 con la cremazione dei resti del dittatore nazista e la loro dispersione nell’Elba, mentre le protesi furono inviate a Mosca, dove sono conservate come prova.

Il caso dei Romanov

A proposito di orrori del Novecento e di identificazioni controverse, ricordiamo anche un altro caso celebre – che gli autori nel volume non affrontano, forse perché fin troppo noto -, quello dei resti della famiglia imperiale dei Romanov, i cui membri – lo zar Nicola II, la moglie Aleksandra Fëdorovna e i cinque figli Olga, Tatiana, Maria, Anastasia e Alessio – furono fucilati dai rivoluzionari bolscevichi la notte tra il 16 e il 17 luglio 1918.

I Romanov (Wikimedia Commons)

Dopo anni di ricerche e di misteri, nel maggio 1979 i resti furono rinvenuti in una fossa comune nella foresta non lontano da Ekaterinburg, il luogo dove i Romanov erano stati barbaramente uccisi. L’esistenza dei reperti fu resa pubblica solo nel 1989, dopo la caduta del comunismo in Russia. Tre anni dopo, nel luglio 1991, le ossa di cinque membri della famiglia imperiale (lo zar, la zarina e tre delle loro figlie) vennero esumate e sottoposte a una lunga serie di analisi forensi.

Successivi test del DNA, condotti utilizzando campioni estratti da una camicia insanguinata di Nicola II, hanno confermato l’identità dei defunti: anche di quelli dello zarevic Alessio e della sorella Maria, scoperti nel 2007.  I test sono stati ripetuti nel 2015, ribadendo l’identità di Nicola II e della moglie. Oggi i Romanov riposano tutti nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo.

Dai grandi disastri all’11 settembre: il ruolo cruciale della disciplina

Al di là dei casi celebri, l’antropologia forense si è rivelata fondamentale anche in molti altri contesti, in primis quelli segnati dalle catastrofi collettive. Possiamo citare a titolo di esempio le operazioni di identificazione seguite ai tremendi attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001: i resti rinvenuti in quello scenario di orrore risultarono, in molti casi, talmente smembrati e frammentati che l’identificazione delle vittime cui appartenevano fu possibile solo grazie all’analisi comparativa dei denti.

Lo stesso vale per l’attentato di Oklahoma City (1995) e per le vittime dell’uragano Katrina (2005), casi in cui le ossa e i denti furono talvolta l’unico strumento per ridare un nome ai corpi. La disciplina, in scenari siffatti, ha l’occasione di mostrare anche il suo volto più umano, travalicando i confini della scienza per abbracciare la sfera della pietas e restituendo ai resti la loro dignità e la loro storia.

L’Italia tra eccellenze e ritardi

E l’Italia? Per quanto riguarda l’antropologia, sembra viaggiare a due velocità. Da un lato, ricordano gli autori, non mancano eccellenze riconosciute a livello internazionale, come il LABANOF di Milano, diretto da Cristina Cattaneo, che si distingue non solo per lo studio dei resti del passato (due esempi su tutti, di cui abbiamo parlato diffusamente qui su Storie & Archeostorie: l’analisi delle ossa dei caduti delle Cinque Giornate e l’esame dello scheletro di sant’Ambrogio), ma anche per il lavoro condotto nel tentativo di identificare le vittime dei tanti, troppi naufragi che funestano il Mediterraneo.

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Dall’altro, pesa senza dubbio una certa lentezza istituzionale nel riconoscere in maniera chiara e codificata il ruolo dell’antropologo forense nei protocolli ufficiali, conferendo a questa specializzazione l’importanza che merita. Il libro ricorda a tal proposito episodi emblematici, come il terremoto che si abbatté sull’Aquila nel 2009, in cui l’apporto degli antropologi forensi fu inizialmente trascurato. Una mancanza che dimostra come la disciplina sia ancora in cerca di piena legittimazione (e valorizzazione) nel nostro Paese.

Fortunatamente non mancano realtà innovative, come il FAPAB Research Center in Sicilia, fondato dagli stessi Galassi e Varotto, che si propone come centro indipendente di ricerca e divulgazione e nel tempo ha condotto studi importanti che hanno raggiunto la notorietà internazionale: primo fra tutti, quello relativo alla statura di Michelangelo Buonarroti partendo dalle sue scarpe. Segnali senza dubbio positivi, ma di un processo ancora in corso.

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Il significato sociale e umano dell’antropologia forense

Importante è poi anche il sottolineare come l’antropologia forense non sia solo una disciplina “tecnica” ma al contrario porti con sé un forte valore etico e sociale. Dare un nome ai morti significa infatti restituire in primis agli individui una dignità e una storia personale, e poi permettere ai vivi di elaborare il lutto e restituire giustizia sia alle vittime che alla loro comunità.

Quanto tutto ciò sia importante lo si vede soprattutto nei contesti di conflitto e genocidio: basti pensare alle indagini effettuate dagli antropologi forensi all’indomani delle guerre che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso hanno insanguinato la ex Jugoslavia: la scoperta, lo scavo e l’analisi dei resti dissotterrati nelle innumerevoli fosse comuni hanno richiesto un delicatissimo lavoro di riconoscimento, che in molti casi è riuscito a restituire alle famiglie il corpo dei loro cari e un briciolo di verità. In casi come questi, la scienza diventa strumento di memoria collettiva e (forse) anche di riconciliazione.

Un libro per specialisti e appassionati (e un richiamo all’etica)

In definitiva, Breve storia dell’antropologia forense è senza dubbio un’opera dal respiro ampio, che nonostante la relativa brevità – poco più di 120 pagine – riesce a intrecciare aneddoti curiosi, casi giudiziari, riflessioni etiche e storia della scienza in un percorso appassionante. A Galassi e Varotto va il merito di aver dato vita non tanto a un manuale tecnico, quanto a una bellissima sintesi accessibile, chiara e ben scritta arricchita da esempi concreti e collegamenti storici illuminanti.

Il volume serve agli studenti come indispensabile approccio storico alla materia, ma andrebbe letto anche dagli appassionati di storia e di cronaca giudiziaria, data la strabordante attenzione mediatica riservata ultimamente ai casi di cronaca nera, da Garlasco in giù, ormai onnipresenti nei tg, sulla stampa e nei programmi “contenitori”, il più delle volte affrontati enfatizzandone gli aspetti più misteriosi, inquietanti e morbosi.

Gli autori invece ci ricordano, con questo volume e con la loro opera di seria divulgazione – si vedano in particolare gli interventi di Elena Varotto su Tag 24, in “Incidente Probatorio” su Canale 122 e su DarkSide – Storia Segreta d’Italia – che dietro i resti umani ci sono prima di tutto vite spezzate, famiglie distrutte, storie da ricostruire, verità negate (o occultate) da riportare alla luce. Tutte cose che andrebbero maneggiate con tatto, sensibilità, empatia. E soprattutto, con il dovuto rispetto.

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Breve storia dell’antropologia forense. Una pagina nella storia della medicina

Quest’opera presenta al pubblico la storia dell’antropologia forense, disciplina scientifica resa famosa in anni recenti da romanzi e serie televisive, ma ancora troppo poco compresa nella sua natura contemporanea e accademica, finendo spesso fraintesa per l’antropologia biologica lato sensu o la obsoleta antropologia criminale. È, invece, la scienza che, utilizzando anche metodi propri dell’antropologia biologica, ha come principale obiettivo l’identificazione positiva, in contesto giudiziario, di un soggetto la cui identità è sconosciuta, a partire dall’analisi dei suoi resti mortali.

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Come si muore dopo essere stati risucchiati dal motore di un aeroplano?

È di oggi la notizia tragica di un uomo di circa 35 anni, Andrea Russo, che questa mattina intorno alle 10,20 si sarebbe introdotto nell’area dell’aeroporto di Orio al Serio (Bergamo) e si sarebbe gettato (o fatto risucchiare) intenzionalmente nella turbina di un Airbus A319 Volotea in partenza verso la Spagna, rimanendo ucciso. Ma è davvero possibile morire dopo essere risucchiati da un motore aereo o lanciandosi al suo interno come sembra essere accaduto questa mattina? Una evenienza purtroppo possibile, come confermato proprio dalla tragedia odierna.

Come funziona un motore a reazione

I motori a reazione, come quelli montati sugli aerei di linea, funzionano aspirando grandi quantità d’aria attraverso una ventola anteriore, comprimendola, miscelandola con carburante e accendendola. L’aria calda e in espansione viene quindi espulsa ad alta velocità, generando spinta.
Durante questa fase, soprattutto al decollo o in fase di spinta massima, il motore può aspirare centinaia di chilogrammi d’aria al secondo. È proprio questa fase di aspirazione forzata che rappresenta un potenziale pericolo per chi si trovi troppo vicino alla presa d’aria del motore.

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La zona di pericolo: fino a 4 metri dal motore

Ogni motore ha una cosiddetta ingestion danger zone (zona di pericolo per l’aspirazione), che può estendersi fino a 3 o 4 metri davanti alla presa d’aria, a seconda della potenza del motore e del regime operativo. La forza di aspirazione diminuisce con la distanza, ma entro i 2-3 metri da un motore attivo la spinta può essere sufficiente a trascinare una persona adulta, specialmente se colta di sorpresa.

Quali sono le cause della morte se vengo risucchiato?

Le cause della morte, dopo essere stati risucchiati dal motore di un aereo, sono diverse:

  • Traumi meccanici immediati: la ventola anteriore del motore gira a migliaia di giri al minuto con pale in metallo molto resistenti. Se il tuo corpo viene a contatto con le pale, viene istantaneamente distrutto o sezionato, causando traumi cranici, toracici e addominali massivi, sminuzzamento, mutilazioni e/o decapitazione.
  • Decelerazione improvvisa e schiacciamento: anche se pesi 100 kg, il potentissimo risucchio della turbina – che supera i 200 km/h – può imprimere al tuo corpo un’accelerazione violenta e incontrollabile, proiettandoti contro le strutture del motore: questo porta a lesioni interne letali, fratture multiple e schiacciamento toracico/cranico incompatibili con la vita.
  • Calore estremo: nelle camere di combustione del motore (post fan/compressori), le temperature superano i 1000 °C, quindi – anche se il tuo corpo vi arriva integro superando le prime barriere fisiche (evento praticamente impossibile) può carbonizzarsi o vaporizzarsi parzialmente o totalmente quasi all’istante.
  • Asfissia e barotrauma: in caso di sopravvivenza iniziale (estremamente improbabile), l’aria compressa, il rumore estremo e la pressione possono causare rottura dei polmoni, del timpano, embolie gassose e arresto cardiaco riflesso.

Si prova dolore?

Il medico legale in questi casi riscontra: lesioni incompatibili con la vita, mutilazioni gravi e multiple, assenza di segni vitali immediati. Quest’ultima è l’unica cosa “positiva” legata alla morte da risucchio in un motore di un velivolo: si viene spinti al suo interno in un attimo ed il decesso è pressoché istantaneo, tale per cui, nella maggioranza dei casi, non ci si accorge neanche della tragica fatalità di cui si è protagonisti e – almeno teoricamente – non si fa in tempo a provare dolore.

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Si può sopravvivere?

Sopravvivere quando “si ha a che fare con il motore di un aeroplano”, non è del tutto impossibile. Esistono casi documentati in cui persone sono sopravvissute a un contatto ravvicinato con il motore, ma mai a un “risucchio completo” in funzione. Alcuni incidenti hanno coinvolto personale di terra che è stato “parzialmente risucchiato” o investito dall’aria, ma è riuscito a salvarsi perché il motore era al minimo regime o è stato immediatamente spento. Un caso famoso è quello del tecnico John Bridger, che nel 2006 fu risucchiato da un motore GE CF34 ma fu espulso dallo stesso grazie a una rara combinazione di eventi, uscendone miracolosamente vivo con ferite minori.

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Altri casi di cronaca

Purtroppo, casi documentati di morte da risucchio in una turbina di un aereo, esistono, a partire da quanto successo questa mattina. Nel 2006, un tecnico di manutenzione fu risucchiato da un motore di un Boeing 737 a El Paso, Texas, mentre l’aereo era pronto al rullaggio. Il motore era acceso e il tecnico si trovava troppo vicino alla presa d’aria. L’incidente fu fatale. Un caso simile si è verificato nel maggio 2024 all’aeroporto di Schiphol, Amsterdam, dove una persona fu risucchiata da un Embraer in partenza per Billund. Anche lì non era chiaro se fosse suicidio, incidente o dipendente in corso di lavoro.

Per approfondire: Morte per incidente aereo in medicina legale

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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