<<Si presenta come la scelta ragionevole organizzare l'economia chiedendo sacrifici al popolo, per raggiungere certi scopi che interessano ai potenti>> (Papa Leone XIV, Dilexi te, 93).
Giorgia Meloni ha detto ieri che la pace si costruisce con i fatti, non con le parole. Quale pace e quali fatti, verrebbe da chiedersi. La realtà può essere raccontata bene o male, in buona o mala fede, ma i Greci ci hanno insegnato che i fatti sono fatti. Pilato chiede a Gesù cos'è la verità (Gv 18,28) perché non la vede, pur avendocela di fronte. Questa pace che si costruisce con questi fatti e non con le parole, a chi lo dice vorrei chiedere soprattutto - quali parole.
Dobbiamo costruire la pace. È faticoso, perché si tratta di mettere da parte qualcosa di noi stessi, facendo spazio agli altri. Non aspettiamo che arrivi il giorno in cui non avremo alternative alla pace e ovunque sulla terra sarà chiaro che la strada è una sola e che ci siamo sbagliati credendo che ce ne fossero altre. Facciamo la pace subito, quando sembra ancora impossibile. Che dici? È assurdo? Ma la pace è questa: far posto a ciò che non par vero, accogliere il mistero della verità.
L'incontro con Gesù Cristo ti cambia la vita, e questo non si può tacere. Io amavo il silenzio, ma ho compreso che il silenzio ha la sua bellezza e la sua morte. In 2Cor 4,13 s. Paolo scrive che <<anche noi crediamo e per questo parliamo>>. La fede non te la tieni dentro, come una cosa definitivamente tua su cui nessuno può accampare diritti. Al contrario la possiedi se la dai di continuo e con essa ogni volta cedi anche te stesso. Siamo noi stessi quando non lo siamo più; quando facciamo posto.
S. Paolo in Rm 1,5 e 16,26 parla di obbedienza (ὑπακοή) della fede. Alle orecchie di noi moderni questo atteggiamento suona almeno sospetto. Ma la lingua ha profondità e finezza. Infatti ὑπακούω, prima che obbedire, significa ascoltare, e ascoltare in conseguenza di uno stimolo esterno. La fede può essere una questione di onestà intellettuale, e tale è stata per me, che ho dovuto, con serietà e senza schiocchi di dita, iniziare a credere, non per smentire, ma al contrario per restare, me stesso.
Nella lettera al Corriere della Sera di qualche giorno fa papa Francesco ha richiamato il <<grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità>>. Le semplificazioni, le formule urlate, gli appelli alla pancia non sono mai la soluzione e diventano pericolosi quando abitano stabilmente ai piani alti. Tutti siamo presi dalla voglia di parlare, ma a chi di noi interessa ancora ascoltare? Eppure è di ascoltatori che il mondo, come le nostre piccole e grandi vite, avrebbero fame.
Ho vissuto e vivo sulla mia pelle le difficoltà e i problemi che pone una conversione in età adulta. Ci sono mappe neurali con cui bisogna fare i conti, e questa è fisiologia spiccia. Agli increduli (o resistenti) il Gesù di Gv 10,37-38 sembra offrire un metodo: <<Se non faccio le opere del Padre mio, continuate a non credere in me; se invece le faccio, e non volete credere in me, credete almeno a queste opere>>. Dove la ragione ostacola la fede, per coerenza la stessa ragione consideri i fatti.
<<L'ultima parola di Dio si chiama "Gesù" e niente di più>>. In un'omelia a Casa Santa Marta del 9 giugno 2015, Papa Francesco tornava sul pericolo per la fede delle rivelazioni private. Tutto ciò che c'è da sapere, ce l'ha detto Gesù, una volta e per sempre. Non occorre aggiungere altro. Andare in cerca d'altro porta fuori del seminato. D'altra parte il Vangelo continua a parlare da duemila anni, tirando fuori dal proprio tesoro <<cose vecchie e cose nuove>> (Mt 13,52). Al centro, dunque, Gesù.
<<Che cosa intendi dire? Io appartengo alla più piccola famiglia della tribù di Beniamino, la più piccola tribù d’Israele>> (1Sam 9,21). La reazione di Saul, primo Re d'Israele, uscito in cerca delle asine smarrite e consacrato da Samuele secondo il volere del Signore, tipica di tante vocazioni, mostra per via indiretta l'incommensurabilità della logica divina rispetto a quella umana. Dove l'uomo vede carenze, Dio sceglie ricetti; dove l'uno scarta, l'Altro edifica.
Dalla scala della fortezza Antonia di Gerusalemme, Paolo, rivolgendosi agli Ebrei di Gerusalemme, inizia la sua lunga apologia partendo dal racconto della conversione. Quando ricorda il martirio di Stefano, riconosce le proprie colpe: <<ero presente anch'io. Approvavo quelli che lo uccidevano>> (At 22,20). Questo passato da persecutore, che pesa su Paolo, può essere superato solo nel piano della salvezza: <<Ma il Signore mi disse: - Va'! Io ti manderò lontano tra gente straniera>> (At 22,21).